“Caro Duce, tu sì che sei stato l’erede vero di Giulio Cesare dovevamo rifondare l’impero romano. Adesso l’Italia è disastrata dalla mafia e dai comunisti cosa diresti tu? Speriamo che le cose cambiano presto. Tuo camerata. (29 gennaio 2010)” (1).
“Da sempre sei stato il più grande statista d’Italia. Hai amato il tuo popolo, lo hai fatto prosperare. Gli hai dato lavoro e ideali. Non ti dimenticheremo mai […] Presto il tuo successore verrà e laverà tutte le orme di corruzione […] Benito Mussolini il Grande! (1° gennaio 2011)” (2).
“Ciao Benito sono tornato… sono qui per gridare contro questi ladri che stanno uccidendo la nostra Italia […] Come si può, come faremo a uscire da questo CAOS non si sa… posso solo dire che ancora una volta la tua idea era la migliore e spero tanto che si possa tornare non dico proprio come prima ma almeno col avvicinarsi […] Ci serve un grande CAPO onesto e capace. A NOI DUCE. (30 aprile 2012)” (3).
Queste note lasciate sul registro dei visitatori nel cimitero di San Cassiano, a Predappio, sembrano addirittura tenere, se poste a confronto con il linguaggio più violento del social network. Secondo una ricerca, le pagine di estrema destra su Facebook sono una galassia, circa 2.700, con almeno 150.000 utenti iscritti e il fenomeno, nonostante la chiusura di alcune di esse da parte della polizia, non sembra arrestare la sua crescita (4).
In un pamphlet del 2004 (La crisi dell’antifascismo, Einaudi) Sergio Luzzatto chiedeva provocatoriamente: “L’Italia del terzo millennio può rinunciare a quanto appreso in conseguenza di un lontano Ventennio”? (5) La sua domanda era parte di un più ampio discorso sull’antifascismo al principio del ventunesimo secolo, mentre questo articolo si concentrerà piuttosto sulla trattazione del fascismo in ambito prettamente storiografico: si può, in buona sostanza, guardare a un’esperienza conclusasi 72 anni fa per scrivere finalmente la Storia legandola ai fatti, piuttosto che ai miti contrapposti, senza per questo svendere l’esperienza dell’opposizione al regime e della resistenza contro la Germania nazista e lo stato fantoccio di Salò? Quanti possono oggi vantare un ricordo diretto di quegli anni? In quanti possono dire di aver visto Mussolini parlare da palazzo Venezia? Si deve archiviare un vaccino perché la malattia sembra essere debellata? Nelle righe successive riproporrò qualche argomento volto a ribadire l’importanza dell’antifascismo, tanto più necessario, a mio avviso, per una democrazia relativamente giovane rispetto alle altre (Gran Bretagna, USA, Francia) come quella italiana.
Recentemente alcuni storici stanno rivedendo la stretta connessione tra fascismo e industriali, forze armate, Chiesa, società nel suo complesso. L’operazione mira a far conoscere l’adesione e il concorso dato da questi corpi a Mussolini e al fascismo, entrando nel dettaglio di ogni singola parte sociale o istituzione. A dire il vero, questo lavoro è già stato avviato nel passato. Per esempio Franco Bandini nel saggio Tecnica della sconfitta, pubblicato nel 1963, scriveva: “Mi guarderei bene dal cercare il consueto rifugio di comodo, costituito da Mussolini e dal fascismo: certo, io non saprei come acconciamente aggettivare quella classe politica e militare che va sotto il nome di fascista. Non vi è forse esempio storico di una uguale inettitudine, di una frivolezza così grande, di una così profonda ignoranza. Ma ho la certezza che Mussolini e i suoi accoliti non furono in nulla dissimili da noi tutti, e che anzi non fossero che la nostra più valida espressione sul piano nazionale” (6). Lo storico Giorgio Rochat, nel testo sull’esercito italiano del primo dopoguerra, aveva per parte sua analizzato la relazione tra l’ambiente militare e il fascismo, soffermandosi sui vantaggi offerti da Mussolini alle massime cariche militari soprattutto nel primo periodo, prima che il regime si affermasse definitivamente, e tratteggiando in questo modo il reciproco sostegno tra partito e forze militari: “Il regime assicurava ai militari il pieno controllo dell’esercito, senza ingerenze né critiche, ed un clima di esaltazione patriottica, in cui era facile magnificare il glorioso passato e la presente potenza delle armi italiane oltre i limiti del reale. In cambio, l’esercito assicurava al fascismo il suo appoggio nelle contese civili e ne avallava la politica di prestigio, permettendo al regime di indossare una maschera bellica e di tentare un ruolo internazionale assai superiore alle possibilità del paese” (7).
Diversi altri studi rilevano una reciprocità tra i vertici delle forze armate e il fascismo; ma nei più recenti la novità rispetto al passato è la tendenza a deresponsabilizzare la figura del duce sia rispetto alle scelte che determinarono l’inefficienza bellica italiana, sia rispetto alla decisione di entrare in guerra e alla successiva catastrofica condotta. Un conto, però, è rilevare le connessioni e i benefici che entrambe le parti trassero dall’accordo di cui parla Rochat; altra cosa è prendere per buone le (tardive) lamentele di Mussolini e farle divenire artatamente materia scientifica. Un esempio di questa nuova attitudine si può trovare in un libro sull’Aermacchi (con testi scritti da Giovanni Cattaneo e Gregory Alegi), dove si asserisce che il duce avesse già da tempo compreso l’inadeguatezza degli armamenti montati sui velivoli da caccia, sulla sola base delle parole pronunciate del capo del governo nel gennaio del 1943: “Avevo già previsto da anni la postazione di cannoni sugli aerei da caccia ed entro oggi affermo che il problema è risolubile. La caccia deve avere il cannone da 20 o da 37” (8). Per quasi tutta la durata del conflitto, invece, furono montate armi di calibro inferiore, tale in alcuni casi da non fare danno alcuno. Simili conclusioni non possono che lasciare perplessi, ma soprattutto dovrebbero far riflettere sul fatto che ancora oggi si debba essere costretti a ricordare che Mussolini per anni rivestì la carica di ministro dell’Aeronautica del Regno d’Italia (dal 1925 al 1929 e dal 1934 al 1943), [e fu quindi il principale responsabile delle scelte relative alla politica degli armamenti, anche perché oltre al dicastero dell’Aeronautica, ebbe anche quello dell’Esercito e della Marina;] inoltre, malgrado fosse considerato un pilota competente e “appassionato aviatore”, come viene ancora definito in taluni ambienti, era in realtà capace di “pilotare” solo aerei con doppi comandi [e non poteva quindi avere una conoscenza particolarmente approfondita della guerra aerea].
Questo non è che uno dei diversi esempi di come alcuni storici riprendano in maniera acritica le dichiarazioni di Mussolini per presentare un duce vittima della malafede o dell’inettitudine altrui. Per questa via non si può arrivare a nessuna revisione costruttiva del periodo storico, ma solo all’esatta riproposizione della tesi di Mussolini, da lui esternata più volte negli ultimi anni della sua vita: quella del tradimento totale, dai vertici militari al Paese tutto.
Probabilmente l’Italia dovrà affrontare altri “ismi” nel suo futuro, ma l’alterazione della realtà fattuale riguardo al fascismo e le sue responsabilità non potrà fare altro che avvelenare ancora di più il poco spazio di dialettica politica rimasta al Paese.
Davide Franco Jabes, PhD in Storia alla The University of York (UK), ha lavorato a numerosi progetti come consulente e ricercatore di Storia Moderna e Contemporanea per l’Università di Siena e molti altri Istituti di ricerca e case editrici (Rizzoli, Bompiani, Guanda)
1) Christopher Duggan, Il popolo del duce, Storia emotiva dell’Italia fascista (Bari, 2013), p. 475.
2) Id., p. 476.
3) Id.
4) Patriaindipendente.it il 24 settembre: http://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/inchieste/la-galassia-nera-su-facebook/
5) Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo (Torino, 2004), p. 88
6) Franco Bandini, Tecnica della sconfitta, Storia dei quaranta giorni che precedettero e seguirono l’entrata in guerra dell’Italia (Milano, 1963), p. 23
7) Giorgio Rochat, L’esercito italiano da Vittorio Veneto a Mussolini (Bari, 2006), p. 259.
8) Alenia Aermacchi (ed.), “Battaglie nei cieli”, in Alenia Aermacchi, The tradition of innovation (Varese, 2009), p. 99
Pubblicato martedì 3 Ottobre 2017
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