Alpini nella steppa verso il Don, sotto lo sguardo incuriosito di pacifici contadini russi

II Corpo di spedizione italiano in Russia (Csir) non era ancora giunto al fronte orientale che il «duce» già si agitava per inviarvi altre truppe. Hitler, nel comunicare a Mussolini, il 21 giugno ’41, la sua decisione di attaccare l’Unione Sovietica, gli aveva detto chiaramente che non avrebbe avuto bisogno di nostri soldati per la campagna di Russia. Era la risposta a una offerta di qualche tempo prima, avanzata quando il «duce» aveva saputo – per vie traverse – che la Germania si accingeva ad aggredire l’Urss. II Führer non solo non intendeva condividere con l’«alleato» la gloria della facile (secondo lui) vittoria, ma era anche convinto che truppe italiane – male armate e peggio equipaggiate – sarebbero state più d’impiccio che d’aiuto nelle operazioni contro l’Armata Rossa. Tuttavia, aveva diplomaticamente respinto il nostro concorso col motivo che l’Italia poteva «dare un aiuto decisivo» sia rinforzando le unità in Africa settentrionale, sia preparandosi a «marciare in Francia» in caso di necessità.

Ma Mussolini non aveva digerito il rifiuto tedesco ed era tornato alla carica con petulanza, ottenendo di essere presente in Russia con un Corpo d’armata, il Csir appunto, composto di tre divisioni: Pasubio, Torino e 3ª celere (circa 61mila uomini). Poi, sembrandogli irrilevante il peso degli italiani rispetto allo sforzo tedesco (153 divisioni con un totale di 3 milioni e 200 mila uomini in campo) e al contributo di altri paesi dell’Asse, il 24 luglio ’41 aveva dato disposizioni al gen. Cavallero, capo di SM generale, perché allestisse un secondo Corpo d’armata «motorizzato o meno», per il motivo che sul fronte russo «non possiamo essere meno presenti della Slovacchia e bisogna sdebitarci verso l’alleato». Pretesti di bassa lega. Mussolini aveva capito di essere passato in coda come campione dell’anticomunismo e sperava di ricuperare partecipando massicciamente alla distruzione dell’Urss, che riteneva matematicamente sicura e imminente.

Mentre Cavallero si dava da fare senza molto successo per mettere assieme i 4.600 autoveicoli necessari al nuovo Corpo d’armata (l’allestimento del Csir aveva svuotato il nostro parco automobilistico), Mussolini lasciava Roma per incontrarsi con Hitler al Quartier Generale della Wehrmacht a Rastenburg.

II 25 agosto, durante un colloquio tra il «duce» e il Führer, Mussolini cercò di ottenere il consenso del «signore della guerra» all’invio di altre truppe sul fronte orientale. II verbale del colloquio, redatto con certezza da Mussolini, non lascia dubbi sui sinistri propositi del «comandante supremo» italiano, ma anche sul fermo proposito di Hitler di non avere, almeno per il momento, altri nostri soldati in Russia: «Il duce ha partecipato al Führer il suo vivo desiderio che le forze armate italiane partecipino in misura più vasta alle operazioni contro i soviet. L’Italia – ha detto il duce – ha abbondanza di uomini e può ancora inviare sei, nove ed anche più divisioni. Il Führer ha detto di apprezzare vivamente questa offerta per la quale ha molto ringraziato il duce. Tuttavia egli ha osservato che la grande distanza del fronte russo dall’Italia e le difficoltà di carattere logistico rendono non poco arduo il problema del trasporto e del funzionamento di ingenti masse militari. II duce ha confermato da parte sua che l’Italia può recare alla guerra contro la Russia un contributo di maggiore rilievo e ha suggerito che ulteriori aliquote di truppe italiane vengano impiegate in sostituzione delle truppe tedesche inviate in congedo. II Führer ha preso atto di questa proposta che verrà ulteriormente esaminata ed ha accennato alla possibilità di impiegare le truppe italiane in Ucraina, ove la temperatura media invernale non è, in genere, inferiore ai 6 gradi sotto zero».

Lungo il Don, in un “trincerone”, ancora qualche ora di tranquillità nel Battaglione Alpini “Morbegno”

II maresciallo Keitel, capo dello SM generale tedesco, che s’incontrò lo stesso giorno con Cavallero, fu ancora più esplicito di Hitler. Anche il verbale di questo colloquio non lascia dubbi sui propositi dei due Stati Maggiori.

Disse Keitel: «In merito all’invio di un secondo Corpo d’armata italiano alla fronte russa, si ringrazia sinceramente da parte tedesca. È pero da tenere conto che il comando tedesco non potrebbe dare alcun aiuto in fatto di automezzi… sarebbe molto gradito che il comando italiano, prima di decidere l’invio di un secondo Corpo d’armata in Russia, valutasse questo aspetto del problema».

Rispose Cavallero: «È chiarissimo. Noi non siamo in condizione di dare al nostro secondo Corpo d’armata tanti automezzi (4.600) quanti ne abbiamo dati al primo. Questo secondo Corpo d’armata è di costituzione normale e ha motorizzato solo i servizi. Riferirò pertanto al duce in argomento. Ad ogni modo informo che il secondo Corpo d’armata, se dovesse essere inviato, sarebbe pronto a partire fin dai primi di settembre».

Ma il secondo Corpo d’armata, che doveva essere costituito dalle divisioni Livorno e Granatieri di Sardegna, non partì né ai primi di settembre né dopo, con gran dispetto di Mussolini. II 10 ottobre, parlando con Ciano, il «duce» affermò che nella primavera del ’42 avrebbe inviato altre venti divisioni in Russia e motivò la progettata spedizione con un nuovo pretesto: «Così si potrà avvicinare il nostro sforzo bellico a quello germanico e impedire al momento della vittoria – poiché è certo che la vittoria ci sarà – che la Germania detti la sua legge a noi tale e quale ai popoli vinti».

II giorno dopo tornò, con compiacimento, sul folle proposito, confermando che avrebbe mandato, a primavera, altre venti divisioni in Russia. Ciano annotò sul suo Diario: «… a parte il fatto che a primavera venti divisioni disponibili e presentabili non le avremmo mai – conviene mandar via da casa quel poco di roba che potremmo avere e che rappresenta la nostra garanzia? II Re – a San Rossore – manifesta la sua netta avversione a tali propositi». Non risulta, tuttavia, che Ciano o il Re abbiano espresso apertamente a Mussolini la loro opposizione.

Il 22 ottobre, però, il «duce» aveva ridotto a quindici il numero delle divisioni che intendeva avviare in primavera al fronte orientale. Dal canto suo il gen. Cavallero aveva risorto il problema della motorizzazione «non dando camion alla truppa, ma portando la tappa quotidiana di marcia della fanteria da 18 a 40 chilometri al giorno» (Ciano, Diario, 22-10-’41) e decurtato ulteriormente il numero delle divisioni che sarebbero state inviate in terra sovietica: «… non possiamo mandare in Russia più di 6 nuove divisioni e a condizione che gli automezzi vengano forniti dalla Germania» (Ciano, Diario, 23-10-’41).

Soldati italiani in trincea; una postazione di mortaio da 45 mm sul fronte del Don. Immediate si rivelarono l’insufficienza e l’inadeguatezza dell’equipaggiamento

I motivi di queste forti riduzioni vengono spiegati nel Diario di Cavallero, sotto la data 22 ottobre: «… Era stato fatto un progetto di massima di dodici (divisioni per la Russia – n.d.a.) a condizione che vi fosse situazione tranquilla sulle altre fronti. Occorrerebbero 7.000 automezzi … Fino a primavera la produzione è ipotecata per la Libia. Quindi non è possibile dare gli automezzi alle unità per la Russia. Mancano anche le armi anticarro, le mitragliatrici e i fucili mitragliatori. Si potrebbero dare al massimo, in relazione alla situazione, 6 divisioni riducendo le truppe alla frontiera occidentale e della riserva centrale…».

Quello stesso giorno, cioè il 22 ottobre ’41, alle 11,30, Cavallero andò «a rapporto» dal «duce» e riferì che si sarebbero potute inviare in Russia «al massimo» sei divisioni «con organici completi di uomini e mezzi. Esse però non riceverebbero l’aliquota aggiuntiva di armi controcarro e contraerei fornite alle unità già inviate sul fronte russo; non riceverebbero automezzi per il loro autotrasporto; a tali automezzi dovrebbero provvedere le autorità germaniche». Insomma, sei divisioni ancora meno dotate di quelle del Csir, che pure brillavano per la loro povertà di armi e di mezzi. Ma tanto bastava a Mussolini per sollecitare ancora una volta Hitler ad accogliere nuove truppe italiane sul fronte russo.

Questa volta la parte del postulante toccò a Ciano e il nostro ministro degli Esteri, incontrandosi con Hitler il 25 e 26 ottobre a Rastenburg dimenticò tutte le sue perplessità per caldeggiare la richiesta di Mussolini. Il 25 ottobre, dopo il primo colloquio con Hitler, così telegrafò al «duce»: «… Ho particolarmente intrattenuto Führer questione aumento nostra partecipazione militare alla lotta contro Russia ed egli, in linea di massima, si è mostrato favorevole e soprattutto quando le operazioni si orienteranno verso il Caucaso e oltre». Subito dopo scrisse una lunga relazione per il «duce», dando maggiori particolari sull’accoglienza riservata all’istanza fascista: «… Per quanto concerne infine una più larga partecipazione delle nostre forze armate alle operazioni in Russia ho trovato nel Führer una immediata comprensione del vostro desiderio. Egli ha detto che specialmente dopo il passaggio del Caucaso un largo intervento di forze italiane sarà utilizzato in territori nei quali il nostro soldato è più adatto a combattere che non il tedesco, per condizioni ambientali e di clima. Gli ho accennato anche alla possibilità di inviare delle divisioni alpine per il forzamento del Caucaso, al che ha risposto “So che si tratta di ottime divisioni”. Se il nostro Stato maggiore prenderà contatto in merito con i competenti organi germanici, non mi sembra che debbano incontrarsi ormai difficoltà e obiezioni».

Momenti della ritirata dopo lo sfondamento delle linee del Don, una ritirata dapprima ordinata ma via via sempre più convulsa e tragica, rotta da continui combattimenti

Non vi furono difficoltà e obiezioni, perché non fu dato seguito alla richiesta italiana, perciò il «duce», quando Ciano tornò a incontrare Hitler, questa volta a Berlino, tra il 25 e il 27 novembre, diede al ministro la consegna di «insistere per le truppe in Russia». E Ciano insistette come si rileva da un verbale del colloquio tra lui e il Führer. Dopo che ebbe indicato a Ciano gli obiettivi immediati che si proponeva la Wehrmacht, cioè occupazione di Sebastopoli e di Stalingrado, accerchiamento di Mosca e attacco a Leningrado, Hitler si soffermò sull’attacco al Caucaso a cui avrebbe dovuto seguire una «grande marcia ad oriente, che attraverso l’Iran, l’Iraq, la Siria e la Palestina dovrà condurre alla conquista … dell’Egitto».

«In considerazione di questo programma il Führer dice che la presenza di divisioni corazzate italiane sul fronte russo non gli sembra necessaria né consigliabile, tanto più che i nostri carri abbisognano di munizioni differenti da quelli germanici e ciò complicherebbe i già complicati trasporti. Se l’Italia è in grado di apprestare nuove divisioni corazzate, potrebbe utilmente farle stazionare in Tripolitania, ove una minaccia francese non è da escludere. Viceversa il Führer accoglierebbe con favore la presenza di truppe alpine nel settore sud del fronte russo. Truppe alpine che sa essere ottime e che in collaborazione coi tedeschi e con le attuali forze italiane, per le quali ha ancora avuto parole di elogio, dovrebbero attaccare il Caucaso. Una volta superate le montagne ed iniziata l’azione in oriente, la partecipazione italiana dovrà necessariamente assumere proporzioni di molto maggiore portata, soprattutto perché la lotta sarà trasportata in un settore destinato a far parte della spazio vitale italiano».

Da quel verbale, ove si amministrava con tanta compiaciuta sicurezza il futuro dell’Urss e del Medio Oriente, salta fuori che Ciano ebbe la spudoratezza di offrire a Hitler delle divisioni corazzate italiane, divisioni che esistevano sì e no solo sulle carte del nostro SM. Si trattò di un bluff? Ma se così fosse, come poteva, il nostro ineffabile ministro, pensare che Hitler non sapesse come stavamo a forze corazzate?

Come che sia, a fine novembre l’ignobile mercato poteva dirsi concluso: gli alpini erano graditi al «signore della guerra» e avevano già trovato una collocazione. Per il resto, invece, non si hanno notizie. Si pensò, negli alti comandi italiani, che l’intera armata sarebbe stata impiegata sul fronte meridionale, con gli alpini proiettati in avanti verso il Caucaso. Ma a quel che pare, nessuno domandò a Hitler o al Q.G. della Wehrmacht precisazioni o richiese particolari impegni circa la dislocazione e l’impiego delle nostre truppe.

Mussolini aveva scritto al Führer, il 5 dicembre ’41.

Ma nei primi giorni di dicembre i piani grandiosi del Führer subirono un brusco ridimensionamento.

L’Armata Rossa passava al contrattacco mettendo in crisi lo schieramento tedesco e causando gravissime perdite al nemico. Anche il Csir si trovò coinvolto nell’offensiva scatenata dai sovietici e dovette combattere duramente. Sino a quel momento la Wehrmacht sembrava aver collezionato solo vittorie, ma ora l’esercito tedesco non solo non appariva più invincibile, ma risultava anche gravemente menomato. Nella guerra contro l’Urss aveva avuto sino ad allora circa un milione di uomini fuori combattimento, tra morti, feriti e dispersi; cioè aveva perduto quasi un terzo dei suoi effettivi. Era impossibile ripianare tali perdite se non ricorrendo agli «alleati» ed è ciò che fecero Hitler e gli altri capi nazisti, al principio del 1942, chiedendo a destra e a manca nuova carne da cannone. Le promesse non mancarono e l’Alto comando tedesco calcolò che per l’estate del ’42 avrebbe potuto contare su 52 divisioni «alleate» – 27 romene, 13 ungheresi, 9 italiane, 2 slovacche e una spagnola – ovviamente da impiegare in compiti secondari, giacché l’armamento e l’addestramento di queste unità erano giudicati insufficienti.

II 6 febbraio ’42, il maresciallo Keitel, ricordando al gen. Cavallero che tutte le unità messe a disposizione dell’Alto comando tedesco dovevano essere approntate secondo il piano dei tempi prestabiliti, pregava – cioè ordinava – «di preparare nei luoghi di partenza i reparti, previsti dalle forze armate italiane per l’impiego al fronte orientale (…)».

E poiché Cavallero aveva domandato in precedenza all’«alleato» cannoni controcarro e antiaerei, nonché il relativo munizionamento, Keitel aggiungeva di non poter soddisfare le richieste. La cosa però non doveva preoccupare gli italiani, giacché l’equipaggiamento dei sovietici era «diventato molto più primitivo». Del resto, scriveva Keitel, anche i reparti tedeschi non erano più così equipaggiati come all’inizio della guerra… Cavallero abbozzò e rispose assicurando che i tempi imposti dai tedeschi sarebbero stati rispettati e affermando che il «duce» aveva disposto che fosse «fatto uno sforzo per provvedere in Italia» circa le artiglierie che l’«alleato» ci rifiutava. Vedremo poi come si provvide.

Il mancato accoglimento delle richieste italiane irritò Mussolini, ma questo non l’indusse a modificare il suo atteggiamento bensì a modificare… i termini della questione, quando ne parlò con Ciano: «… ho persuaso Cavallero a non domandare (ai tedeschi) le armi anticarro e antiaeree per le divisioni che andranno in Russia. Preferisco prendere la responsabilità di sottrarre dodici batterie alla difesa di Roma» (Ciano, Diario, 20-2-’42).

La storia, come si è visto, era diversa: Cavallero aveva domandato cannoni e di fronte al rifiuto tedesco aveva annunciato la decisione del «duce» di reperire le artiglierie mancanti in Italia. Come vennero destinati al fronte orientale, oltre ai cannoni di normale dotazione da 47, i pochi semoventi da 90/53 (trenta in tutto) messi faticosamente assieme dall’Ansaldo, mentre per l’artiglieria Mussolini dispose che lo SM prelevasse non 12 batterie dalla difesa di Roma, bensì 2 batterie da Genova, 2 da Torino, 3 da Roma e 2 da Guidonia: complessivamente 9 batterie.

Mentre si andavano preparando le divisioni per la Russia (Sforzesca, Cosseria e Ravenna – II Corpo d’armata; Julia, Tridentina e Cuneense – Corpo d’armata alpino; div. Vicenza, destinata alla protezione delle retrovie), da raggrupparsi nell’VIII Armata, detta poi Armata Italiana in Russia o ARM.I.R., affidata al gen. Italo Gariboldi, Hitler convocò il 10 aprile il gen. von Kleist che aveva il compito di guidare la puntata delle forze corazzate verso il Caucaso.

«Hitler disse – raccontò poi von Kleist – che noi dovevamo impadronirci dei giacimenti petroliferi del Caucaso per l’autunno (1942), dato che la Germania non poteva continuare la guerra senza di essi. Quando misi in evidenza i rischi che si correvano lasciando esposto un fianco tanto lungo, egli disse che, per provvedervi si sarebbe fatto dare truppe dalla Romania, dall’Ungheria e dall’Italia. Lo avvertii, e altri con me, che era imprudente fare assegnamento su tali truppe, ma Hitler non volle darmi ascolto. Mi disse che le truppe alleate sarebbero state impiegate soltanto per presidiare il fianco lungo il Don da Voronezh all’ansa meridionale del fiume e oltre Stalingrado fino al Caspio: questi, disse, erano i settori più facili da tenere».

Dunque l’Armir, comprese le truppe alpine, doveva essere destinata a presidiare il Don. Ma probabilmente von Kleist ricordò male le parole di Hitler e le ricostruì in base a quelli che furono poi gli ordini definitivi per l’offensiva dell’estate ’42. È invece probabile che Hitler pensasse, allora, di utilizzare una parte dell’Armir (Corpo d’armata e Csir) per proteggere l’ala sinistra delle forze marcianti sul Caucaso e su Stalingrado, e d’impiegare il Corpo d’armata alpino nelle operazioni sulle montagne caucasiche. Noi comunque eravamo tenuti all’oscuro delle intenzioni di Hitler.

Il generale Italo Gariboldi (da https://it.wikipedia.org/wiki/ Italo_Gariboldi#/media/ File:ItaloGariboldi.jpg)

Lo stesso gen. Gariboldi, che dopo la sua nomina a comandante dell’VIII, si era recato al Q.G. di Hitler per una visita di cortesia, non era riuscito a sapere nulla circa la futura dislocazione dell’Armir; anzi, il nostro Comando Supremo gli aveva proibito di toccare l’argomento (Gariboldi voleva ribadire davanti al Führer e al suo SM che le truppe italiane erano soprattutto adatte a combattere in montagna), perché la zona d’impiego delle nostre truppe doveva essere decisa dai tedeschi.

Alla fine del mese di maggio il gen. Messe, che comandava il Csir, seppe non ufficialmente che Gariboldi e non lui era destinato ai vertici dell’Armata che avrebbe operato in Russia.

Come che sia, Messe si precipitò a Roma ed ebbe colloqui con Mussolini e con Ciano. Quest’ultimo lasciò il seguente appunto sull’incontro con il comandante del Csir: «Vedo Messe di ritorno dalla Russia. Ha il sangue agli occhi contro Cavallero perché gli ha preposto il vecchio e fesso Gariboldi nel comando dell’Armata, dopo le ottime prove da lui date… Giudica ancora forte e molto bene armato l’esercito russo, il che rende assolutamente utopistico il credere in un crollo verticale dei soviet. I tedeschi riporteranno nuovi successi e forse anche grossi successi, ma non risolveranno niente e l’inverno li troverà ancora in campo e con un’accentuata crisi nei rifornimenti. Messe non conclude, ma non nasconde gli interrogativi che si pone e che sono molto seri» (Ciano, Diario, 4-6-’42).

Sull’incontro di Messe col «duce» abbiamo solo la testimonianza del generale e possiamo anche prenderla per buona: «Era la prima volta che parlavo da solo a solo con lui… “Mi permetto di ripetere a voi – gli dissi – quello che ho già detto al capo di Stato Maggiore Generale: è un grave errore mandare una intera armata al fronte russo. Se fossi stato interpellato, lo avrei sconsigliato, come già lo scorso anno sconsigliai l’invio di un secondo Corpo d’armata”. Mussolini mi guardò un po’ sorpreso e con molta calma rispose: “Non possiamo essere da meno della Slovacchia e di altri Stati minori. Io debbo essere al fianco del Führer in Russia, come il Führer fu al mio franco nella guerra contro la Grecia e come lo è tuttora in Africa… Caro Messe, al tavolo della pace peseranno assai più i duecentomila uomini dell’armata che i sessantamila del Csir”…».

Queste parole, in tutto degne del personaggio che le pronunciò, segnarono la fine del Csir. II Corpo di Spedizione Italiano in Russia cessò di far parte della I Armata germanica e divenne il XXXV Corpo d’armata dell’Armir; seguitò ad essere comandato da Messe sino alla fine del settembre ’42, quando il generale chiese il rimpatrio per disaccordi con Gariboldi.

In giugno cominciarono le partenze per la Russia. Partì per prima, dal fronte albanese ove era stanziata, la divisione Sforzesca. Questa divisione, appena scesa dalle tradotte, venne avviata sul Don, dove subì il primo attacco russo il 14 e 18 luglio.

Nel luglio, al Comando Supremo, vi fu un momento di riflessione. Il gen. Fassi e, a quel che pare, il gen. Ambrosio, tentarono di evitare la partenza delle divisioni alpine. Ma non ci fu nulla da fare: tra la fine di luglio e la prima metà di agosto tutte e tre le divisioni alpine, con il loro ingombrante corredo di piccozze, corde, chiodi da rocce e ramponi da ghiaccio, vennero avviate verso l’Urss. La divisione Vicenza seguì più tardi.

Complessivamente, raggiunsero il fronte orientale 237mila uomini, 12.500 muli, 16.700 automezzi, 4.470 motomezzi, 960 pezzi di artiglieria di vario calibro, 220 mitragliere da 20, 2.500 fucili mitragliatori, 1.800 mitragliatrici, 860 mortai, 55 carri armati mod. L, il che corrispondeva, carri armati a parte, più o meno, forse meno che più, alle dotazioni di altrettante divisioni del 1915-18. Va tuttavia notato che la partenza di tutto quel materiale avveniva proprio nel momento in cui pochi carri armati, alcuni cannoni e qualche decina di autocarri avrebbero potuto modificare a nostro vantaggio il rapporto di forze esistente sul fronte dell’Africa settentrionale. È proprio vero che Giove fa uscir di senno coloro che vuol perdere!

II gen. Gariboldi, che aveva preceduto in zona d’operazioni I’Armir, aveva intanto saputo che l’armata, la quale avrebbe dovuto operare unita come gli avevano assicurato verbalmente Hitler e Keitel, sarebbe stata smembrata. II Corpo d’armata alpino sarebbe andato verso il Caucaso, mentre il resto avrebbe avuto il compito di presidiare, insieme con ungheresi e romeni, il Don. Per quanto contrariato, Gariboldi s’inchino davanti alla decisione tedesca. Se avesse sollevato obiezioni, il Comando Supremo, che non voleva grane con l’«alleato», non lo avrebbe appoggiato.

II 6 agosto l’Alto comando tedesco riconfermò il provvedimento: Tridentina, Cuneense e Julia, una volta giunte in territorio russo, dovevano concentrarsi a Taganrog dove sarebbero passate alle dipendenze della 17ª Armata tedesca, che aveva come obiettivo il Caucaso.

Ma il 19 dello stesso mese giunse il contrordine: le divisioni alpine dovevano raggiungere le altre unità italiane sul Don. La mancanza di mezzi di trasporto non permetteva agli alpini di partecipare in tempo utile alle operazioni nel Caucaso.

Gariboldi accolse la notizia con sentimenti diversi. Se da una parte si ritrovava con l’Armir unita, dall’altra non poteva non rilevare che «l’impiego del Corpo d’armata alpino in rasa pianura costituiva un’assurdità». Per di più, l’armamento degli alpini appariva squilibrato se confrontato con quello, pur deficitario, delle nostre altre divisioni. Per esempio, il Corpo d’armata alpino disponeva in tutto di 72 mortai da 81, mentre il II Corpo d’armata ne aveva 153 e 189 il XXXV. In compenso, la nostra armata doveva presidiare trecento chilometri di fronte con uno schieramento filiforme, che dava una densità di forze in linea pari a un uomo ogni sette metri. Ogni divisione guardava in media 27 chilometri di fronte.

Il gen. Gariboldi, quando prese conoscenza del tratto di fronte assegnato all’Armir, disse: «Se l’attacco non ci sarà, saremo in troppi. Se ci sarà saremo in pochi». Non meno preoccupato era il gen. Paulus, comandante della 6ª armata tedesca, a cui le truppe italiane assicuravano la protezione del fianco sinistro.

«… Paulus non nascose le sue preoccupazioni a proposito del fianco a nord sul Don, che era insufficientemente protetto… Sul lato sinistro… era schierata l’8ª Armata italiana… Gli italiani, oltre che ovviamente privi di comprensione per quella lotta nelle sterminate distese della Russia, non erano equipaggiati in modo adeguato per grandi battaglie del genere».

Anche altri italiani e tedeschi erano preoccupati per quella linea fragilissima estesa sul Don, mentre l’Alto Comando tedesco, sottovalutando le capacità offensive dell’Armata Rossa, riteneva che non ci fosse nulla da temere, il Comando Supremo italiano si lavava le mani per quanto riguardava la dislocazione dell’Armir.

Il primo segnale di quello che sarebbe poi accaduto si ebbe nella notte dal 19 al 20 agosto, quando i sovietici attaccarono a Serafimovic la Sforzesca, costringendola a ripiegare. Un violento attacco della 3ª celere, caratterizzato dalla storica carica del Savoia Cavalleria a Isbuscenskij, e l’intervento degli alpini ristabilirono la situazione, sia pure al prezzo di 7.000 nostri soldati, tra morti, feriti e dispersi. Il generale Paulus, ora seriamente allarmato, si rivolse a Hitler richiamandone l’attenzione sulla debolezza del fronte del Don e sottolineando i pericoli che ne derivavano, ma la sua denuncia non ebbe seguito.

Intanto il Comando Supremo italiano si era andato convincendo che era sbagliato tenere sul Don gli alpini e il 26 settembre tentò timidamente di ottenere che Julia, Tridentina e Cuneense fossero trasferite nel settore caucasico. Ma il passo, effettuato in punta di piedi, non diede risultati.

Gli italiani dovevano restare incollati al Don, con le loro armi antiquate, il loro povero equipaggiamento, il loro assurdo schieramento, forse avvertendo solo in parte l’enorme pericolo che li minacciava, ma con la piena consapevolezza di avere alle spalle l’immensa steppa russa e il Brennero a tremila chilometri. Se qualcuno chiedeva che cosa ci fossero andati a fare, lassù, gli italiani, non trovava risposte convincenti, anche se i giornaletti di propaganda, redatti e stampati nelle retrovie, assicuravano che si era là a combattere «per tutti gli istituti cristiani e i sacri diritti che il Fascismo difende: la Fede, la Santità delle famiglie, la vera uguaglianza dei popoli».

Ma anche la più trita retorica non bastava a coprire la realtà o, almeno, quella che poteva osservare un anonimo bersagliere del 3° reggimento:

«Le cose che sappiamo tutti: che i Comandanti sanno che i bersaglieri hanno diritto al cambio; che il cambio avverrà domani o dopodomani; che la benzina è finita e bisogna andare con le carrette; che le carrette le trascinano i cavalli; che i cavalli mangiano e c’è poco fieno e bisogna preoccuparci dell’inverno…» (In bocca all’Orso, n. 24, 8-9-’42).

L’inverno è ormai prossimo e l’anonimo bersagliere avverte: «Comincia il freddo. Ci farà comodo qualche maglia, qualche passamontagna, tutto». Tutto, perché i soldati dell’Armir hanno poco, quasi niente. Ma dall’Italia arrivano mele, scatole di sardine e tante tante cartoline, che i soldati dovrebbero indirizzare ai parenti e agli amici in Italia. Queste cartoline recano l’immagine di una camicia nera che sta sgretolando un orso, non sappiamo se di gesso o di cartapesta. La didascalia è una frase di Mussolini: «Se non ci fosse stata la marcia su Roma non ci sarebbe oggi la marcia su Mosca…». Solo poche di quelle cartoline tornarono indietro. I soldati sul Don pensavano che se non ci fosse stata la marcia su Roma, loro non si sarebbero trovati lassù, ma non potevano far altro che lacerare quelle cartoline in cui leggevano non una missione, ma una condanna.

Fausto Vighi

(da Patria Indipendente n. 14 del 12 settembre 1982)