Pochi secondi dopo l’esplosione: una foto divenuta simbolo della Strage di Piazza della Loggia

Sono ormai definitive le statuizioni alla sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano del 22 luglio 2015 relativa alle fasi ideative e argomentative dell’attentato terroristico avvenuto a Brescia, in Piazza della Loggia, il 28 maggio 1974. I giudici hanno accertato che il defunto Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, condannato all’ergastolo, hanno concorso a organizzare la strage; che il defunto Carlo Digilio ha preparato e assemblato l’ordigno esplodente, consegnandolo a Marcello Soffiati, che lo ha certamente portato in quel di Verona.

Si tratta ora di verificare, nella nuova fase di indagini che la Procura della Repubblica di Brescia ha svolto sulla strage del 1974, se effettivamente gli odierni imputati, Roberto Zorzi e Marco Toffaloni, allora ventenne il primo e minorenne il secondo, abbiano concorso nel materiale collocamento della bomba nel cestino per l’immondizia, a quel tempo sito nella Piazza Loggia di Brescia, al fine di farlo esplodere provocando una strage di cittadini (8 morti e oltre 100 feriti) che stavano manifestando in segno di protesta per i numerosi episodi di collocamento ed esplosione di ordigni in vari luoghi della città, avvenuti tra il febbraio e il maggio del 1974.

La strage predetta è stata compiuta, nell’ipotesi formulata dal capo di imputazione (art. 285 c.p.), per attentare politicamente (!) alla sicurezza dello Stato. La Procura della Repubblica di Brescia, nel corso di oltre 10 anni di indagine, ha raccolto una consistente serie di indizi a carico di due neofascisti veronesi, dei quali chiede il rinvio a giudizio. Alla luce degli atti facenti parte di quest’ultimo fascicolo processuale, e di una articolata memoria della pubblica accusa, qui si intendono illustrare una serie di fatti e circostanze “di contorno” che, a nostro modesto giudizio, possono contribuire a dare ulteriore consistenza agli elementi di accusa già raccolti e presenti negli atti di indagine.

La posizione di Roberto Zorzi

Roberto Zorzi

Roberto Zorzi apparteneva certamente ai gruppi eversivi di estrema destra che a quel tempo operavano in Verona. Ciò si evince dai fatti di militanza attiva (volantinaggi e attività di propaganda); dalla frequentazione assidua con persone sicuramente appartenenti all’area dei gruppi eversivi di estrema destra; dalle attività di tipo terroristico (devastazioni notturne di sedi ed edifici). Il medesimo ebbe una evidente frequentazione anche dell’ambiente dei neofascisti bresciani, come risulta da numerose testimonianze raccolte nel corso dell’indagine. Egli appare implicato nell’episodio del fallito attentato al locale notturno “Blue Note” e viene descritto anche come frequentatore della pizzeria “Ariston” di Brescia, che era abituale luogo di ritrovo dei neofascisti locali. Inoltre egli fu certamente presente ai funerali del terrorista nero Silvio Ferrari e addirittura fu la persona che ordinò e acquistò una corona di fiori con il simbolo dell’ascia bipenne, che era il simbolo di “Ordine Nuovo”, associazione di stampo eversivo e di destra estrema, sciolta d’autorità dal ministero dell’Interno nel novembre 1973.

La corona di fiori al funerale del terrorista Silvio Ferrari, con il simbolo di Ordine Nuovo

Lo stesso partecipò, secondo alcune testimonianze e atti della P.G., anche ai tafferugli, provocati dai “camerati” bresciani e veronesi, dopo i funerali di Silvio Ferrari. Le dichiarazioni rese in più occasioni durante le lunghe e complesse indagini dalla teste Ombretta Giacomazzi forniscono una serie di significativi dettagli circa la presenza di Zorzi a Brescia; i suoi frequenti contatti con estremisti neri bresciani, e perfino riferiscono di affermazioni inequivocabili circa la volontà di porre in essere una “vendetta”, che non si poteva allora, e non si può neppure oggi, che interpretarsi come la espressa volontà di compiere un nuovo attentato, dato il clima “politico” nazionale e locale di quei giorni. A tali elementi indiziari fa riscontro anche il venir meno dell’alibi dichiarato da Zorzi per quanto riguarda le sue presenze nel giorno della strage.

I suoi avvocati dicono che non si trovava a Brescia, Zorzi avrebbe passato buona parte della mattinata del 28 maggio 1974 in un bar di Verona, dove era conosciuto. Tuttavia tale alibi, in un primo tempo informalmente confermato, con un accertamento invero anomalo e irrituale (che ha fatto perfino sospendere e arenare un’indagine dei carabinieri sullo stesso Zorzi, in corso sin dai primi giorni dopo la strage), è successivamente crollato a seguito di ulteriori (ma purtroppo di molto successivi) accertamenti, svolti questa volta in modo più regolare e approfondito, non venendo in effetti riscontrata la sua presenza presso quel bar in quel giorno specifico da parte dei testimoni escussi.

A tutti tali accertamenti è da aggiungere che Zorzi, dopo la sua liberazione dal fermo a cui era stato sottoposto a seguito della lacunosa verifica del suo alibi, espatriò in Grecia, dove era già presente il capo veronese di O.N. (Ordine Nuovo), Elio Massagrande. In quel periodo si recò in Grecia anche Cesare Ferri, milanese ventitreenne e a quel tempo grande attivista dell’eversione nera, che fu anche processato, e assolto, in qualità di presunto autore materiale della strage di Brescia. Di Zorzi si ricorda anche il linguaggio, ispirato a temi e concetti dell’integralismo religioso, che si riscontra anche nei testi dei volantini reperiti nei giorni successivi alla strage, e che rivendicano la medesima.

La foto in cui è stato identificato Marco Toffaloni, che all’epoca aveva 17 anni. Zorzi e Toffaloni vivono all’estero: Zorzi alleva dobermann negli Stati Uniti, Toffaloni è in Svizzera e ha preso la cittadinanza elvetica

La posizione di Marco Toffaloni

Marco Toffaloni, nei primi Anni 70 dello scorso secolo, era un giovane studente di 17 anni proveniente da famiglia benestante, di tendenza conservatrice e legata alla cultura germanica. Di carattere esuberante e un po’ esibizionista, si esprimeva con motti ispirati alla cultura di destra e si dichiarava pronto ad azioni clamorose, anche violente, riferiscono alcuni suoi compagni di scuola. Si accompagnava con cani di grossa taglia e mostrava un pregiudiziale disprezzo per tutto ciò che non faceva parte del suo bagaglio culturale. Non nascondeva simpatia per l’estrema destra ma tendeva a motivare le tendenze politiche con argomenti di carattere intellettuale; frequentava il gruppo fondato da Rita Stimamiglio e praticava teorie esoteriche di origine indù (Ananda Marga). Toffaloni faceva parte di un non meglio definito consesso di giovani denominati “I Maghetti” che, per la loro giovane età e per le asserite ambizioni intellettualistiche, costituivano un bel bacino di scorta per l’attività del più selezionato e ristretto gruppo dei veri e propri militanti di O.N.

A completamento di quanto sopra si sottolinea anche la contiguità dei gruppi Ananda Marga e “Maghetti” con i personaggi facenti parte della famigerata sigla “Ludwig” di cui erano parte attiva Marco Furlan e Wolfgang Abel, già condannati per i numerosi delitti a danno di soggetti marginali, uomini religiosi e locali pubblici ritenuti “equivoci” come discoteche e cinema-porno. A suo carico sussistono, principalmente, le dichiarazioni del teste Giampaolo Stimamiglio, padovano (fratello di Rita), che riportano una dichiarazione dove afferma la sua presenza in Piazza Loggia e un riconoscimento fotografico che riscontra tale presenza.

L’indagine odierna e la posizione degli imputati

Tutti gli elementi sopra richiamati costituiscono un importante materiale indiziario che è certamente idoneo a collegare strettamente Zorzi alla responsabilità che gli viene oggi addebitata. Si tratta ora di fornire alcuni elementi “di contorno” che servono a fissare meglio la personalità e il ruolo dell’imputato, la cui attività avrebbe certamente minore rilievo, pur nella gravità dei fatti commessi, qualora non fosse evidenziato il contesto in cui operava e il disegno politico di cui è stato compartecipe e concorrente. E ciò non solo in relazione alla specifica imputazione mossagli, ma anche per definire le modalità e finalità dell’azione, nell’ipotesi accusatoria, posta in essere.

D’altra parte va considerato che, con riferimento all’indagine e al processo che ha avuto come esito la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano del 22 luglio 2015, l’approccio interpretativo che ha portato alla dichiarazione di responsabilità di Maggi e Tramonte è stato quello di considerare gli imputati come inseriti in un contesto organizzativo e in un ben preciso disegno politico, che ha contribuito a ben comprendere finalmente la logica comportamentale e gli scopi politici, invero criminali, di quegli imputati. Perciò, in tale attività, vanno rilevati alcuni fatti ed elementi acquisiti dalle indagini, magari apparentemente di scarsa rilevanza, che però, se inquadrati nell’ottica e valutati secondo i criteri di cui alla citata decisione della Corte di Milano, possono ben concorrere a supporto dell’accusa, in un processo che, ancora una volta, si qualifica come indiziario.

Orbene, per fare ciò occorre considerare diversi ordini di circostanze, che però appaiono tra di esse convergenti, nel senso della dimostrazione della responsabilità dell’imputato. Essi sono: il contesto politico nazionale di quel momento e la posizione politica dei gruppi eversivi neofascisti; la serie di attentati avvenuti a Brescia sino alla morte “sul lavoro” di Silvio Ferrari; i rapporti tra gli attivissimi ordinovisti veronesi (e i gruppi collaterali che orbitavano in tale area) e i camerati bresciani e milanesi. Analizzando questi temi e aspetti, si può ricostruire l’ambiente politico, le logiche irresponsabili e aberranti e le circostanze che hanno avuto come conseguenza l’attentato di Piazza Loggia.

Il contesto politico

Trascorsa la prima fase della “strategia della tensione”, ormai universalmente interpretata come un tentativo ordito da servizi segreti, corpi militari, comandi di vertice della difesa e neofascisti, di condizionare le istituzioni statali al fine di assumere provvedimenti emergenziali di carattere autoritario e maggiormente repressivo, avendo le elezioni politiche del 1992 premiato i partiti politici più moderati e conservatori, era venuta scemando la necessità di altri attentati clamorosi e sanguinosi come quelli avvenuti tra il 1969 e il 1973. Nel frattempo le inchieste giudiziarie in corso avevano parzialmente svelato le trame poste in essere, ma anche l’orientamento politico degli attentatori e il concorso con gli stessi di chi ha tentato (spesso, purtroppo, riuscendovi) di coprirne le responsabilità.

Per tali ragioni, nell’autunno del 1973 si procedette allo scioglimento d’autorità di due delle formazioni eversive di estrema destra che si ritenevano maggiormente implicate nei fatti terroristici di quegli anni: Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo. Evidentemente, a fronte di tali fatti, si accennò assai il malumore di avanguardisti e ordinovisti, che covavano il rancore di essere stati “traditi” da quegli stessi poteri che precedentemente li avevano assecondati e coperti. Perciò erano smaniosi di rientrare, a loro modo con le buone o le cattive, nella considerazione dei loro ex interlocutori. Inoltre, va ricordato che nella primavera del 1974, avvenne una consultazione referendaria popolare di grandissima rilevanza politica, e cioè il referendum per l’abrogazione della legge che qualche anno prima aveva istituito, per la prima volta in Italia, il divorzio.

In tale circostanza si delineò una netta spaccatura nel Paese tra forze conservatrici della situazione normativa in materia familiare precedentemente vigente, e coloro che volevano il superamento, in senso laico, di tale anacronistica situazione normativa, non più rispondente al sentire comune dei cittadini. Lo scontro fu aspro ma, come è noto, prevalse il fronte laico, con un ruolo trainante da parte dei partiti di sinistra. Ciò evidentemente acuì il risentimento, che già ribolliva nell’estrema destra, la quale fremeva nel tentativo di dare proprie (ahimè) risposte alla situazione politica e di riproporsi all’attenzione della scena politica.

Sommando tutto questo, era ormai evidente che negli ambienti neofascisti si riteneva che fosse urgente dare un segnale forte, riproponendo le strategie e le attività già svolte in passato e che trovavano motivazione teoriche sia negli scritti del loro filosofo di riferimento, Julius Evola, sia nelle teorizzazioni di Pino Rauti e di parte dei vertici militari sulla “guerra anomala” per fronteggiare il progredire della sinistra politica nei consensi elettorali e popolari. Argomento che era stato trattato in vari convegni e riunioni tenutesi nella seconda metà degli Anni 60 tra alte gerarchie militari e i responsabili di gruppi neofascisti come AN e Ordine Nuovo.

Dunque un nuovo attentato, con fini politici destabilizzanti, dopo la sconfitta della destra conservatrice, era ritenuto in quegli ambienti come del tutto conseguente e naturale, oltre che necessario. Perciò era nelle aspettative di tutto l’arco delle forze eversive di destra, e di chi le aveva disinvoltamente utilizzate, che dovesse avvenire un fatto eclatante, di natura terroristica, che riportasse in auge la richiesta di leggi speciali, di provvedimenti repressivi da parte delle forze dell’ordine, non escluso l’appoggio ad un esecutivo “più forte” che dominasse e reprimesse il “caos laico e marxisteggiante del Paese”!

Gli attentati a Brescia nella primavera del 1974

Il fermento attivistico (purtroppo in senso antidemocratico) che animava le sedi dove l’estrema destra neofascista aveva messo radici, non poteva non coinvolgere l’intero Veneto, dove operavano numerose cellule di O.N., tra le quali quelle di Verona era una delle più agguerrite. Ovviamente le capacità operative risiedevano, in una struttura come quella, gerarchicamente organizzata, ai cui vertici stavano i capi e responsabili politici; ma tale aspetto è già stato acclarato dalle intervenute sentenze che hanno accertato dove, come e quando è stato organizzato l’attentato. Per cui, mentre a Venezia – Mestre – Padova, dove operavano i dirigenti, si andava elaborando, in termini politici, un’azione clamorosa nel senso già sopradetto, per rilanciare il ruolo politico della destra eversiva a Verona e in altre sedi, come Milano, si stava cercando l’occasione per realizzare l’iniziativa “politica” di rilancio.

Dunque vi erano necessità, ritenute “politiche”, di compiere un’operazione di rilievo nazionale (e un attentato lo è sempre), ma anche di trovare il luogo adatto, e di avere anche delle motivazioni più locali e contingenti, onde reperire la manovalanza locale per la fase operativa, ma anche per motivare negli esecutori la necessità di tale azione. A Brescia, esisteva un buon contatto con l’attivissimo gruppo ordinovista di Verona, che si centrava nella figura di Silvio Ferrari. A Brescia vi erano molti “obbiettivi” da colpire, in quanto erano in atto proteste sociali e vertenze sindacali importanti, con le rispettive parti in conflitto, a volte assai aspro e perfino violento.

A Brescia bisognava “dare una lezione” a tutti quei settori sociali, molti di provenienza confessionale e cattolica, che si erano perfino schierati con i laici nel referendum sul divorzio. Negli anni tra il 1969 e il 1974 si verificarono vari tentativi di sfondamento di presidi di lavoratori e studenti davanti a fabbriche e scuole; vi furono minacce a sindacalisti; gruppi di neofascisti sul piede di guerra fecero irruzioni nelle sedi di partiti di sinistra. Accaddero pestaggi di attivisti e perfino vennero collocati ordigni esplosivi in sedi sindacali.

La morte di Silvio Ferrari avvenne il 19 maggio 1974,circa alle 3,30 di notte, in via IV Novembre nei pressi di piazza del Mercato a Brescia in seguito all’esplosione della bomba che trasportava sulla Vespa 125 “Primavera” di proprietà del fratello

Silvio Ferrari, che aveva notevole libertà e capacità di movimento; che aveva assidui contatti, a vari livelli, con gli ambienti veronesi (ma anche con quelli milanesi); che aveva disponibilità ad essere operativo, fu messo in grado di compiere numerosi attentati (senza gravi conseguenze, per fortuna) che ebbero però l’effetto di impressionare la città per il loro numero e la loro potenziale pericolosità. Quando, alla metà di maggio 1974, il giovane terrorista saltò in aria su un ordigno esplosivo che lui stesso trasportava, fu evidente all’opinione pubblica che in città sussisteva un pericolo terroristico di estrema destra (anche per altri quasi contemporanei episodi analoghi, connessi con la vicenda di terrorismo di destra MAR-Fumagalli) e che era necessaria una risposta da parte delle forze politiche e sindacali antifasciste.

E fu questo il motivo per cui venne convocata la manifestazione del 28 maggio 1974 in Piazza della Loggia. Ma la convocazione di tale pubblico raduno fu considerata, da parte degli eversori neri, come l’occasione buona per mettere in opera quell’episodio di rilancio dell’iniziativa della estrema destra eversiva, già messo in cantiere a livello politico nazionale, che si associava con la volontà, in sede locale, di “vendicare” il camerata Silvio proseguendone, in modo ben più grave, l’attività criminosa. In questo modo il disegno politico nazionale si andò a combinare con una particolare situazione locale di tensione in cui gli animi degli attivisti neri, sia veronesi che bresciani, erano infiammati dalla rancorosa volontà di compiere un gesto violento verso chi protestava contro il terrorismo neofascista.

Dunque Brescia sarebbe stata, e fu individuata, come la sede per attuare una strategia politica nazionale di carattere eversivo, utilizzando una manovalanza locale già ben disposta ad un gesto clamoroso. Naturalmente gli ideatori, una volta dato l’ordine e consegnato l’ordigno allo scopo predisposto, per tramite del veronese Marcello Soffiati, presero le distanze e si estraniarono, per non essere coinvolti direttamente, con l’esclusione del solo Tramonte, la cui presenza in Piazza Loggia appare invece confermata.

Tuttavia, non essendovi piena fiducia nella “inesperta” manovalanza locale, non può escludersi che anche alcuni “esperti” militanti milanesi, con compiti di supporto e supervisione, siano stati coinvolti nell’operazione, come conferma la presenza a Brescia, in quella mattina, di Cesare Ferri, indubbiamente accertata, nonostante la ormai lontana assoluzione di tale ex imputato dall’accusa di essere uno degli esecutori del criminale gesto.

Il concorso di elementi milanesi nelle attività terroristiche nere a Brescia è confermato dal fatto che nella serata del previsto attentato al locale “Blue Note” un’automobile con a bordo alcuni militanti della destra eversiva, indubbiamente provenienti da Milano e dintorni, correndo ad alta velocità per via Milano (vicina al Blue Note) si schiantò contro il bordo strada, con gravi conseguenze per gli occupati e trasportati. Non si è mai capito cosa ci facessero a Brescia proprio quella notte degli estremisti di destra e perché se ne tornassero verso Milano correndo all’impazzata. Alla luce di quelle circostanze, data la situazione di tensione esistente a Brescia, la proterva volontà degli estremisti neri di riprendere con forza la propria attività eversiva, si coniugava perfettamente con la strategia politica generale, che anelava a una riscossa dopo diversi rovesci subiti, sia da parte dello Stato, che a loro opinione li aveva “scaricati”, sia per la contemporanea crescita dei principi democratici nella società civile.

I rapporti tra neofascisti bresciani, veronesi e milanesi

 A Brescia era sorto, come in tutta Italia, un forte movimento degli studenti mentre l’unità sindacale, a quel tempo ancora solida, conquistava notevoli benefici per i lavoratori dipendenti. Naturalmente anche a Brescia, come in altri luoghi d’Italia, vi erano settori sociali ed economici che non vedevano favorevolmente tali movimenti e li contestavano violentemente. Perciò sia alcuni imprenditori, sia diversi esponenti del mondo giovanile e studentesco, collegati a partiti politici di estrema destra, cercavano di opporsi alle rivendicazioni operaie e studentesche.

In particolare, l’estrema destra non esitava ad affrontare lo scontro di piazza, anche fisico, per contrastare quella che veniva vista come l’avanzata politica e sociale della sinistra, da essa considerata un cancro della società. Tale situazione di contrapposizione accentuava la tensione in tutta la città, dove avvennero fatti gravi di aggressione, talvolta con uso di armi, tanto è vero che un militante di sinistra – Mario Paris – venne ferito in una strada del centro di Brescia da un neofascista con un colpo d’arma da fuoco, mentre vari sindacalisti che operavano in provincia erano oggetto di minacce e intimidazioni.

Insomma, la tensione era alta e veniva continuamente alimentata da scaramucce e scontri, anche davanti alle fabbriche. Ciò costituiva occasione, nel mondo neofascista, per organizzare attività tendenti a contrastare, in modo violento, le attività e iniziative degli avversari politici, con particolare preferenza per quelli che si riferivano alla sinistra e all’antifascismo. In tal senso e con tali intenti si era costituito a Brescia, con origine nei gruppi giovanili che orbitavano intorno al MSI-Destra Nazionale, un gruppo denominato “Riscossa” che aveva e dichiarava notevoli affinità con O.N., ed in particolare il gruppo ordinovista milanese denominato “La Fenice” di cui faceva parte il già inquisito Marco De Amici, imputato nel primo processo per la strage (unitamente a Ferdinando Ferrari – detto Nando) e condannato (come Ferrari) per l’omicidio colposo di Silvio Ferrari, nonché per detenzione di armi ed esplosivi.

Il foglio edito dal gruppo Riscossa, che usciva infatti con tale denominazione, veniva stampato in una tipografia di Nave (BS) che stampava anche l’omologo foglio del gruppo milanese denominato “La Fenice”. E spesso le due pubblicazioni riportavano i medesimi articoli, a conferma della simile ispirazione. Quanto sopra per rafforzare la già rilevata vicinanza del gruppo bresciano a quello milanese, già assai esperto di attività squadristiche e terroristiche nella propria zona, oltre naturalmente ai contatti con i veronesi, che avevano il loro tramite principale in Silvio Ferrari, frequentatore non solo delle sedi dei gruppi estremisti neofascisti, ma anche di caserme dei carabinieri ove avvenivano riservate riunioni, al coperto da occhi indiscreti, e dello stesso comando delle forze Nato dell’alta Italia, allora di stanza proprio a Verona.

Tali contatti però avvenivano anche a Brescia, atteso che importanti testimonianze raccolte nell’indagine appena conclusa riferiscono di frequenti assidui contatti tra neofascisti veronesi (tra i quali Roberto Zorzi) e bresciani proprio nei pressi della pizzeria Ariston, e nei giorni precedenti la strage. A tali circostanze si aggiunge il fatto che Marco De Amici, allora militante de “La Fenice”, nel maggio 1974 si recò a Parma (dove, almeno in apparenza, studiava Silvio Ferrari e dove lo stesso divideva un appartamento con Pier Luigi Pagliai, misterioso personaggio appartenente a gruppi neofascisti che, subito dopo la strage di Brescia, fuggì all’estero (Sud America) dove venne catturato, e ferito mortalmente, dai servizi segreti italiani.

Ebbene, in quell’occasione Marco De Amici, che era in stretto contatto con Nando Ferrari, recuperò in un nascondiglio tenuto segreto del materiale che poteva essere compatibile con il tipo di esplosivo denominato “Anfo”. Dagli atti di un precedente processo (Buzzi e altri, celebrato alla fine degli Anni 70) è anche risultato che De Amici avesse a disposizione anche armi da fuoco. Dunque il convergere a Brescia, che in quel momento era un luogo di aspri scontri politici, sociali e sindacali, di neofascisti di Verona e Milano, non può che avere rafforzato il convincimento che quella era la sede ideale per il già previsto clamoroso attentato di rilevanza nazionale.

Conclusioni

Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, condannati in via definitiva per la strage

Dunque la strage del 28 maggio 1974 in Piazza Loggia di Brescia non è stata un episodio isolato e avulso da motivazioni più ampie, politiche e di tipo ritorsivo, architettata da qualche isolato ed esaltato estremista, privo dei più elementari freni inibitori nei confronti dei suoi pari, bensì il risultato di un complesso di circostanze scaturite da aberranti analisi politiche e da tensioni politiche, con motivazioni di natura generale mescolate con motivazioni di carattere locale, che ha causato tanto dolore e tanta sofferenza nella cittadinanza bresciana, oltre a quelle delle numerose persone direttamente coinvolte.

E ciò, sempre che, come ha ipotizzato qualcuno, la bomba non avesse lo scopo di colpire le forze dell’ordine, normalmente schierate in quella posizione defilata durante le manifestazioni, ma che nell’occasione si erano spostate, a causa della pioggia che aveva indotto i manifestanti a ripararsi proprio sotto quel portico, nella parte opposta della piazza rispetto al palazzo della Loggia, e dove stava il cestino dei rifiuti in cui venne depositato l’ordigno esplosivo. In tal caso, l’effetto terroristico, e le sue ripercussioni politiche, sarebbero state ancora maggiori e peggiori, perché si sarebbe colpito direttamente un organo dello Stato.

In questo articolo abbiamo cercato di analizzare e illustrare il contesto politico sociale in cui l’efferato gesto è stato ideato e commesso. In tale contesto può agevolmente inserirsi il cospicuo materiale indiziario raccolto a carico di Roberto Zorzi e del suo ritenuto complice minorenne Marco Toffaloni, il primo come componente diretto della cellula eversiva di O.N., e il secondo come facente parte di un gruppo estremistico di ispirazione evoliana, con asserite ambizioni culturali ma che condivideva pratiche di tipo criminale, e che comunque orbitava ai margini delle altrettanto criminali attivisti di O.N. veronese.

In altri termini, data la indubbia ispirazione neofascista ed estremistica dei predetti; data la loro vicinanza all’organizzazione promotrice, di questi come di altri attentati terroristici; date le inequivoche dichiarazioni raccolte dai testimoni escussi e rilasciate dagli indagati, e dati gli elementi che sono emersi nel senso della loro presenza fisica sul luogo dell’attentato, si ritiene che il quadro indiziario risultante dalle indagini a loro carico sia notevolmente stringente e possa condurre ad accertare la loro responsabilità per i reati loro ascritti.

Pietro Garbarino, avvocato cassazionista