Guerra-Civile-SpagnolaForse l’unico punto di tangenza che si può stabilire tra il recentissimo golpe turco e il pronunciamento dell’esercito spagnolo di venerdì 17 luglio 1936 è il fatto che entrambi sono stati golpe falliti. Se in Turchia il fallimento del colpo di stato ha visto il ripristino del governo di Erdoğan, in Spagna fu proprio il fallimento della sollevazione militare dovuto all’inaspettata, e giusta, resistenza del governo del Fronte Popolare, vincitore delle elezioni del febbraio 1936, che aprì tre anni di sanguinosa guerra civile.

Per comprendere la guerra civile spagnola credo che sia ormai insufficiente considerarla come una sorta di scontro epico tra fascismo e antifascismo o meglio, non è più possibile vedere quelle vicende come la riproduzione in scala del conflitto europeo tra democrazie e dittature della prima metà del XX secolo, o comunque, non più esclusivamente. In particolare, la ricerca storica ha messo in luce l’esistenza di una terza Spagna, quella dei ceti medi che non voleva assecondare una dittatura militare ma nemmeno una anarchica o socialista.

Questo schema storiografico, in realtà, semplifica eccessivamente la complessa vicenda spagnola, anche se è proprio alla luce di esso che la guerra civile suscitò non solo il rapido coinvolgimento e la mobilitazione dell’opinione pubblica europea, ma anche l’intervento armato da parte delle potenze fasciste che, dietro l’affermazione di voler combattere il pericolo comunista, intendevano farla finita con le democrazie europee.

Francisco Franco (da http://www.df.unipi.it/~alles/FIGS/francisco-franco.jpg)
Francisco Franco (da http://www.df.unipi.it/~alles/FIGS/francisco-franco.jpg)

La guerra civile fu interpretata in vari modi dai soggetti politico-sociali coinvolti. Dalla parte della Spagna dei ‘nazionalisti’, così come amavano chiamarsi i generali ribelli di Franco, si costruì il mito di una guerra per l’ordine e l’autorità contro una Spagna democratica e bolscevica (mentre non c’era nessun pericolo simile); dalla parte della Chiesa la guerra era intesa come una guerra santa contro il comunismo ateo e materialista: così si espresse il cardinale Gomà, primate di Spagna; dalla parte repubblicana la guerra fu vista sia come una lotta di classe tra proletari oppressi e borghesia capitalistica (lettura delle componenti anarco-sindacaliste) sia come guerra tra democrazia e fascismo per la difesa delle libertà civili e politiche (lettura della componente repubblicana-liberale). E possiamo solo accennare a quella peculiare guerra civile che fecero, in nome della loro tradizione autonomista, i Paesi Baschi e la Catalogna. Nella complessa geografia ideologica dei difensori della Repubblica si inserivano anche il Partito comunista spagnolo (il cui ruolo fu all’inizio assai marginale) e i trozkisti e antistalinisti del POUM di Andreu Nin che, nel settembre del 1936, scriveva: «In Spagna non si combatteva per la Repubblica democratica ma per la Repubblica socialista».

Bisogna indagare le ragioni della sconfitta repubblicana andando al di là della scontata affermazione: la Repubblica ha perso perché Franco era più forte. Piuttosto si tratterà di cogliere tutte le difficoltà interne e le divisioni politiche che attraversavano la Repubblica e che essa non riuscì a comporre col metodo della forma democratica, cioè la mediazione. Quando le contraddizioni della Spagna degli anni ’30 esplosero, il risultato non poté che essere una guerra di straordinaria violenza tanto da far scrivere a uno sgomento François Mauriac, nell’agosto del 1936, che quelle civili «sono le più impure di tutte le guerre, e quello che generano sono le più ineluttabili sequele di crimini».

manifesto spagnaNon bisogna sottovalutare il difetto di riconoscimento che minacciava il governo repubblicano: infatti gli anarchici e i socialisti avevano sostenuto il Fronte popolare alle elezioni del febbraio del ’36, ma avevano come obiettivo la conquista del potere della classe operaia; si pensi al leader dell’UGT, il sindacato socialista, Largo Caballero (forse uno degli uomini più irresponsabili della Repubblica), esponente del socialismo rivoluzionario contro quello riformista di Indalecio Prieto. Secondo Caballero, il governo repubblicano e la sua forma parlamentare e liberale erano da considerarsi provvisori come il governo Kerenskij secondo Lenin. Si pensi ancora alle aspirazioni degli anarchici, riuniti nel potente sindacato CNT, che consideravano la democrazia liberale un strumento dell’ordine borghese da superare.

Non si può non riconoscere l’immenso sforzo di modernizzare e laicizzare la Spagna da parte delle forze del governo, che tuttavia commise notevoli errori: l’anticlericalismo feroce, persecutorio e indiscriminato; la continua mortificazione della prassi democratica anche da parte di repubblicani e liberali come il presidente della Repubblica Manuel Azaña; il minimizzare, da parte del presidente del Consiglio Casares Quiroga, la notizia della preparazione di un golpe già dal maggio 1936.

Tuttavia, nonostante questi errori e limiti, quando scoppiò la sollevazione militare il governo repubblicano operava in piena legittimità costituzionale: proseguiva la riforma agraria iniziata nel 1931; inaugurava una politica fiscale a tratti contraddittoria; completava la separazione tra Stato e Chiesa e metteva fine al monopolio educativo ecclesiastico.

In nome della giustizia sociale si ripresero le confische delle proprietà dei grandi latifondisti; si verificarono anche occupazioni di terre da parte di contadini: la vittoria del Fronte popolare aveva acceso in loro aspirazioni messianiche di egualitarismo che sfociavano nell’illegalità. Il governo faticava a contenerle, mettendo così in discussione la sua stessa tenuta e la credibilità della riforma agraria. Si avviarono processi di collettivizzazione delle terre che, andando oltre i punti del programma elettorale del Fronte, spaventarono anche piccoli e medi proprietari o fittavoli, generalmente favorevoli alla Repubblica.

Nelle fabbriche gli operai rivendicavano aumenti salariali a volte ingiustificati e irragionevoli; da febbraio a maggio del 1936 gli scioperi raddoppiarono rispetto a quelli fra il 1932 e il 1934. Il Partito comunista spagnolo, marginale con solo 17 deputati su 470 in Parlamento, raccomandava di porre fine a ogni estremismo anarchico e socialista perché avrebbe disgregato il Fronte popolare.

L’inno della repubblica spagnola, “el himno de Riego”

Nel luglio del 1936 le forze di ispirazione conservatrice contrarie al programma politico del governo formarono quel blocco di potere che decise di chiudere con la Repubblica: l’esercito che temeva la riduzione del suo peso ‘politico’; la Chiesa che non voleva perdere secolari privilegi (anche se c’era chi, come il cardinale di Tarragona Vidal y Barraquer, ipotizzava una possibile convivenza); i latifondisti aristocratici, i cosiddetti terratenientes, sprezzanti ogni forma di emancipazione sociale dei lavoratori; il movimento politico della Falange che voleva trapiantare in Spagna il fascismo italiano, i cattolico-monarchici della CEDA di Gil Robles che intendevano ripristinare la monarchia e che contestavano al governo di non essere capace di dominare l’anarchia sociale.

La sera del 17 luglio 1936 le guarnigioni del Marocco spagnolo si sollevarono dichiarando guerra alla Repubblica. L’alzamiento, così venne definita l’insurrezione dei generali golpisti, avrebbe dovuto diffondersi in tutta la nazione nel giro di qualche giorno. In realtà il 19 luglio il golpe era già fallito perché nelle città e nelle piazzeforti più importanti l’esercito non si sollevò o, quando lo fece, fu sopraffatto dai militari fedeli alla Repubblica e dalle milizie composte da anarchici e socialisti. In breve la Spagna si trovò divisa i due: i militari ribelli prevalsero nel Nordest del Paese (Galizia, Leòn, Vecchia Castiglia, Navarra, l’Aragona e in ampie zone dell’Estremadura); la Repubblica riuscì a spegnere i focolai insurrezionali nelle grandi città, tenendo Madrid, Barcellona, Valencia, i Paesi baschi, cioè i 2/3 del Paese.

Decisive, nel lungo termine, furono le guarnigioni marocchine: 40mila soldati, la parte meglio addestrata dell’esercito che a partire dal 28 luglio incominciò ad essere trasportata sulla penisola, dagli aerei forniti da Hitler e Mussolini. Insomma, come scrisse Paul Preston, un «colpo di stato semifallito si convertì in una guerra civile» che alla fine porterà a più di 500mila morti.

manifesto fascisti in spagnaL’aspetto internazionale del conflitto fu naturalmente decisivo e complesso: se in favore dei generali intervennero Italia e Germania, la risposta delle democrazie francese e inglese fu quella del non-intervento e della passività; dalla parte della Repubblica si schierò l’Urss, quasi trascinata nel conflitto. La guerra degli spagnoli divenne un banco di prova per la seconda guerra mondiale. In realtà, nell’agosto di quell’anno a Londra era stato siglato tra le potenze europee un patto di non-intervento che era già carta straccia nell’istante stesso in cui veniva firmato da Hitler e Mussolini.

 

Quello che fa della guerra civile spagnola un evento paradigmatico del Novecento è che si trattò di una guerra di sterminio e spietata repressione del nemico: laddove trionfarono i militari si instaurò un regime autoritario che soppresse ogni ipotesi democratica e liberale ma soprattutto l’obiettivo era sterminare i cosiddetti ‘rossi’ (rojos). Disse il generale Queipo de Llano, che assicurò Siviglia ai golpisti, che si doveva far sì che in Spagna non ci fosse più nessun marxista. Nelle zone controllate dai militari furono incarcerati o uccisi sindaci e governatori repubblicani, maestri di scuola, sindacalisti, militari contrari al golpe, intellettuali e fra questi il più noto rimane Federico Garcia Lorca, fucilato nell’agosto del ’36, poco fuori Granada, assieme a un maestro di scuola e a due banderilleros anarchici.

Federico Garcia Lorca (da http://cdn.illibraio.it/wp-content/uploads/2016/08/Federico-Garc%C3%ADa-Lorca-980x540.jpg)
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Nel linguaggio di entrambi gli schieramenti avversi si trattava di fare limpieza. Per l’esercito nazionalista significava ripulire la nazione dai perturbatori dell’ordine e riedificare dalle ceneri della Repubblica una Spagna tradizionalista, cattolica e autoritaria. La ‘pulizia’ di ogni dissidenza politica si protrasse anche nel dopoguerra, dopo la vittoria di Franco, ormai capo assoluto dello Stato.

Nella zona repubblicana, paradossalmente fu proprio la sollevazione militare a innescare la rivoluzione socialista e anarchica. Furono uccisi militari traditori, fascisti veri o presunti, politici conservatori, proprietari terrieri, borghesi e professionisti, cattolici, preti e monaci, bruciate chiese. Ogni simbolo dei poteri che per secoli avevano oppresso la Spagna doveva essere cancellato; per Dolores Ibarruri, la Pasionaria, bisognava estirpare fin dalla radice la pianta della reazione.

Una sorta di rivoluzione spontanea detronizzò anche i poteri legittimi della Repubblica. Per tutto luglio, in città come Madrid e Barcellona, i sindacati si sostituirono al governo, si costituirono consigli operai e tribunali del popolo. Ogni attività venne messa sotto controllo e collettivizzata: la produzione, la distribuzione, la giustizia, i trasporti; in Omaggio alla Catalogna George Orwell, arrivato a Barcellona nel dicembre 1936, ricorda: «Era la prima volta che mi trovavo in una città dove la classe operaia era saldamente in sella. Praticamente tutti gli edifici, piccoli o grandi che fossero, erano stati occupati dagli operai ed erano pavesati di bandiere rosse o quelle rosso-nere degli anarchici; su ogni muro c’erano disegnate falci e martelli e le sigle dei partiti rivoluzionari; quasi ogni chiesa era stata saccheggiata e le immagini sacre bruciate. […] Nessuno diceva più Señor o Don e; neanche Usted; tutti si chiamavano “Compagni” e si davano del tu…».

Sete di giustizia e riscatto sociale contro gerarchie antichissime travolsero non solo l’esercito golpista ma anche il potere repubblicano, polverizzandolo in un «mosaico di sovranità» (G. Ranzato). Emergevano dunque definitivamente le contraddizioni interne della Repubblica.

Questa atomizzazione di comitati operai tolse alla Repubblica il governo centralizzato e coordinato della resistenza contro l’insurrezione dell’esercito. E tuttavia alla base di tale resistenza vi furono centinaia di migliaia di uomini e le donne, in un intreccio di eroismo ma anche di fanatismo millenarista. Un immenso capitale umano che permise alla Repubblica di resistere per tre anni.

Solo nel 1937 sotto il governo di unità nazionale, potremmo dire, di Caballero, reso più saggio dai fatti, si riuscì a riprendere un minimo di controllo sugli uomini e sulle attività economiche, a partire, per esempio, dalla difesa della piccola e media proprietà e a creare un disciplinato esercito repubblicano. Un potere statale che rimase sempre a forte limitazione territoriale, infatti, la Catalogna e i Paesi Baschi si governavano in assoluta autonomia e indipendenza.

C’è da notare una importante asimmetria riguardo i 200mila morti dovuti alla limpieza cui si accennava: le esecuzioni nella zona repubblicana furono circa 50mila; 150mila in quella nazionalista. Se nella zona repubblicana le uccisioni avvennero durante la momentanea dissoluzione dell’autorità statale (luglio-dicembre ’36), per scomparire quasi del tutto quando il governo si riappropriò del monopolio della violenza, in quella nazionalista l’eliminazione di ogni dissidenza politica fu duratura, poiché obbediva a una repressione programmata dai generali. Uno di questi, il generale Mola, scriveva che «una guerra di questa natura deve concludersi con il dominio del vincitore e lo sterminio assoluto del vinto». La riduzione dell’avversario politico a nemico da cancellare legittimava ogni violenza; in entrambi i casi si trattò, come ha scritto lo storico spagnolo Julián Casanova, della «distruzione del contrario».

Con l’ingresso di Franco a Madrid, nel marzo del 1939, per la Spagna iniziava una dittatura che durerà fino al 1975. Dopo la morte del dittatore, la Spagna potrà ritornare a quell’esperimento democratico brutalmente interrotto il 17 luglio del 1936.

Concludiamo con le parole di Manuel Azaña (uno degli uomini più lucidi e tragici della Repubblica): «in una guerra civile non si vince contro l’avversario, per quanto possa essere un criminale. Lo sterminio dell’avversario è impossibile; per quante migliaia dall’una e dall’altra parte si uccidano, sempre ne rimarranno a sufficienza in entrambi gli schieramenti perché si ripresenti il problema se sia possibile o no continuare a vivere assieme».

Nota bibliografia: per un primo avvicinamento alla guerra civile spagnola si può rimandare alla recente messa a punto di P. Lo Cascio, La guerra civile spagnola. Una storia del Novecento, Carocci 2013 e alla splendida sintesi che ne ha fatto J. Casanova, España partita en dos. Breve historia de la guerra civil española, Editorial Crítica, 2013.

Sebastiano Leotta, docente di storia e filosofia al liceo “Cornaro” di Padova