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Quando Trump ha annunciato che Washington riconoscerà Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele, gli uomini dell’intelligence egiziana devono aver pensato che il faticoso accordo di riconciliazione nazionale raggiunto fra Hamas e Fatah alcune settimane fa era stato, probabilmente, solo tempo perso.

La decisione del Presidente degli Stati Uniti d’America porterà con tutta probabilità ad una nuova escalation con i palestinesi. Hamas ha già annunciato una mobilitazione di massa e nuovi scontri sono già in corso.

Deve essere stata la medesima espressione di sconforto, tristezza e certamente rabbia successiva agli attentati nella penisola del Sinai: centinaia di morti per un attacco di straordinaria efficacia contro una moschea sufi in un territorio controllato da una tribù che ha costantemente sostenuto gli sforzi governativi per bloccare i movimenti terroristici che da anni operano nella regione.

Val la pena di sottolineare che da anni, e non da ieri, il Sinai è tormentato da tensioni che hanno prodotto decine e decine di morti fra i civili, le forze armate, le forze di polizia ed ovviamente gli autoproclamati salafiti jihadisti che hanno imbracciato le armi in nome di un non meglio specificato califfo o califfato.

Dopo la strage di novembre nella moschea in Sinai (da https://www.avvenire.it/mondo/pagine/ attacco-in-moschea-in-egitto-50-i-morti)

Sì, perché la dimensione del jihadismo armato nella penisola del Sinai è ben lontano dall’essere omogenea e monolitica, apparendo invece come un insieme multiforme molto difficile da inquadrare. Gruppi fedeli ad al-Qaeda combattono le filiazioni dell’ormai defunto Daesh. Gruppi tribali contigui territorialmente si combattono per la supremazia aderendo a questa o quella ideologia, senza andare troppo per il sottile. La sopravvivenza ed il potere sono due necessità equivalenti.

Peraltro il caso egiziano ci mostra un al-Qaeda particolarmente in forma rispetto a Daesh che sembra non solo aver perduto il suo appeal violento nelle masse dei giovani arabi e musulmani, ma soprattutto sembra ormai debellato dal punto di vista territoriale. Questo significa che osserveremo una sensibile riduzione del terrorismo internazionale? Difficile prevedere il futuro, impossibile oserei dire, ma certamente Daesh sta progressivamente perdendo consensi e sostegno nonché importanti porzioni di territorio. Ed allora ecco che i miliziani di al-Qaeda tornano alla ribalta: in Sinai come altrove.

Il generale al-Sisi, oggi Presidente dell’Egitto (da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/ commons/thumb/e/e2/General_Al_Sisi.jpg/ 228px-General_Al_Sisi.jpg)

Al confine con la Libia, ad esempio, dove realtà come al-Mourabitoun hanno un peso sempre maggiore, o nel Sinai appunto, dove Jund al-Islam ha dichiarato apertamente guerra a Daesh, con buona pace delle misure anti-terrorismo messe in pratica dal 2013 dal governo egiziano. Una vera e propria spina nel fianco per tutti i presidenti egiziani, talvolta utilizzata per distogliere l’attenzione dai problemi interni nella migliore tradizione di ogni dittatura, ma il più delle volte vero e proprio problema di sicurezza che ha avuto pesantissime ripercussioni sul turismo nell’area del Mar Rosso.

Eppure forse il Sinai e Gerusalemme non sono questioni poi così distanti come si potrebbe credere. Secondo il The Jerusalem Post ci sarebbe un piano per spostare, letteralmente, palestinesi dalla West Bank e da Gaza nel deserto del Sinai creando in loco un loro Stato indipendente. Il tutto farebbe parte di uno scambio più ampio che includerebbe anche concessioni territoriali su altre aree geografiche anche se, a dirla tutta, sembra più una elucubrazione mentale degna del Risiko piuttosto che una reale proposta diplomatica. La storia del Vicino Oriente ci ha abituati a tutto ed il contrario di tutto, ma per ora tale proposta sembra fantascienza.

Se la soluzione per il problema del Sinai non saranno i palestinesi, non lo sarà probabilmente nemmeno la forza bruta che il Presidente al-Sisi ha ordinato di utilizzare su vasta scala nella regione per stanare i jihadisti. O almeno non sta funzionando dal 2013. Una soluzione duratura e sostenibile per la regione, oltre ovviamente che una durissima repressione del terrorismo, non può che includere piani di sviluppo economico che in effetti effetti l’Egitto, con l’aiuto di realtà come il Kuwait, ha recentemente provato a mettere in piedi. Come ha scritto il New York Times la vendetta sarà durissima, ma la strategia resta assolutamente fallimentare. Il 24 aprile del resto al-Ahram magnificava il lavoro del contro-terrorismo egiziano affermando che il terrorismo jihadista stava collassando, deridendo la propaganda jihadista che si ritraeva vincente e gloriosa quando invece il muro dell’unità nazionale si stava abbattendo su di loro. I risultati dopo solo pochi mesi sono di segno diametralmente opposto.

Un mercato al Cairo (da https://i.pinimg.com/originals/b2/b4/ ae/b2b4aebc7d6a10c3c0207b19ffedd14b.jpg)

Così come estremamente negativi i risultati economici. Il 7 dicembre 2017 la Banca mondiale ha accordato un prestito di un miliardo di dollari che dovrebbe mitigare gli effetti di una crisi economica drammatica con – giusto per citare un dato – un tasso di cambio nei confronti della valuta straniera giunti a livelli insostenibili. Agli inizi di dicembre il Carnegie Endowment for International Peace sottolineava la mancanza di investimenti diretti esteri, un debito in crescita, mancanza di prodotti, tagli ai sussidi statali e molti altri dati economici, interessanti ma decisamente complessi da elencare e che danno l’idea di una economia in emergenza che non sembra avere una strategia sostenibile di lungo periodo.

Più dei dati basta osservare i volti degli egiziani, ancora quelli degli uomini di servizi di sicurezza, che hanno visto il valore d’acquisto del loro stipendio ridursi e che affrontano il futuro con sempre maggiore incertezza: dal punto di vista economico, della sicurezza e delle prospettive politiche. Tahya Misr. Viva l’Egitto. Inshallah. Se Dio Vuole.

Marco Di Donato, ricercatore Centro Studi UNIMED