Quanti eravamo in piazza San Giovanni sabato 14 dicembre? Considerando che la piazza era apparentemente piena, che altrettanto piene erano le vie adiacenti e che il flusso di persone che si recava alla manifestazione era ininterrotto, si può supporre una partecipazione certo molto superiore alle centomila unità.

Ma la notizia non è questa. La notizia è il clima. Non solo quello di Roma, che ha regalato una giornata primaverile, ma quello della piazza, pressappoco equivalente. C’era un punto di allegria, esattamente il contrario, cioè, del sentimento dominante e diffuso oggi, quella solitudine stizzita, segno d’infelicità graffiante che oggi incombe su tanta parte della vita collettiva.

Allegria come scoperta di un’altra possibilità di rapporto col prossimo, di scambio fecondo, di vicinanza. Ma anche come riconquista di un senso dell’attività civile, davanti alle ripetute frustrazioni degli ultimi anni, quando avevi la percezione di non contare, di non essere ascoltato, di essere – per così dire – socialmente inutile. Allegria – spiega il dizionario etimologico – come “contentezza che si manifesta con segni esteriori”. Per esempio col sorriso, che sembrava espunto dal galateo dei comportamenti sociali, tranne che nei volti di qualsiasi pubblicità ove qualsiasi protagonista di qualsiasi spot, chissà perché, sorride sempre.

No, il sorriso di piazza San Giovanni non era il sorriso kitsch della vendita di divani, ma il segno di un senso ritrovato nell’impegno civile. Forse apotropaico, per annullare qualche influsso maligno, come l’imbarbarimento delle relazioni. Il sorriso che non manca mai quando si canta Bella Ciao in due, in venti, in mille, in diecimila.

Dopo l’intervento di Carla Nespolo la piazza cantava. Non c’erano bandiere. Non ce n’era bisogno. Una sola veniva evocata: la bandiera della Costituzione.

Per di più “allegro” ha la stessa etimologia di “alacre”, cioè pronto e disposto al fare, e così i centomila e passa, pronti e disposti al fare per un’altra idea della politica come attuazione di un sistema condiviso di valori. Insomma, Bella Ciao e la Costituzione per un pacifico assalto contro l’antipolitica, per un “sentimento collettivo”, ha scritto Luigi Manconi. Due ingredienti di qualità per incarnare una nuova forma di partecipazione popolare.

Per questo piazza San Giovanni, e più in generale tutto quello a cui ha dato vita il movimento delle “sardine” di molto ha spaventato i tanti megafoni delle destre radicali, a cominciare da quotidiani, telegiornali e talk show, privati d’improvviso del consueto habitat di violenza verbale (e non solo), turpiloquio, denigrazione, intimidazione. Niente odio gastroenterico. Niente rancore verso l’altro che si permette persino di esistere. Niente livore verso il nemico che non c’è. Una manifestazione gentile: una vera Waterloo per chi navigava nel profondo mare dell’incarognimento, rimestando nel calderone delle psicosi del mondo contemporaneo.

Era inevitabile che i Signori della Paura, davanti alle parole dal tir-palco di Carla Nespolo – “una piazza antifascista piena di speranza e di lotta” – avessero un qualche cedimento, un pavloviano riflesso difensivo; era comprensibile il loro smarrimento davanti alla parola-chiave, tante e tante volte ripetuta, la parola “Partigiani”. In piazza San Giovanni, tutti armati fino ai denti, sia chiaro.

Le armi sono state elencate con analitica chiarezza dei promotori della manifestazione. Eccone un florilegio: dialogo, ascolto, empatia, non violenza, accettazione delle diversità, e persino un’arma d’istruzione di massa: complessità. In breve, a San Giovanni si è ritrovata una piazza contro il razzismo e contro il degrado del dibattito pubblico con una novità: una nuova generazione è scesa in campo, con il suo peculiare alfabeto, il suo lessico, il suo stile. Tutti irripetibili, come quelli di tutte le generazioni che sono scese in campo in ogni passato.

Si dirà: prudenza, realismo, eccetera. Vero. Nessuno sa se, come e quanto durerà questo movimento. Ma in ogni caso qui ed ora rappresenta una speranza, una possibilità, uno spiraglio. Non vederlo vorrebbe dire esser cieco nel paese dei ciechi. Oggi, nel tempo del veleno e dell’indifferenza, una delle cifre che accomuna il movimento è l’antifascismo. Pare poco? Nel programma che i rappresentanti del movimento hanno definito il giorno successivo a piazza San Giovanni, si prevede di andare nelle periferie, nei piccoli comuni, nelle campagne, dove è più forte la sirena del sovranismo e della xenofobia. Pare poco?

Peggio ancora, poi, chi vorrebbe dare lezioni. E sì, perché, sia pur in piccolissima parte, c’è chi indossa l’abito del maestro (d’altri tempi in tutti i sensi) che, alzando il sopracciglio, bacchetta lo scolaro-sardina perché non corrisponde alla fisiognomica del perfetto militante (sempre secondo il maestro medesimo). Sfugge la sostanza, perché l’essenziale – come dice la Volpe al Piccolo Principe – è invisibile agli occhi. Eccolo, l’essenziale: oggi, nel nuovo mondo che ci circonda, non è il momento di insegnare, ma di imparare, se davvero vogliamo vincere i mostri scatenati dal sonno della ragione. Imparare in specie dalle giovani generazioni. Ciascuno ha da imparare dall’altro, come in tutti i momenti di grandi cambiamenti, positivi o negativi che siano.

Né convincono le “scatole definitorie”, cioè un racchiudere in un unicum le ispirazioni e le aspirazioni di questo movimento. Per esempio: non lo si può definire moderato. Chi difende le regole della democrazia, chi invoca il rispetto della Costituzione è necessariamente un moderato? La risposta è negli ultimi settant’anni di storia del nostro Paese. L’unica definizione ragionevole che se ne può dare è che si tratta di un movimento democratico e costituzionale che, allo stato delle cose, contiene vecchie e nuove culture politiche, tutte progressiste, che si incontrano non per compromesso, ma per dialogo e reciproco ascolto, non per dovere ma per diritto, non per disciplina ma per libera scelta. Dunque un movimento a vocazione unitaria che, anche per questo, non può non riscuotere la simpatia dell’Anpi. E perciò – per ora – si diffonde a macchia d’olio. Un mezzo miracolo: mezzo, perché non c’è nessuna moltiplicazione dei pani. Ma dei pesci sì.