Chi sono i Coristi per Caso?
Siamo in quaranta, tutti padovani tra i ventitré e gli ottant’anni, ed esistiamo da 20 anni. Un coro musicale e sociale con la vocazione a costruire ponti verso realtà che non hanno modo di fare sentire la propria voce. Abbiamo fatto cori e aggregazione con i migranti dei corsi di alfabetizzazione; siamo presenti da 10 anni nel carcere penale padovano Due Palazzi, prima con un coro composto da detenuti e da alcuni di noi, e adesso con una band sempre di detenuti. In questi ultimi anni cerchiamo di prestare la voce agli artisti di “Gaza Biennale”. I temi dei nostri spettacoli, cantati in coro e recitati, hanno sempre una forte connotazione sociale: la storia di Thomas Sankara; Nel mare ci sono i coccodrilli dal libro di Fabio Geda; un epistolario originale tra marito, al fronte, e moglie durante la Grande Guerra; la storia del campo di concentramento di Vo’ Euganeo e altro.
Cos’è il progetto “Gaza Biennale, Pavillion Italy, Padova”?
Una cinquantina di artisti, alcuni che vivono a Gaza altri in Europa o altrove, un anno fa ha lanciato questo progetto mirato a fare uscire dalla gabbia di Gaza la loro arte. Perché loro esistono, resistono e chiedono che la loro voce sia ascoltata. Alla biennale di Venezia non potranno mai andare, visto che la Palestina non può avere un padiglione, dunque hanno messo assieme le loro opere in una sorta di biennale virtuale (foto dei quadri e video, oltre a testimonianze) e chiedono a enti e associazioni nel mondo di fare da ponte. Noi abbiamo raccolto l’invito.

In che modo i Coristi per Caso intercettano “Gaza Biennale”?
Tutto è iniziato dalla lettura di un pezzo di Tomaso Montanari. Un anno fa. Raccontava il progetto di questo gruppo di persone, di artisti, di Gaza. Ci siamo messi in contatto con Montanari, che ha scritto la prefazione al catalogo che abbiamo realizzato, e con gli organizzatori del progetto, a Gaza. Mesi di mail, chat, videochiamate con loro a volte al buio, sotto le bombe. Abbiamo raccolto il materiale, scelto e tradotto le molte testimonianze, fatto un video con le opere. Il tutto, assieme ai brani cantati dal coro, è diventato una sorta di spettacolo che da giugno a settembre abbiamo replicato 5 volte, sempre tutto esaurito. Ogni volta con tanti ospiti, famiglie e artisti palestinesi, ma anche David Riondino, Stefano Allievi, Don Nandino Capovilla…

“Amara terra mia”, “Bella Ciao”, “ll mio nome è mai più”, sono alcuni tra i titoli che proponete, come li avete scelti?
Per accompagnare le letture dedicate agli artisti di “Gaza Biennale”, sono stati scelti fra gli altri proprio questi tre brani a nostro parere emblematici. Queste canzoni, pur appartenendo a epoche e linguaggi diversi, condividono un filo comune: la voce di chi subisce l’esilio, resiste all’ingiustizia e invoca la pace. La scelta nasce dal desiderio di creare un dialogo tra la musica e le parole degli artisti, affinché il linguaggio universale dell’arte possa dare voce a chi vive la perdita, la lotta e la speranza. Amara terra mia di Domenico Modugno racconta l’esilio e la perdita, ma anche la speranza di un ritorno. È il canto di chi è costretto a lasciare la propria terra: un tema che risuona fortemente nelle storie di migrazione, guerra e sradicamento vissute dal popolo palestinese.
Bella ciao, invece, è simbolo universale di resistenza, di lotta contro l’oppressione e desiderio di libertà: cantarla nello spettacolo significa riconoscere la continuità tra le resistenze del passato e quelle del presente, in cui anche l’arte diventa atto di resistenza culturale.
Il mio nome è mai più, scritta da Ligabue, Jovanotti e Pelù, è una canzone contro la guerra e contro ogni forma di violenza. Il suo messaggio diretto e contemporaneo chiude idealmente il percorso delle altre due: dal dolore per la perdita, alla lotta, fino all’appello per la pace e la responsabilità individuale, restituendo alla musica il suo ruolo di testimonianza e di libertà.
Oltre alle canzoni e alle proiezioni delle opere d’arte, nel vostro spettacolo si dà voce alle testimonianze dirette di tanti artisti e tante artiste, alcuni dei quali non si sa neanche se a oggi siano ancora vivi. Quali sono quelle che ti hanno colpito di più?

Molti artisti di Gaza sono riusciti a fuggire, da soli o con le loro famiglie, sostenendo costi molto elevati. Si sono rifugiati in diversi Paesi del mondo, in alcuni casi sono stati accolti anche in residenze per artisti. Speriamo, e vogliamo credere, che siano tutti vivi!
La testimonianza che mi ha più colpita è quella di Ibrahim Al Sultan, perché con poche parole riesce a esprimere il dolore immenso dello sradicamento. Un’esistenza intera racchiusa in una valigia, il tentativo impossibile di portare con sé le proprie radici. È un’esperienza che, pur lontana, ci riguarda tutti: il bisogno di appartenenza, di stabilità, di memoria. Spesso diamo per scontato il privilegio di poter tornare ogni giorno in un posto che ci accoglie; mentre per altri “casa” è qualcosa da reinventare ogni volta, in un altrove incerto. La perdita della casa non è solo materiale, ma anche emotiva e culturale, per contrasto si distingue forte il richiamo alla solidarietà e alla consapevolezza, l’invito a guardare con occhi più umani le storie di chi ha dovuto trasformare la propria vita in un viaggio senza fine. Molti hanno conservato le chiavi di casa anche se sapevano che non le avrebbero più potute usare…
In molte delle vostre serate sono stati ospiti alcuni tra i più fortunati degli artisti di Biennale Gaza, chi sono?
Sono Ola Al Shrif e Hamada Elkept, due giovani artisti palestinesi di Gaza che vivono rispettivamente a Verona e a Bruxelles. Li abbiamo contatti nel novembre 2024, nel corso del nostro viaggio di avvicinamento a Gaza Biennale. Ola ha lasciato Gaza otto mesi dopo l’inizio del genocidio, insieme alla sua bambina di 5 anni. Lì, dice Ola, ha lasciato molto di sé, non solo cose materiali ma anche un pezzo della sua anima. Laureata in belle arti all’Università di Damasco, aveva un’attività imprenditoriale nel mondo della cosmesi ma tutto è stato distrutto dagli attacchi israeliani. Continua a dipingere e a rappresentare il suo stato d’animo di sfollata e i ricordi della sua terra.
Hamada è sfollato nel 2024 a Bruxelles, dove ha ottenuto una residenza artistica in uno spazio di lavoro collettivo, il “Globe Aroma”, dove può esprimere la sua idea di arte come mezzo di resistenza e lotta per la libertà. Laureato in belle arti alla Al-Aqsa University, negli ultimi tempi ha partecipato a numerose esposizioni in Europa (Bruxelles, Parigi, Valencia, Istanbul), in particolare all’interno di esposizioni che supportano il progetto di “Gaza Biennale”. I suoi dipinti puntano lo sguardo sulla vita della popolazione palestinese sotto assedio, controllata ad ogni ora del giorno e della notte, ammassata, in movimento con le proprie poche cose, accompagnata dai propri animali che non vengono abbandonati perché parte della comunità, simbolo della compassione tra l’uomo e le altre creature. Accanto allo sguardo disincantato e razionale di un giovane sradicato dalla propria terra, emerge un tratto di forte emotività, di visionarietà, che si riconosce anche nelle opere degli altri artisti che continuano a produrre con la caparbia volontà di esprimere la loro resistenza alla distruzione, alla perdita e all’idea di morte.
Oltre agli artisti, chi viene ad ascoltarvi ha la possibilità di incrociare gli sguardi e le storie di altri palestinesi, per esempio delle famiglie ospitate in Italia per ragioni sanitarie. Ci racconti qualcosa?

Nel corso delle nostre attività per “Gaza Biennale”, siamo entrati in contatto con l’associazione “Padova abbraccia i bambini” che supporta logisticamente le famiglie di palestinesi arrivate in Veneto per cure sanitarie, rivolte in particolare ai bambini. Guardandoli, si capisce che il dolore fisico per le ferite derivanti dagli attacchi israeliani o per una malattia non curata è intrecciato con la disperazione di avere, spesso, perduto mamma, papà, fratelli. Un mondo spezzato: si fatica, noi, a comprendere come una vita possa ricominciare da questa disperazione. In realtà dalle loro parole emergono un tenace coraggio e una dignità straordinaria e penso si possa dire che è il legame alla loro terra e alle loro origini che dà loro la forza per continuare a vivere e avere speranza nel futuro.
Lo spettacolo si apre e si conclude sempre con una canzone palestinese, أناديكم (Unadikum), alla cui melodia ho visto commuoversi gli spettatori palestinesi presenti in sala: che storia ha questa canzone, qual è il suo messaggio e cosa dice anche a noi, ascoltatori fortunati di quelle note?
Il testo fu scritto da Tawfiq Ziyad, conosciuto come il “poeta della protesta”, nel 1966 e messo in musica da Ahmad Kaabour nel 1975, all’inizio della Guerra civile libanese. È un testo che parla della tragedia palestinese ed è una potente invocazione: “vi chiamo tutti…”, una chiamata a tutti coloro che devono lottare contro l’oppressione e un invito alla solidarietà. Ed è, insieme, un messaggio di fermezza, dignità e soprattutto speranza. La canzone è stata adattata dal gruppo hip-hop palestinese di Gaza DARG Team, che ha realizzato una cover di questa canzone dedicandola a Vittorio Arrigoni, giornalista e attivista per i diritti umani ucciso a Gaza nel 2011. Ai concerti, ma anche alle prove, tutti noi coristi sentiamo profondamente la potenza della chiamata e spesso succede di avere un nodo alla gola, soprattutto quando la cantiamo insieme ai nostri ospiti palestinesi, condividendo con loro sentimenti e speranze.
Pubblicato mercoledì 3 Dicembre 2025
Stampato il 03/12/2025 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/cittadinanza-attiva/gaza-biennale-larte-palestinese-canta-con-i-coristi-per-caso/





