“Ricordare il passato, capire il presente, costruire il futuro”
(G. Caselli) [1]
Nella storia dell’Anpi gli eventi congressuali nazionali rivestono un ruolo centrale nella vita dell’associazione, in quanto nelle assemblee plenarie trova espressione il massimo livello di confronto democratico interno e nel loro ambito si assumono le decisioni più importanti riguardo al perseguimento degli scopi, agli indirizzi dell’azione politica e alle trasformazioni organizzative dell’associazione stessa.
Lo Statuto del 1945 aveva istituito come massimo organo decisionale dell’Anpi l’Assemblea Nazionale, nella quale erano rappresentate tutte le strutture territoriali. Ogni Sezione comunale poteva inviare un suo “delegato” (uno ogni cento iscritti), per cui l’Assemblea si caratterizzava per un rapporto di rappresentanza molto capillare.
Le principali materie su cui l’Assemblea era chiamata a deliberare riguardavano il bilancio (consuntivo e preventivo), le “questioni di carattere generale” (il cuore del dibattito sui temi di attualità) e la nomina del Comitato Nazionale (l’esecutivo).
Le dinamiche di lavoro dell’Assemblea prevedevano una fase preliminare preparatoria a cura del Comitato Nazionale, che predisponeva una sua proposta di temi da trattare con un indirizzo di deliberazione, facendola circolare con congruo anticipo fino alla base associativa, affinché i delegati potessero prepararsi al dibattito. I lavori erano poi introdotti da una relazione del Comitato Nazionale, che illustrava lo stato dell’associazione e introduceva i temi oggetto del dibattito. Si dava luogo quindi al dibattito con gli interventi dei delegati. Al termine delle sedute il Presidente riepilogava le posizioni a confronto e, se del caso, proponeva all’Assemblea una possibile sintesi. Si passava dunque alle votazioni e, a seguito del loro esito, si redigeva un “documento politico” conclusivo, in cui si esprimevano le posizioni dell’Anpi sui vari temi discussi. Le posizioni politiche e le relative indicazioni attuative scaturite dall’Assemblea dovevano poi essere realizzate dal Comitato Esecutivo e dagli altri organi territoriali.
Questo schema procedurale col tempo fu perfezionato, introducendo ad esempio specifiche forme di controllo a cura di apposite Commissioni (Verifica dei poteri, Politica, Elettorale) e articolando in modo più organico le diverse tipologie di documenti prodotti nel corso dell’Assemblea. Ma le sue regole di funzionamento sono rimaste sostanzialmente le stesse.
Un aspetto di rilievo di tali procedure era che le deliberazioni dell’Assemblea Nazionale erano prese con metodo democratico, “a maggioranza di voti”. Questa modalità di votazione statutaria, adottata dall’Anpi fin dall’ottobre del ‘44, superava il criterio “paritetico” (una corrente, un voto) ancora in uso nell’ambito del Comitato di Liberazione Nazionale. Quest’ultimo metodo aveva il pregio di rinforzare il legame unitario del movimento resistenziale, attribuendo ad ogni corrente politica una pari dignità e potere decisionale, ed era necessario durante la fase militare della Resistenza, in cui l’obiettivo primario e condiviso era quello della Liberazione. Ma nel momento in cui dalle decisioni militari si passava a quelle politiche, il criterio paritetico costituiva una debolezza, in quanto anche una componente minoritaria poteva mettere in crisi un organismo istituzionale, come infatti avvenne con i primi “governi partigiani”. L’adozione all’interno dell’Anpi di un sistema di votazione “maggioritario” da un lato permetteva un confronto democratico efficace, basato sugli effettivi rapporti di forza tra le diverse componenti del movimento partigiano (le ex Brigate), ma al tempo stesso creava le condizioni per l’insorgere di un problema di adeguata rappresentanza delle posizioni politiche delle minoranze. Infatti la maggioranza dei partigiani iscritti all’Anpi era costituita dagli ex combattenti delle Brigate Garibaldi (comuniste) e di quelle Matteotti (socialiste), con una netta prevalenza delle prime. Si veniva in altre parole a creare una sorta di “egemonia comunista” nella guida dell’Associazione, che in prospettiva iniziava a minare le fondamenta dell’unità associativa.
Riguardo alla periodicità con cui era previsto si tenessero le adunanze plenarie, nel suo primo Statuto, adottato quando ancora era in corso la guerra nel nord Italia, era stabilito che la prima Assemblea Nazionale sarebbe stata convocata entro sessanta giorni dalla data di liberazione dell’Italia e si sarebbe poi dovuta tenere in località diverse almeno una volta l’anno. Questo perché probabilmente si prevedeva che nei primi anni di vita dell’Anpi le questioni da presidiare sarebbero state molte e di grande rilievo politico e sociale. Tuttavia anche a causa della difficile situazione politica ed economica del secondo dopoguerra, questa ricorrenza per vari motivi non fu mai rispettata. La prima Assemblea Nazionale dell’Anpi si tenne a Roma soltanto all’inizio di dicembre del 1947, dopo due anni e mezzo dalla Liberazione; la seconda nel marzo del 1949, dopo un anno e mezzo circa; la terza si tenne nel giugno del 1952, dopo oltre tre anni. Col tempo questa variabile periodicità fu definitivamente regolarizzata, e a partire dal 1971 fu poi fissata in cinque anni e mantenuta costantemente negli anni a seguire, e così pure recepita nelle successive modifiche dello Statuto [2].
La prima Assemblea Nazionale dell’Anpi fu preceduta da un periodo di forti tensioni politiche, istituzionali, giudiziarie e anche internazionali.
Alla fine di maggio del 1945 facevano il loro ingresso sulla scena politica nazionale le componenti più intransigenti del Comitato Liberazione Nazionale Alta Italia (il “vento del nord”) e il secondo governo partigiano, guidato da Bonomi e giudicato troppo moderato e incline alla mediazione, dopo appena sei mesi dalla nomina, a metà giugno, era costretto a dimettersi. A quel punto per mantenere alla Resistenza un adeguato riconoscimento politico, l’incarico veniva affidato a Ferruccio Parri, leader del Partito d’Azione e dirigente nazionale dell’Anpi, che godeva di grande notorietà e prestigio personale, in quanto era stato uno dei capi militari della Resistenza. Ma i programmi di Parri, che traguardavano le aspirazioni sociali riformiste della Resistenza, acuirono i dissensi tra i partiti. Quindi dopo appena cinque mesi, nel novembre del ’45, l’esperimento del governo Parri si concludeva su iniziativa della minoranza liberale moderata, che usciva dal governo. A succedere a Parri come capo del Governo veniva chiamato Alcide De Gasperi, leader democristiano ed esponente anch’egli del CLN Centrale, che esprimeva però posizioni politiche di contrasto delle sinistre e poteva quindi contare sull’appoggio del mondo cattolico e degli Alleati. Con il primo governo De Gasperi si apriva dunque una nuova fase politica di graduale svolta moderata, e anche se l’unità delle forze del CLN proseguì formalmente almeno fino al termine dei lavori della Costituente (dicembre ’47), con la caduta del governo Parri si poteva dire concluso il periodo dei _“governi partigiani”. Venivano così meno le speranze di realizzare le istanze riformatrici più radicali della Resistenza, e la speranza di un rapido e profondo rinnovamento sociale ed economico del nostro paese. Calava il “vento del nord” e si apriva un periodo nuovo della storia d’Italia, con la ripresa della libera e democratica competizione fra le forze politiche [3].
Nel frattempo il prestigio di cui già godeva l’Associazione in quel periodo [4] si accresceva ulteriormente. Nel settembre del 1945, all’avvio dei lavori della Consulta Nazionale (25 settembre 1945 – 1° giugno 1946) (vedi http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/servizi/il-difficile-dopoguerra-settantanni-fa-la-consulta-nazionale/), all’Anpi furono assegnati 16 posti da Consultore, contro gli 8 dell’associazione nazionale combattenti e i 4 di quella dei mutilati e invalidi di guerra. Tra gli altri furono nominati per l’Anpi: Arrigo Boldrini (B. Garibaldi/Pci), Mario Argenton (Cvl/Pli), Enrico Mattei (Cvl/Dc), Giuseppe Gracceva (B. Matteotti/Psi).
Il 2 giugno 1946 a seguito del Referendum istituzionale prevalse la Repubblica e il principe ereditario Umberto II fu costretto all’esilio. Iniziarono subito dopo i lavori dell’Assemblea Costituente, la cui composizione derivava dall’esito delle votazioni e comprendeva esponenti di spicco dei partiti politici, alcuni dei quali erano al tempo stesso membri del Direttivo Anpi (Giorgio Amendola, Ilio Barontini, Arrigo Boldrini, Luigi Longo, Emilio Lussu, Sandro Pertini e altri).
All’indomani delle votazioni referendarie, la cosiddetta “amnistia Togliatti”, perseguendo un intento di pacificazione sociale, fortemente voluto dai democristiani di De Gasperi, contraddiceva apertamente le decisioni del CCLN, che all’indomani della Liberazione aveva decretato l’esecuzione di condanne capitali per i gerarchi fascisti e l’ “epurazione” dei burocrati fascisti dagli apparati amministrativi. L’ amnistia creò forte sconcerto negli ambienti partigiani, anche perché la lista dei reati amnistiati fu alla fine più ampia del progetto iniziale, includendo addirittura gravi delitti quali quelli di “strage”, “sevizie efferate”, “omicidio”, e la Corte di Cassazione ne dilatò ulteriormente la portata con interpretazioni da alcuni considerate addirittura dubbie [5].
In questo clima generalizzato di “perdonanza” e di rilassamento giuridico, non incontrò grandi difficoltà neanche la ricostituzione delle organizzazioni fasciste, dapprima in forma semiclandestina (Fasci di Azione Rivoluzionaria), poi con la costituzione nel dicembre del 1946 del Movimento Sociale Italiano (Msi), che idealmente e simbolicamente si ispirava proprio al fascismo “sociale” della Repubblica di Salò, in cui avevano militato in ruoli di massima responsabilità i suoi primi storici dirigenti.
Per contro si creò un clima inquisitorio e fortemente avverso nei confronti degli ex partigiani: la cosiddetta “persecuzione partigiana”. Il clima di tensione sociale dei giorni immediatamente precedenti e seguenti la fine delle ostilità pose in tutta Europa al centro dell’attenzione pubblica le sommarie vendette ed esecuzioni di collaborazionisti nazifascisti, che furono frequenti fino al luglio del ’45. Nel nostro Paese questi episodi si protrassero poi per un altro anno fino all’estate del ‘46. A tal riguardo secondo Dondi non sempre è stato ben evidenziato che una gran parte di tali episodi furono da ascrivere non agli ex partigiani, ma alla popolazione civile, che reagiva istintivamente a tutte le angherie e lutti che aveva dovuto subire durante la guerra [6].
Nel contesto politico internazionale si era nel frattempo instaurato un clima di guerra fredda, che vedeva l’Italia far parte del blocco occidentale, da cui peraltro dipendeva totalmente per gli aiuti economici (Piano Marshall). Questa situazione contribuiva ad esasperare l’interpretazione strumentale delle vendette partigiane, presentate all’opinione pubblica come espressione della “minaccia rivoluzionaria comunista”. Pertanto, contrariamente all’atteggiamento benevolo, che la stessa opinione pubblica e gli apparati statali in nome della “pacificazione nazionale” assumevano nei confronti degli ex fascisti, anche se colpevoli di gravi crimini, i reati (veri o presunti) di cui si erano resi colpevoli i partigiani erano fatti oggetto di un giudizio intransigente. Il clima di repressione partigiana e di sfiducia nella giustizia, induceva dunque quest’ultimi, piuttosto che a costituirsi per far valere le proprie ragioni in un giusto processo, a darsi di nuovo alla macchia o a creare vere e proprie bande. Ciò contribuiva ad alimentare i motivi dell’atteggiamento intransigente nei loro confronti.
Dopo tanti anni di estremismi politici, di guerra e di stragi, in una larga parte della popolazione emergeva infatti un forte bisogno di pace. Di fronte a questo crescente orientamento moderato, la stessa Anpi, nonostante il suo glorioso recente passato, a causa della prevalente componente interna comunista, andava acquisendo agli occhi di parte della popolazione una connotazione “rivoluzionaria”, che rendeva complicati anche i suoi rapporti con le autorità statali, come riferiva Boldrini in una sua preoccupata relazione al Comitato Nazionale nel luglio del ’47 [7].
Lo scenario internazionale bipolare condizionava intanto sempre di più gli schieramenti politici nazionali e di riflesso anche l’unità associativa dell’Anpi, che si presentava al suo primo appuntamento assembleare sapendo di dover operare una scelta essenziale per il suo futuro. Da un lato avrebbe potuto mantenere la sua attuale organizzazione, che presentava una forte connotazione politica di sinistra, ma in tal caso avrebbe dovuto affrontare il rischio di una scissione delle componenti politiche più moderate. Dall’altro avrebbe potuto rinunciare alla sua connotazione politica e ridimensionare i propri compiti associativi al solo ambito assistenziale e di rappresentanza, per ricompattare il movimento partigiano.
In preparazione della prima plenaria di dicembre, il Comitato Nazionale riunitosi a Firenze nel settembre del ’47 trattò gli argomenti di attualità di maggior rilievo: la “difesa della Resistenza” e la persecuzione partigiana; il carattere apartitico dell’Anpi posto a garanzia della sua unità; e il tema della rappresentanza delle minoranze e dei criteri di voto. In particolare, rispetto a quest’ultimo tema, Luciano Bolis, con un lucido intervento, prevedeva che si sarebbe acceso in Assemblea un dibattito determinante per il futuro dell’associazione. Egli riteneva infatti che si sarebbero confrontati due schieramenti contrapposti. Da un lato le Brigate del Popolo, schierate politicamente su posizioni democristiane, che pur presentandosi in minoranza, ma con una referenza politica a capo del governo, avrebbero sostenuto l’evoluzione associativa verso una soluzione federativa, con l’attribuzione di un voto ad ogni componente. Dall’altro le Brigate Garibaldi, di orientamento comunista, forti della loro maggioranza interna, avrebbero sostenuto i principi di “democrazia formale”, per i quali ogni iscritto avrebbe dovuto esprimere un voto.
Probabilmente fu anche per queste tensioni, che già si percepivano con chiarezza fin dai lavori preparatori, che si iniziò fin dall’inizio ad adottare, al posto del termine statutario e tecnico di “Assemblea” (adunanza di persone che discutono per prendere decisioni su affari comuni), quello più partecipativo e coinvolgente di “Congresso” (dal latino congredior, “procedo insieme”), che con maggiore incisività comunicava ai partecipanti l’auspicio di voler mantenere unito il movimento partigiano, pur nella contrapposizione delle posizioni in esso rappresentate.
Il clima con cui ci si approssimava al primo appuntamento congressuale era dunque particolarmente teso, e nessun esito appariva scontato. Di lì a poche settimane, il 1° gennaio 1948, sarebbe stata promulgata la Costituzione della Repubblica Italiana, e dopo pochi mesi, ad aprile, si sarebbero tenute le prime libere elezioni politiche nazionali a suffragio universale del dopoguerra. Le formazioni politiche iniziavano quindi a schierarsi, a marcare verso l’elettorato le proprie distinzioni politiche e programmatiche, e tali contrapposizioni immancabilmente si riflettevano anche nelle vicende associative interne dell’Anpi.
Federico De Angelis svolge la propria attività professionale in un’azienda di telecomunicazioni, dove si occupa di marketing. Ha avuto un’esperienza d’insegnamento universitario come tutor di marketing.
Questo articolo – il secondo di una serie sulla storia dell’Anpi – si basa sul lavoro di ricerca svolto per la sua tesi di laurea in Storia Contemporanea, da cui è tratta anche la sua prima pubblicazione: “Per una storia dell’Anpi: ricordare il passato, capire il presente, costruire il futuro”, Vignate (Mi), Lampi di Stampa, 2016
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[Con il prossimo articolo, che tratterà la storia dell’Anpi dal ’47 al ’48, si concluderà questo interessante viaggio alle origini della nostra associazione con la descrizione degli eventi che consentirono all’ANPI di superare un primo drammatico momento di svolta nella sua storia e le fecero assumere un assetto organizzativo stabile, che ne caratterizzò a lungo l’azione nei decenni successivi]
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Note
[1] G. Caselli (intervento di), in ANPI, Atti del 14° Congresso Nazionale, Chianciano Terme (SI), 24-26 febbraio 2006, p. 37.
[2] ANPI, Statuto, art. 4, 2006.
[3] Con riferimento agli eventi scaturiti da tale periodo Giorgio Bocca, riprendendo un articolo di Norberto Bobbio del 1966, parlerà di “Resistenza incompiuta”: non “esaurita”, né “tradita” o “fallita”, ma “un lavoro da continuare”.
- Bocca, Storia dell’Italia Partigiana. Settembre 1943 – Maggio 1945, Milano, Feltrinelli, 2012, pp. 542-544.
[4] Vedi5yr
articolo precedente, F. De Angelis, 1945 : l’ANPI diventa Ente morale, in Patria on-line del 22 febbraio 2018.
[5] L. Cecchini, cit., vol. I, pp. 50-51 e pp. 79-91.
[6] M. Dondi, Regolamenti di conti e violenze nel dopo liberazione, in “MicroMega”, Roma, n. 3 del 2015, p. 209-211.
[7] L. Cecchini, cit., vol. I, p. 53.
Pubblicato giovedì 22 Marzo 2018
Stampato il 14/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/1946-47-lanpi-verso-il-primo-congresso-nazionale/