Amalia Signorelli (da http://i.l43.cdn-news30.it/blobs/variants/6/9/d/b/69dbd339-61cf-40e8-99df-2b5115f5dd3a_large.jpg?_636151422667615672)

«Professoressa, la società qui è divisa in due: c’è chi può e c’è chi aspetta». Era l’inizio degli anni Ottanta ed un ragazzo dell’entroterra salernitano rispondeva così all’antropologa Amalia Signorelli, che assieme ad un équipe di ricercatori stava compiendo un’indagine sulle aspettative delle giovani generazioni del Mezzogiorno. Con precisione chirurgica e rassegnata a un tempo, quel ragazzo raccontava di un Paese dove “chi può” è quello inserito in una rete di relazioni clientelari, quello che conosce la persona giusta che ti sistema, ti trova il lavoro, mentre “chi aspetta” è colui che sta ai margini, tagliato fuori, quello che non ha uno zio prete da spendersi sul mercato nero delle scalate sociali. «Chi aspetta aspetta, a volte tutta la vita, o fa la valigia e parte, andando ad ingrossare il numero degli italiani all’estero, un numero così elevato e pure così sottaciuto nel dibattito politico. Ieri come oggi. Le parole di quel ragazzo – rammenta Signorelli – sono diventate il titolo di un mio libro del 1983. Ne è passato del tempo da allora, eppure la pratica del clientelismo sembra uguale a se stessa. Diffusa e per niente scalfita».

 

Anzi, verrebbe da pensare, sia più vigorosa di prima. E poco importa che invece di clientelismo si parli di “rete di relazioni”, di “rapporto di fiducia”. Come giudica le parole del ministro del Lavoro Poletti, secondo cui il calcetto conta più del curriculum?

Le trovo una compiaciuta esibizione di cinismo, uno sberleffo ai tanti che, per rimanere nella metafora, non praticano l’arte del “calcetto”. Una società basata sulle conoscenze giuste piuttosto che sulla conoscenza è una società miseranda, che umilia la dignità, l’autonomia e la professionalità delle persone. Il responsabile del Lavoro, lui più di tutti, dovrebbe pesare le parole. Ma al fondo, al di là delle gaffè ormai innumerevoli di Poletti, c’è che il ceto dirigente, anche quello che una volta avremmo definito di sinistra, appare sideralmente lontano e perfino indifferente ai problemi del Paese. Sì, certo, i principi della Costituzione sono citati tutti i momenti, però non mi pare vi sia la volontà da parte della classe politica che governa l’Italia di farli vivere nel presente, bensì di utilizzarli come cortine fumogene per coprire le proprie manchevolezze. 

Lei ha scritto tempo fa, La vita al tempo della crisi, che racconta gli italiani di questi ultimi anni. Come ci ha resi la crisi economica? Com’è cambiato, se è cambiato, l’homo italicus?

Il rapporto è stato bidirezionale, la crisi ha sì cambiato gli italiani, ma gli italiani si sono costruiti una loro versione della crisi mettendo a frutto anche i loro peggiori difetti: la raccomandazione, il clientelismo, il cinismo spicciolo. Ognuno si è mosso per conto suo, ciascuno si è arrangiato a modo suo. E, fino ad un certo punto, la risposta individuale ha pure funzionato. Quando però la crisi ha raggiunto una certa soglia nemmeno questo è servito. Ci siamo trovati davanti una catastrofe. Gli imprenditori che hanno visto andare in fumo le loro aziende sono molti più di quello che ci raccontano i Tg, così come gli ultracinquantenni senza un lavoro o con un lavoro peggiore di quello precedente. Quello che servirebbe, e urgentemente, è una risposta collettiva alla crisi. Basta con le furberie, con la narrazione di un Paese che nella realtà non esiste! Occorrerebbe un bagno di realtà e di umiltà se si vuole ripartire davvero.

L’ascensore sociale non solo si è fermato in questi anni, sta scendendo ai piani bassi. E gli italiani, soprattutto i giovani, fanno le valige. Come i nonni e i bisnonni anche loro se ne vanno all’estero alla ricerca di un’opportunità che in patria gli è negata…

… E, checché ne dica Poletti, sono i più intraprendenti, quelli col potenziale maggiore. L’Italia ha imboccato la strada del “meno di tutto”. Dalle nascite ai consumi, passando per la cultura, lo stato sociale, i diritti del lavoro e il lavoro medesimo, è tutto a segno negativo. A sentire i suoi paladini il Jobs Act avrebbe portato nuove opportunità e favorito un rilancio dell’economia e invece rimane che abbiamo una disoccupazione agghiacciante e che la precarizzazione del lavoro ha superato i livelli di guardia. Ho l’impressione di un Paese disorientato, salvo piccole iniziative che vengono dal basso, che sono le sole che funzionano e producono qualcosa.

La caduta verticale della natalità è il segno di una società impaurita?

La crisi della natalità è da ricondurre a due fatti. I bambini costano e parecchio: si parla di 15mila euro l’anno mediamente. In secondo luogo mancano i prerequisiti per costruire progetti. Parlo di progetti, non di sogni e ambizioni astratte: la mia generazione e quella immediatamente seguente hanno potuto immaginare e costruire un futuro. Avevano gli strumenti per realizzare il loro progetto di vita. Ma se lavori tre mesi e poi non sai cosa sarà di te, se condividi un affitto in nero, se il tuo orizzonte non va oltre il mese successivo, se abbiamo gli stipendi tra i più bassi d’Europa e le tariffe più alte, come fai a mettere al mondo un bambino? Io trovo che le giovani italiane che decidono di non mettere al mondo un figlio fanno non una scelta egoista ma una scelta responsabile.

Insomma altro che bamboccioni o choosy

Quelli sono giudizi che vengono dai quartieri alti, da persone che non hanno mai provato cosa vuol dire la fatica di vivere.

L’Italia appare un Paese decadente, reclinato su se stesso. È così?

Ci sono diversi elementi che ci parlano di una decadenza precoce del Paese. In primo luogo la disaffezione verso la politica, la crisi dei partiti e l’incapacità di ricostruire una politica decente dopo Manipulite. Speravamo tutti in una palingenesi del Paese dopo i nani e le ballerine degli anni Ottanta e invece le speranze di rinnovamento e cambiamento sono andate deluse. Malgrado la buona volontà e tante parole, il tarlo era la corruzione e il tarlo resta la corruzione. Dirò di più: prima si rubava per i partiti – e in qualche misura poteva essere una sorta di scusa ideologica – adesso si ruba a mani basse per comprarsi la casa al mare, le macchine di lusso, le mutande o per permettersi vacanze esotiche e lo champagne. Si ruba e si corrompe non più per il partito – che è ormai una entità evanescente al servizio del leader di turno – ma per la famiglia.

Come se la famiglia fornisse una sorta di salvacondotto al codice penale?

Il familismo ha una sfumatura in più del clientelismo e della corruzione pura e semplice. È una specificità culturale italiana, che dagli strati più modesti della società sale su fino ai palazzi del potere, come ci dice la vicenda Consip. Il legame di parentela e di sangue ha finito per giustificare pratiche scorrette, furberie, malversazioni. “Ho aiutato mio padre, ho aiutato mio fratello, che male c’è?”: quante volte lo sentiamo ripetere! La famiglia ha un valore innegabile, è una rete di protezione utile, tanto più in momenti di crisi sociali ed economiche, ma l’errore di prospettiva è pensare che abbia un valore magico: la famiglia non può che essere buona e accogliente. Non è così. La famiglia una volta su tre è un posto in cui ci si tirano i piatti.

Nel vuoto della politica e nella vacuità delle sue risposte sono cresciute nel nostro Paese, e non solo nel nostro Paese, le forze antisistema. La ripulsa della democrazia rappresentativa rischia di diventare ripulsa della democrazia tout court?

Da http://www.sinistraemezzogiorno.it/wp-content/uploads/2016/10/retroguardia.jpg

Alcuni segnali mi fanno pensare che siamo già fuori dalla democrazia partecipata. Che, insomma, crisi economica e crisi democratica viaggino di pari passo. Abbiamo ancora libertà di parola e tante libertà importantissime e sarebbe stupido non difenderle, però dobbiamo pure dirci che la libertà in generale non gode di buona salute in Italia. Dovremmo essere più vigili e più attenti, perché se vengono meno i pilastri attuativi della democrazia che consentono la partecipazione di tutti, la democrazia rimane solo una bella parola.

Teme un’affermazione del polo sovranista alle prossime elezioni?

Non mi sento di fare previsioni, però vedo un’analogia sinistra con gli anni 20 del Novecento. Oggi come allora c’è un senso di esclusione dalla vita nazionale di una grossa parte della popolazione. Ed è proprio su questo che Mussolini ha costruito il suo potere e la dittatura. Ma non dimentichiamo una cosa: Mussolini fece leva su questi sentimenti ma anche sugli assegni degli agrari.

Giorgia Meloni e Matteo Salvini (da http://www.uominiebusiness.it/Portali/1/Immagini/Politici2/Giorgia-Meloni-e-Matteo-Salvini.jpg)

Insomma, se non c’è un finanziamento, un movimento non si organizza. Questi movimenti sovranisti hanno un centro economico e che li sostenga e che sia in grado da farli accettare dai poteri forti dello Stato? Il punto è questo, capire cioè se oggi c’è un pezzo di potere finanziario che sta puntando le sue fiches sull’estrema destra razzista e xenofoba. D’altro canto è evidente che, per poter soltanto ambire a governare il Paese, il consenso – o almeno una benevola neutralità – del Vaticano è indispensabile. Ce lo vede lei Papa Francesco che accetta Salvini? Io no. Detto questo penso anche che i movimenti di destra, ancorché tutti condannabili, non sono l’uno la fotocopia dell’altro. Un conto è Marine Le Pen in Francia, altro la destra italiana.

Con la polarizzazione della società che fine ha fatto il ceto medio?

A volere essere ottimisti nella “scomparsa” del ceto medio un aspetto positivo c’è. Per quel che mi capita di vedere frequentando i giovani c’è un processo di egualitarizzazione: salvo una piccola frangia di straricchi, l’appiattimento dei ceti medi, tra molti aspetti negativi ne ha portato uno che giudico fortemente positivo, per cui il figlio del salumiere e quello del professore dialogano alla pari. Cosa che solo venti anni fa non succedeva. Adesso i giovani sono molto più interessati all’individuo che hanno di fronte piuttosto che alla sua provenienza sociale.

Sta dicendo che la crisi del ceto medio ha fatto piazza pulita di molte sovrastrutture?

La borghesia è una classe sociale che ha cambiato il mondo con la rivoluzione industriale, mettendo a frutto un certo tipo di imprenditorialità su un certo tipo di risorse. Oggi la borghesia ha esaurito il suo compito, le risorse sono altre e di altra scala, il tipo di imprenditorialità richiesto è altro e di altri contenuti. Quando c’è una situazione ingarbugliata bisogna cercare una uscita in avanti e non all’indietro.

Professoressa ha letto: al primo posto dei Paesi felici c’è la fredda Norvegia. Per l’Italia, per il Paese del sole e del bel vivere, un misero 48° posto. Come legge questi dati?

Mi dica la verità, che ce ne facciamo del sole e del mare se poi tutto il resto….