Andrea Pascale è un giovane studioso napoletano a cui abbiamo chiesto una breve ma compiuta ricerca sulle origini storico-filosofiche del razzismo. Il suo, come si vede, è un linguaggio prettamente filosofico. Andrea ha suddiviso la sua riflessione in quattro capitoli. Ecco il terzo.
Qui il primo e il secondo articolo delle riflessioni di Pascale.
Il razzismo si nutre di una meccanica identitaria che va scandagliata nelle profondità del concetto stesso di soggetto.
Il soggetto come unità minima, come isola compiuta e autosufficiente, è l’idea da cui traggono linfa vitale tutte le forme identitarie. Ciò che resta sempre identico a se stesso, l’ineliminabile residuo, “l’Io penso” cartesiano che riflette su di sé è la base di ogni razzismo, nella misura in cui ogni forma di razzismo la presuppone implicitamente. Il sé come identità è, infatti, l’idea cardine da cui traggono efficacia tutte le idee e le pratiche del razzismo. È chiaro che l’idea del sé come relazione mette già profondamente in crisi l’ossatura di ogni miope forma identitaria. Quando il discorso sulla produzione del sé si struttura nel segno della differenza, dell’alterità, allora davvero le meccaniche razziste vengono messe in scacco senza possibilità di salvezza. Tale è la radicalità del pensiero francese [1] che pone in profonda crisi il pensiero occidentale, facendo così subire alla metafisica lo stesso urto che ha colpito la fisica con la teoria dei quanti.
Eppure diversi secoli prima, qualcuno aveva visto già più lontano, definendo i confini e i contorni del processo di soggettivazione. Forse aveva occhiali migliori, d’altra parte fu costretto a fabbricarli per sopravvivere. Baruch de Spinoza dipinge tra le pagine delle sue opere, dall’Etica al breve ed incompiuto Trattato politico, una prospettiva così lontana che sembra parlarci dal futuro: nel secolo del razionalismo, nel Seicento dei poteri assoluti, dove la testa del re rappresentava l’unità, la voce ed il braccio della corona e di tutto il suo regno, dove l’uno aggressivo e violento cerca di comandare sulla molteplicità, lui, Spinoza, racconta un’altra storia. Lui parla di moltitudine, lui parla dell’uomo che cerca il suo prossimo per accrescere la potenza di entrambi, per l’amore che produce e fa produrre incontri lieti e “tanto più numerosi saranno a unirsi in tal modo, maggiore sarà il diritto che avranno tutti insieme” [2]; e aggiunge: “questo diritto, che è definito dalla potenza della moltitudine, lo si suole chiamare potere” [3]. Per Spinoza sono gli incontri lieti a determinare la potenza della moltitudine, l’amore che proietta sull’altro la letizia, il desiderio di conservarsi e di aumentare il proprio potere sulla natura. Gli incontri lieti e l’amore come motore di questi incontri diventano la base per definire un soggetto politico: “Se due uomini si accordano e uniscono le loro forze, insieme sono più potenti e, di conseguenza, hanno un diritto sulla natura maggiore di ciascuno preso singolarmente” [4].
Facendo una virata di quasi quattrocento anni, Foucault descrive come il potere agisca in modo da segmentare la moltitudine, in modo da creare non le necessarie differenze per incrementarne la potenza, ma diversità e meccanismi di esclusioni che minano alla base il progetto politico presentato nel cuore del Seicento da Spinoza. Le discriminazioni razziali, di genere, il seme della discordia gettato nella terra della moltitudine impedisce la letizia degli incontri, definendo il luogo che dovrebbe essere di amore, come il campo dell’odio e della tristezza. Ora, volendo seguire la lezione di Spinoza, se ne dedurrebbe una speculare riduzione della potenza della moltitudine, una limitazione del suo potere. Solo limitando la potenza della moltitudine è possibile applicarvi dall’esterno la morsa del biopotere. Segmentando i corpi e le passioni di cui questi sono portatori, avvelenando i desideri di cui questi vivono, imponendo il regime di odio necessario al controllo generalizzato dei corpi. Ecco come i meccanismi di esclusioni messi in piedi dal potere contemporaneo, diventano i pilastri su cui si erge la verità imposta dal biopotere: “dopo tutto, siamo giudicati, condannati, classificati, costretti a compiti, destinati ad un certo modo di vivere o di morire in funzione dei discorsi veri che portano con se effetti specifici di potere” [5].
Il potere ha bisogno di mettere in piedi una serie di discorsi e pratiche discorsive che corrodano dall’interno la naturale vocazione dell’uomo all’incontro con l’irriducibile differenza dell’altro. Uno di questi discorsi, una di queste verità, che oggi costringe i nostri occhi all’orrendo scempio dei corpi, alla delirante freddezza dell’indifferenza – sostantivo più che calzante per corredare il discorso identitario, poiché distrugge proprio la differenza lasciandoci identici a noi stessi di fronte a qualsiasi immagine, qualsiasi sia la portata della sua violenza – è senza dubbio il razzismo. Questo, infatti, spinge il discorso identitario alle estreme conseguenze definendo un’identità di massa a fronte di una differenza di singolarità. Procede per omologia, modello unitario e costante che, come uno specchio deformante, mostra tutto ciò che è differente da noi come aberrazione, diverso da emarginare, errore da correggere, mostro da imbrigliare, bestia inumana da combattere. Attivando un processo di produzione continua di odio e risentimento, agendo, quindi, sulle passioni, sulle affezioni dell’uomo, il biopotere si assicura un popolo mite e, al contempo, aggressivo. Gerarchizzando, limitando, escludendo, emarginando, si nutre il biopotere. Questo processo è messo in moto nel modo più profondo possibile: producendo regimi di verità all’interno dei quali si producono queste verità, queste pratiche di esclusione ed emarginazione. Tutto questo è possibile solo definendo il piano degli incontri, sviluppando pathes [6] negativi, appunto, odio, risentimento.
Ma se sono i pathes la chiave di volta con cui si riproducono aberrazioni di vita, saperi e verità spietate, come il razzismo, allora è da lì che bisognerebbe partire per invertire la rotta, da una fisica delle passioni liete da opporre a queste sbarre invisibili che ci tengono imbrigliati in schemi mentali e forme di vita costrette e deviate. Potremmo seguire il consiglio di Deleuze e partire dall’odio per poi rovesciarlo nel suo opposto [7], in Amore. L’Amore viene definito da Spinoza come “Letizia accompagnata dall’idea di una causa esterna” [8], è la forza che ci spinge “a conservare” la cosa amata. Proiettiamo dunque il nostro conatus di conservazione sulla cosa amata. L’Amore è il motore che ci spinge verso l’altro per creare soggettività libere ed irriducibili, come afferma Negri, “l’amore compone le singolarità come un tema musicale” [9]. L’altro, il diverso, l’emarginato, il reietto è l’elemento fondamentale di questa relazione di liberazione. Il razzismo piega il naturale desiderio di accrescere la propria potenza negli incontri lieti col prossimo, svilendo le soggettività in catene di nebbia che serrano l’anima e gli occhi. L’amore è l’unica chiave che può girare i chiavistelli che imprigionano il nostro potenziale di liberazione. L’amore è l’unica efficace arma contro ogni forma di razzismo, di odio per il diverso, di emarginazione, esclusione, limitazione, imbrigliamento. Nell’amore come potenza generativa, come Lucrezio indicava nel De Rerum Naturae, si annida il segreto più rivoluzionario del nostro tempo: la possibilità reale ed attuale, che spinge con le mille e più braccia della moltitudine, di un tempo che non sia più semplicemente post moderno, ma alter moderno, un tempo fatto di gioia ed eccedenza, un tempo di unione e distruzione, un tempo di libertà in cui il diverso è la differenza irrinunciabile per dispiegare tutta la potenza della moltitudine, per realizzare il progetto Spinoziano di democrazia assoluta, per liberare l’uomo dalle catene identitarie, dalle gerarchizzazioni imposte, dai flussi migratori controllati, dalle espressioni di vita tarpate come ali che non riescono più a tendersi al cielo.
Andrea Pascale
[1] Termine con cui si intende la filosofia del secondo Novecento, sviluppatesi sulla scia del metodo genealogico su cui Foucault ha fondato il proprio pensiero. Si fa riferimento con Pensiero Francese, in questo contesto, al pensiero ed alle opere di Foucault e Deleuze.
[2] B. Spinoza, Trattato Politico, Il sole 24 ore edizione Milano 2005 p. 364
[3] Ivi p. 365
[4] Ibid.
[5] M. Foucault, Microfisica del potere, cit., p. 180
[6] Pathes può essere tradotto con passione, che rende forse meglio di sentimento il senso della parola come capacità di patire e di far patire.
[7] Cfr. G. Deleuze, Foucault («è sufficiente che l’odio sia abbastanza vivo perché se ne possa ricavare qualcosa, una grande gioia, senza ambivalenza, non la gioia d’odiare ma la gioia di voler distruggere ciò che mutila la vita» , p. 39)
[8] B. Spinoza, Etica, tr. It. G. Durante, Bompiani editore Milano 2004 p.139
[9] A. Negri, Comune, cit., p. 189
Pubblicato venerdì 26 Ottobre 2018
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