camera-e-senatoL’Assemblea Costituente si soffermò a lungo sulla questione del bicameralismo: pur presentandosi a un primo sguardo come un problema di ingegneria costituzionale, esso in realtà trascendeva i termini meramente organizzativi, per porre in discussione contenuti politici essenziali, che investivano la natura della rappresentanza, la posizione delle autonomie regionali nel nuovo ordinamento, il rapporto tra governo e parlamento. Dal dibattito emerse una soluzione di compromesso che si distaccava in modo significativo dalle opzioni iniziali e, al di là dei limiti che pure presentava, delineava un insieme di regole comunque coerenti con l’intento, più volte ed in diverse occasioni espresso nel corso delle discussioni in Assemblea e nelle Commissioni, di dare vita ad un organizzazione costituzionale fondata sull’equilibrio tra i diversi poteri. Come per altre materie, anche nel caso delle disposizioni dedicate all’ordinamento delle Camere, fu riaffermato un metodo di lavoro fondato sulla ricerca dell’intesa attraverso un confronto estremamente approfondito e finalizzato ad effettuare scelte inequivoche tra le differenti soluzioni prospettate – spesso condensate in ordini del giorno di indirizzo – nel presupposto del valore politico e non meramente linguistico della chiarezza nelle norme costituzionali, presidio e garanzia della certezza nella loro applicazione.

L’organizzazione del Parlamento fu oggetto in prima battuta dell’esame della seconda Sottocommissione, una delle tre Sottocommissioni sorte dalla Commissione dei 75, incaricata della redazione della Costituzione (alla seconda Sottocommissione spettava il compito di definire l’organizzazione costituzionale della Repubblica, mentre la prima Sottocommissione era dedicata al tema dei diritti e doveri dei cittadini e la terza Sottocommissione a quello dei rapporti economici e sociali).

Costantino Mortati (da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/f/f0/Costantino_Mortati.jpg)
Costantino Mortati (da https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/f/f0/Costantino_Mortati.jpg)

L’argomento fu introdotto da due relazioni, una del giurista cattolico Costantino Mortati (Il potere legislativo) e l’altra del repubblicano Giovanni Conti (L’organizzazione costituzionale dello Stato).

Mortati affrontò la questione dando sostanzialmente per acquisita la scelta di istituire una seconda Camera, alla quale avrebbero dovuto attribuirsi tre funzioni distinte, anche se tra loro collegate: di “raffreddamento”, ossia di rimeditazione e riesame delle decisioni adottate dalla prima Camera; di integrazione della rappresentanza, nel senso di consentire l’espressione di interessi destinati a restare compressi o ignorati in un organo di rappresentanza puramente politica, e di acquisizione di competenze specifiche nell’ambito dell’ordinamento parlamentare, mediante la limitazione dell’elettorato passivo in base al possesso di determinati requisiti culturali o professionali ovvero all’appartenenza a talune categorie. “Qualsiasi ordinamento delle seconde Camere – osservava Mortati – tende a correggere in misura più o meno accentuata i risultati del suffragio universale, spostando il peso che quest’ultimo attribuisce in modo uguale ai singoli cittadini”.

Il relatore non si nascondeva le possibili obiezioni incontro alle quali andava l’ipotesi di una seconda Camera di rappresentanza degli interessi, a partire dalla difficoltà di individuare l’elettorato attivo e passivo e di assicurare un’equa ripartizione dei seggi tra le diverse categorie; difficoltà che si sarebbero moltiplicate qualora fosse stata presa in considerazione la possibilità (considerata peraltro dal relatore stesso “di grande interesse”) di dare vita ad una rappresentanza complessa, ovvero congiuntamente di categorie e delle Regioni. A tale ultimo proposito, Mortati esprimeva anche un avviso favorevole alla formazione degli organi rappresentativi delle istituende Regioni sulla base delle categorie economico-sociali, come peraltro avrebbe sostenuto sempre nella Seconda Sottocommissione un altro giurista cattolico, Gaspare Ambrosini, relatore sul tema delle autonomie territoriali.

Quanto al rapporto tra i due rami del parlamento, Mortati si limitava a illustrare le opzioni possibili: “a stretto rigore, osservava, il sistema dovrebbe implicare piena parità tra i due corpi legislativi”, ma non mancavano, in altre realtà costituzionali, casi di “parità limitata” con riguardo al conferimento della fiducia al governo o all’esercizio asimmetrico della funzione legislativa; a tale proposito, peraltro, osservava che “il caso di seconde Camere puramente consultiva o fornite anche del potere di iniziativa […] non può entrare, a stretto rigore, nel problema del bicameralismo”.

Il secondo relatore, Giovanni Conti, si espresse, in modo più sintetico, in favore della soluzione bicamerale, a condizione di differenziare i modi di formazione dei due rami del parlamento, che però avrebbero dovuto esercitare congiuntamente la funzione legislativa. A suo avviso, mentre la Camera dei deputati avrebbe dovuto rappresentare la nazione come unità attraverso il voto dei cittadini, la seconda Camera avrebbe dovuto rappresentare le varie forme organizzative e le istituzioni entro le quali si svolge la vita associata, fondandosi sulle Regioni: pertanto i due terzi dei componenti della seconda Camera sarebbero stati eletti dai consigli regionali, eventualmente integrati da delegati dei consigli comunali, mentre all’elezione dei restanti componenti avrebbero provveduto collegi composti da altri enti, tra i quali il relatore citava, a titolo esemplificativo, le organizzazioni sindacali e le università.

Il dibattito in Sottocommissione evidenziò subito la portata delle divergenze tra le forze politiche. L’impostazione della relazione di Mortati risultò condivisa, sia pure con differenti sfumature, da un ampio fronte che, oltre al gruppo democristiano, comprendeva la destra qualunquista, i liberali, i repubblicani federalisti; emergeva dal dibattito l’intento di dare vita a una seconda Camera di rappresentanza – come sostennero anche il cattolico Ambrosini e il repubblicano Perassi – sia delle Regioni, sia delle forze sociali, economiche e culturali, facendo derivare dal tipo di rappresentanza anche la previsione di modalità di formazione della seconda Camera differenziate rispetto all’elezione a suffragio universale della prima.

Renzo Laconi (da http://www.unica.it/UserFiles/File/Utenti/vzuddas/renzo%20laconi.jpg)
Renzo Laconi (da http://www.unica.it/UserFiles/File/Utenti/vzuddas/renzo%20laconi.jpg)

I deputati appartenenti ai partiti di sinistra (in particolare La Rocca e Laconi per il PCI, Lussu per il PdA e Lami Starnuti e Paolo Rossi per il PSIUP) pur dichiarandosi in linea di principio a favore del sistema monocamerale, non manifestarono un’opposizione pregiudiziale al bicameralismo, prendendo atto che ad esso aderiva la maggioranza nella Sottocommissione. Il punto di dissenso riguardava invece l’ipotesi che la seconda Camera, come aveva sostenuto Mortati, potesse trovarsi in una posizione di parità giuridica con la prima Camera, eletta a suffragio universale, pur essendo formata con modalità differenziate, dall’elezione di secondo grado da parte delle Assemblee regionali, per i rappresentanti dei territori, all’investitura da parte di collegi elettorali ristretti, per i rappresentanti delle categorie. In nessun caso, spiegava il socialista Lami Starnuti, i partiti di sinistra avrebbero accettato l’idea di una seconda Camera chiamata a “correggere” gli effetti del suffragio universale, tanto più che la parità di funzioni attribuita a Camere formate con procedimenti elettorali così diversi avrebbe dato luogo ad un inesauribile contenzioso tra i due rami del Parlamento. Su tali presupposti, i partiti di sinistra ritenevano che la posizione di parità delle due Camere, così come auspicata dalla maggioranza, non potesse realizzarsi se non sulla base della comune derivazione di entrambe dal voto popolare; esclusa l’ipotesi di una rappresentanza degli interessi (in diversi momenti del dibattito, deputati appartenenti a varie formazioni politiche avevano espresso un netto rifiuto nei confronti della riproposizione di modelli corporativi) e della nomina di un numero consistente di senatori da parte del Capo dello Stato, (suggerita in altri interventi), essi accolsero l’ipotesi di una seconda Camera costituita su base regionale, ferma restando, qualora si fosse scelto di differenziare i modi di formazione dei due rami del parlamento, l’esigenza di assicurare il primato della Camera politica.

Luigi Einaudi (da http://www.strettoweb.com/wp-content/uploads/2015/01/22_4_are_f1_92_a.jpg)
Luigi Einaudi (da http://www.strettoweb.com/wp-content/uploads/2015/01/22_4_are_f1_92_a.jpg)

La posizione prevalente fu definita con l’accoglimento di un ordine del giorno sottoscritto da Mortati, dai liberali Einaudi e Bozzi e dal qualunquista Castiglia, nel quale si riconosceva “la necessità dell’istituzione di una seconda Camera, al fine di dare completezza di espressione politica a tutte le forze vive della società nazionale”, mentre un ordine del giorno Lami Starnuti, non posto in votazione, condizionava l’assenso al bicameralismo al fatto che la seconda Camera non fosse composta “in modo da alterare sostanzialmente la fisionomia politica del Paese, quale è stata rispecchiata dalla composizione della prima Camera”.

Stabilito il principio di una rappresentanza differenziata tra le due Camere, la Sottocommissione tornò sul tema del bicameralismo con l’approvazione di un ordine del giorno presentato dal democristiano Leone, nel quale si sanciva “la parità delle attribuzioni fra le due Camere” (che non sarebbe più stata rimessa in discussione), preliminarmente alla definizione della composizione e delle modalità di formazione della seconda Camera. Venivano quindi approvati altri due ordini del giorno: il primo, presentato dai deputati comunisti, stabiliva l’“origine esclusivamente elettiva” della seconda Camera, al fine di escludere la presenza di parlamentari nominati dal capo dello Stato; il secondo, del democristiano Tosato, prevedeva l’elezione della seconda Camera “su base regionale”.

La lunga discussione che seguì, sul numero dei componenti la seconda Camera, sul riparto dei seggi tra le Regioni e sulla possibilità di differenziare la durata in carica dei due rami del Parlamento, portò alla formulazione del testo sottoposto al vaglio della Commissione dei 75: in esso si prevedeva l’istituzione di una Camera dei senatori, collocata in posizione di parità con la Camera dei deputati, eletta per un terzo dai membri dei Consigli regionali e per due terzi dai membri dei consigli comunali della regione. L’equilibrio raggiunto su tale soluzione si rivelò assai fragile e, tra le numerose proposte di modifica presentate, fu alla fine accolta quella del comunista Nobile, per l’elezione diretta dei due terzi dei componenti della seconda Camera da parte di tutti gli elettori che avessero compiuto venticinque anni.

Umberto Terracini
Umberto Terracini

L’esame in Assemblea iniziò il 23 settembre 1947, con la bocciatura di un ordine del giorno Moro-Piccioni, che riproponeva l’elezione di secondo grado di una Camera rappresentativa degli interessi sociali ed economici, e con la decisione di adottare la denominazione Senato della Repubblica al posto di quella precedentemente utilizzata di Camera dei senatori. Successivamente, la discussione si concentrò sulle modalità di formazione della Senato, con particolare riferimento al sistema elettorale e all’attuazione del principio, ormai acquisito, dell’elezione su base regionale. La questione fu definita nei suoi tratti generali con l’approvazione, il 7 ottobre, dell’ordine del giorno Nitti, che stabiliva l’elezione a suffragio universale e diretto “col sistema del collegio uninominale”. L’affermazione di tale principio, come chiarì il presidente Terracini, produceva un effetto abrogativo della parte del progetto in discussione relativa all’elezione di un terzo dei componenti del Senato da parte dei consigli regionali. Fu altresì soppressa la previsione di un certo numero di categorie di eleggibili, proposta dalla Commissione dei 75, limitandosi l’Assemblea a deliberare il limite minimo di 40 anni compiuti come unico requisito di eleggibilità.

Partita da un progetto di differenziazione tra i due rami del Parlamento, la discussione all’Assemblea Costituente si svolse lungo una linea che da un lato giunse a liquidare l’ipotesi della rappresentanza degli interessi, fortemente caldeggiata dal gruppo democratico cristiano, e dall’altro limitò il principio della territorialità della rappresentanza al criterio della elezione su base regionale. Ne derivò un bicameralismo sostanzialmente paritario, anche se, nel corso del dibattito, alcune successive disposizioni furono adottate anche al fine di introdurre un certo livello di distinzione tra i due rami del Parlamento: oltre al sistema elettorale basato sul collegio uninominale (indicazione contenuta nell’ordine del giorno Nitti, ma non inserita nella Costituzione, avendo l’Assemblea preferito, così come per l’adozione del sistema proporzionale per l’elezione della Camera, lasciare la scelta al legislatore ordinario), fu differenziato l’elettorato attivo e passivo, limitatamente al requisito dell’età, tra la Camera (maggiore età per eleggere e 25 anni per essere eletti) e il Senato (25 anni per eleggere e 40 per essere eletti) mentre con l’introduzione delle disposizioni sui senatori a vita, la composizione del Senato risultò non essere interamente elettiva. Fu infine differenziata la durata in carica: 5 anni per la Camera dei deputati e 6 per il Senato, anche se questa norma non fu mai applicata, a seguito degli scioglimenti “tecnici” del Senato al termine delle prime due legislature repubblicane e della successiva approvazione della legge costituzionale 9 febbraio 1963, n. 2, che parificò a cinque anni la durata in carica dei due rami del Parlamento.