Un fotogramma dal film “Roma città aperta” di Roberto Rossellini
Un fotogramma dal film “Roma città aperta” di Roberto Rossellini

Per conoscere storicamente l’8 settembre “la scelta” resta una efficace chiave di lettura. È senz’altro quella che più di ogni altra ci obbliga a prendere in esame i comportamenti concreti di uomini e donne, tragicamente coinvolti in una successione incalzante di fenomeni di portata epocale: lo sfaldamento di un intero esercito nazionale, la rottura dell’unità statuale, la moltiplicazione dei centri di potere istituzionale, il marasma organizzativo seguito alla disgregazione dell’apparato Giovanni e protagonismo collettivo con una varietà di comportamenti che rinviava a tanti frammenti di appartenenze, segmenti di identità sociali, generazionali, professionali, territoriali.

All’interno di quella nebulosa sociale che va sotto il termine riassuntivo di ceto medio, ad esempio, a prevalere fu una complessiva dimensione di precarietà esistenziale, di intollerabile e angosciosa convivenza con la morte. L’8 settembre aveva innescato un trauma psicologico oltre che un vuoto istituzionale. Le certezze alimentate dalla presenza dello Stato si dileguarono parallelamente alla proliferazione dei centri di potere, all’emergere di un ordine precario, quello della mussoliniana Repubblica sociale, sempre ai confini dell’arbitrio e dell’illegalità. Abituati a guardare allo Stato come al riferimento strutturale della loro sicurezza economica e della propria tranquillità psicologica, i ceti medi andarono a infoltire una sorta di terra di nessuno che durante i venti mesi della Resistenza e della guerra civile avrebbe avuto come unico obbiettivo quello di aspettare la fine della guerra.

Il crollo dell’impalcatura burocratico-militare dello Stato italiano appare così come un palcoscenico sul quale gli attori si muovono con ruoli e tempi diversi. Non tutti camminarono con lo stesso passo: qualcuno, come i ceti medi, appunto, dopo l’8 settembre, rallentò i propri ritmi sprofondando in una sorta di paralisi stupefatta mentre altri li accelerarono come scossi dai brividi di una febbre di attivismo e di dinamismo. Gli operai, ad esempio; nel loro caso, infatti, dall’armistizio scaturì una condizione inedita al cui interno il disagio per le ristrettezze economiche causate dalla guerra si intrecciò con una intensa stagione di vittorie politiche e sindacali. Le loro lotte si imposero, già dal marzo del 1943, come riferimento obbligato per la stessa credibilità sociale dello schieramento politico di opposizione al regime, assumendo quella “centralità” nell’impegno antifascista protrattasi senza soluzione di continuità per tutto il dopoguerra. La riappropriazione su vasta scala dello sciopero, un’arma di lotta per venti anni bandita dal fascismo, e la riconquista dell’agibilità politica della fabbrica, ritornata a essere un centro di organizzazione e di autonomia, furono la testimonianza di comportamenti segnati da una marcata reattività e dalla capacità di strappare significative conquiste economiche.

Un fotogramma dal film “Tutti a casa” di Luigi Comencini
Un fotogramma dal film “Tutti a casa” di Luigi Comencini

Ma fu soprattutto nell’universo delle tensioni, delle convinzioni, degli atteggiamenti, delle scelte individuali che l’8 settembre agì con la sua carica più dirompente. Fu quello il momento della “scelta”. Certamente ci fu anche chi ostinatamente “non scelse” e probabilmente si trattò della maggioranza degli italiani. Ma se si vuole davvero conoscere storicamente l’8 settembre, se se ne vuole apprezzare fino in fondo la dimensione epocale, è il mondo della “scelta” che occorre esplorare. In mezzo alla fuga del re, all’ignavia dei generali, alla protervia dei nazisti, ognuno fu costretto a riappropriarsi di quella pienezza della sovranità individuale alla quale si rinuncia ogni volta che si sottoscrive un patto di cittadinanza che preveda uno scambio tra diritti e doveri, libertà e regole, autonomia personale e legami sociali. Per quanti scelsero di andare in montagna e farsi partigiani fu come se nella loro vicenda biografica quell’appuntamento con la storia segnasse una sorta di apogeo, l’attimo in cui si attivarono anche le proprie energie più riposte, con una felice e immediata coincidenza tra emozioni, sentimenti, volontà, decisioni e azioni. A questo slancio vitale si accompagnò il senso di vivere una fase assolutamente irripetibile della storia italiana, in cui tutto era possibile, anche “una scommessa sul mondo”, una resa dei conti con tutto quanto di sbagliato, corrotto, ingiusto il fascismo aveva fatto affiorare nel costume nazionale, l’azzeramento dell’eredità di un’Italia liberale ancora intrisa di trasformismo, con uno Stato unitario sempre forte con i deboli e debole con i forti. È quella “completa felicità della condizione partigiana, un accordo intimo di ciascuno di noi con se stesso…io mi sento a mio agio, partigiano nato”, restituitaci con straordinaria efficacia da Roberto Battaglia. Riprendendo da una delle più belle pagine di un romanzo di Italo Calvino (Il sentiero dei nidi di ragno), le parole del suo partigiano Kim (“basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trova dall’altra parte”) molte di quelle scelte sono state interpretate quasi come se i percorsi di approdo alla Resistenza o alla Repubblica di Salò fossero più da vittime del “capriccio” del Destino o di Dio che da uomini consapevoli. In realtà per Calvino, quel “nulla” “era in grado di generare un abisso”. Il “furore” della guerra civile coinvolgeva entrambi gli schieramenti, ma “da noi, dai partigiani, niente va perduto, nessun gesto, nessun sparo, pure uguale a loro, va perduto. Tutto servirà, se non a liberare noi, a liberare i nostri figli, a costruire una umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi”. La Resistenza, avrebbe scritto nel 1964, rappresentò “la fusione tra paesaggio e persone, una rifondazione di sé che si attua a partire da uno stato primitivo, fuori dalla società”. Scegliere di andare in montagna a combattere fu un gesto che risalta con nettezza soprattutto se confrontato con quelli di chi, come ha scritto Claudio Pavone, “fece il possibile per sottrarsi alla responsabilità di una scelta o almeno cercò di circoscriverne confini e significati, avallando di fatto la continuità delle istituzioni esistenti e accettando insieme che il vuoto venisse riempito dal più forte” e che sottolinea un dato di fatto: né durante le guerre di indipendenza, né al momento dell’intervento nella guerra 1915-1918, né in nessuna altra fase della nostra vita nazionale unitaria l’Italia ha potuto mobilitare tanta passione civica, impegno diretto di partecipazione e un tal numero di combattenti volontari come nella lotta partigiana.

(da Patria indipendente dell’aprile 2014 – numero speciale per il 70° della Liberazione)