L’enormità dei crimini nazisti e l’urgenza morale di una loro esemplare punizione, stampata nel cuore e nella mente di milioni di cittadini europei ancora prima che nelle carte giudiziarie, hanno fornito un’indiscutibile legittimazione etica ancor prima che giuridica all’istituzione del tribunale internazionale penale di Norimberga, la città tedesca dalla quale il regime di Hitler aveva proclamato la sua feroce legislazione razziale, ma destinata a passare alla storia come il luogo della punizione dei crimini commessi dai nazisti nella preparazione e nell’attuazione del loro piano di dominio mondiale.
A Norimberga – il processo iniziò il 20 novembre 1945 – fu fatta giustizia; questo è il dato fondamentale consegnato alla riflessione storica, giuridica e morale dell’Europa e del mondo intero. Un dato che però non ha cancellato le contraddizioni e le antinomie implicite nell’affermazione del diritto dei vincitori di giudicare i vinti, affermazione che ha di fatto legittimato il silenzio sulla responsabilità dei vincitori stessi per atti non giustificabili con la necessità bellica come i bombardamenti su obiettivi privi di rilevanza militare: quello, ad esempio, che alla fine della guerra rase al suolo la città di Dresda, causando decine di migliaia di vittime civili.
Le stesse contraddizioni caratterizzano la successiva vicenda della riorganizzazione dell’ordinamento mondiale, condotta in larga misura sulla base degli stessi principi sanciti con lo statuto del tribunale internazionale per la punizione dei crimini nazisti e con le sue pronunce, in particolare per quanto riguarda la responsabilità degli stati e delle persone nel provocare guerre di aggressione, definitivamente messa al bando della comunità internazionale: da un lato questo principio viene affermato, senza deroghe, negli atti istitutivi dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, sin dalla Carta di San Francisco del 1945, dall’altro, i poteri attribuiti alle potenze vincitrici della guerra nell’ambito del Consiglio di sicurezza sono stati costantemente utilizzati per aggirare tale divieto e la conseguente azione riparatrice da parte della comunità internazionale.
Si può affermare, da un certo punto di vista, che la logica della Guerra fredda, nel riproporre su scala bipolare e planetaria il modello vestfaliano del “concerto delle nazioni” come strumento di controllo della natura tendenzialmente anarchica dell’ordinamento internazionale, ha fatto sì che, per un cinquantennio, le ragioni dell’equilibrio prevalessero su enunciazioni di diritto che potevano apparire pericolosamente contrastanti con il mantenimento dello status quo e, quindi, della pace; ma di certo la fine dell’assetto bipolare del mondo, nel rivoluzionare questo assetto, ha riproposto questioni vecchie conferendo loro nuova attualità alla luce di un equilibrio internazionale più dinamico e molto meno stabile.
Sin dalla fine della seconda guerra mondiale, ma ancor più dopo la fine della Guerra fredda, alla quasi paralisi delle Nazioni Unite nella tutela dell’autodecisione dei popoli e dell’indipendenza degli Stati nonché nell’impegno per riportare la pace e ristabilire i principi del diritto internazionale in aree travagliate da conflitti civili, etnici o religiosi, ha fatto riscontro l’iniziativa unilaterale di singoli Stati o di coalizioni, la cui azione ha trovato più di una volta sostegno nella creazione da parte del Consiglio di sicurezza di tribunali internazionali con mandato limitato a singole situazioni, spesso in condizioni di non piena terzietà e di scarsa efficienza operativa (come il caso del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia o quello di Arusha per il Ruanda). Quella che Antonio Cassese ha chiamato la “sindrome di Norimberga”, intesa come sanzione da parte da parte di organi giudiziari del modello della “giustizia dei vincitori” ha gettato ombre pesanti sull’indipendenza di quei tribunali oltre che su quella di giurisdizioni nazionali condizionate da logiche extragiudiziarie, come il caso del processo farsa al dittatore iracheno Saddam Hussein, condotto sotto la regia dell’esercito di occupazione statunitense. Tutto ciò mentre la Corte penale internazionale, chiamata a giudicare degli illeciti commessi dagli Stati e dai singoli per quanto di sua competenza, stenta ad assumere il ruolo che gli atti istitutivi le assegnano.
Da questo punto di vista, si può affermare che Norimberga non ha lasciato un’eredità, malgrado l’esigenza di una dimensione internazionale della giustizia non sia certo venuta meno, ma si sia anzi andata rafforzando a fronte di crimini “globali” posti in atto nel contesto di dinamiche sempre meno governabili. Evocare in questi giorni i crimini contro l’umanità o contro la pace significa richiamare alla mente la ferocia, purtroppo ormai non più inaudita, degli attentati terroristici perpetrati in Francia e in Mali. Visti da un punto di vista penale, si tratta senz’altro di crimini la cui punizione può essere efficacemente affidata in gran parte alle giurisdizioni nazionali, tanto più in quanto emerge come ormai gli atti di terrorismo non sono più compiuti da persone che operano in suolo straniero: gli assassini del Bataclan, come è noto, sono cittadini francesi. Ma l’IS non è soltanto una congrega di tagliagole, bensì un sistema organizzato che controlla risorse di varia natura e si avvale di potenti protettori, anche tra gli Stati che a parole ne condannano l’operato. Gli eventi di questi giorni, da ultimo l’abbattimento del jet russo da parte della Turchia, testimoniano come dietro l’apparente unità nella lotta contro il terrorismo, si rinfocolino tensioni e divisioni suscettibili di alimentare politiche di potenza ed ambizioni egemoniche, dall’aspirazione statunitense a ricoprire il ruolo di unica superpotenza mondiale, al revanscismo della Russia di Putin, alla pretesa di egemonia regionale turca: un contesto nel quale un ruolo anche di sola deterrenza di una giurisdizione penale internazionale appare oggi scarsamente credibile.
Alla luce delle dichiarazioni dei leader mondiali che si sono succedute dopo gli attentati di Parigi, sembra di potere affermare che la memoria della sciagurata invasione dell’Iraq nel 2003 non è stata elaborata in misura del tutto sufficiente a fare riflettere i sostenitori del primato dell’iniziativa militare sul fatto che questa strada ha finito il più delle volte con il sortire l’effetto opposto a quello che si proponevano di raggiungere, portando ad una restrizione dei diritti di libertà nei Paesi più immediatamente minacciati non compensata da risultati significativi sul piano della repressione.
Di fronte all’enormità ed alla ferocia dell’attacco terroristica e dell’IS, l’opzione militare non può essere scartata in modo aprioristico, ma vi deve essere piena consapevolezza che la guerra tradizionale, con l’occupazione di territori ed il capovolgimento di governi ritenuti ostili, ha dato luogo a gravi violazioni del diritto internazionale senza d’altra parte apparire risolutiva. Inoltre, non si può non vedere la novità, questa sì globale, del conflitto odierno: non tanto nella sua dimensione spaziale, dato che la guerra in senso stretto continua a collocarsi in aree geograficamente ben definite, quanto per l’accanimento contro i civili (peraltro per la maggior parte di religione musulmana) e per l’impossibilità di localizzare la difesa e la reazione (quando si spara contro un locale dove si fa musica, ha più senso parlare di obiettivi sensibili?).
Anche nel caso della lotta al terrorismo, le difficoltà della politica, e la priorità assegnata all’iniziativa militare affidata agli Stati o a coalizioni più o meno stabili convergono nel riprodurre le condizioni nelle quali la stessa possibilità dell’esercizio di un’azione penale internazionale risulta condizionata se non paralizzata dal prevalere della ragion di stato sull’esigenza di individuare e colpire responsabilità e connivenze che quasi sempre non sono limitate da frontiere e attraversano trasversalmente gli schieramenti.
Pubblicato mercoledì 2 Dicembre 2015
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