ECCOLI CHE TORNANO
Un tempo ero una partigiana in cerca di una giusta causa, in una realtà dove l’Italia era spaccata a metà e terrorizzava se stessa.
Sono morta così, per sbaglio, uno stupido sbaglio, perché a quattro gentiluomini fascisti andava di farsi una scopata.
Sono morta vedendo il confine tra uomo e bestia spezzarsi. Sono morta prima ancora di poter scoprire se tutto quello per cui ho vissuto è servito a qualcosa, ma non è forse, questo, il dramma di tutti? Aver paura di non essere riusciti a vivere abbastanza?
Sono morta a ventuno anni, direi di potermi concedere questo tipo di preoccupazione.
Esisto così, dove mi trovo ora, in questo regno dimenticato dal resto del mondo, nell’oblio dove cadono gli eroi senza memoria, tormentata dal pensiero di tutto quello che avrei potuto fare per il mio Paese ma non ho fatto, inseguita dai volti delle persone che non ho saputo proteggere, angustiata dalle promesse infrante, prima tra tutte quella fatta a mia madre, dicendole che sarei tornata presto a Catania.
E, naturalmente, ci sono anche loro: i quattro uomini causa della mia prematura dipartita e i loro sogghigni malefici.
Ero su un tram quando accadde, ai tempi facevo parte della SAP a Genova, sì io maestra con le squadre di azione partigiana; non ricordo dov’ero diretta, molti ricordi col trapasso tendono a svanire. I soldati salgono sul tram, sono davanti a me, mi accarezzano i capelli, poi la guancia, le loro carezze mi bruciano come il morso di una vipera e come serpi le loro mani strisciavano sulle mie gambe. Gli dico di smetterla ma loro ridono come se avessi raccontato chissà quale storiella, sento il cuore impazzire, mi alzo cercando di scendere, tutto inutile: mi obbligano a risedermi, assumono un’aria seria, trovano la pistola nascosta nella mia giacca. Sono stata una stupida.
I ricordi ora sono confusi. Ad una qualche fermata, mi spingono fuori con loro. Sono stata torturata allo scopo di farmi parlare. Ho confessato? Non me lo ricordo, quando ti ritrovi nella mia condizione ti rendi veramente conto di quanto le parole siano niente, meno di polvere dissolta nel vento.
Le azioni, quelle, cicatrizzano lo spirito, e le mie di cicatrici scavano nel profondo.
Mi imbavagliano la bocca e, in tre, trattengono le mie braccia mentre uno per volta mi penetrano violentemente, lasciando liquefare il loro viscido seme sulle mie gambe.
Vengo trascinata in vicinanza di un bosco, la chiamano Rocca Dei Corvi.
Abusano di me, ogni pezzo del mio corpo vorrebbe urlare, i miei strepitii si fanno sempre più forti mentre gli infami mi fanno pentire di essere ancora viva. Urlano parole che non capisco, mi strappano i vestiti di dosso, i loro schiaffi pesano come macigni sulle mie guance fino a farle grondare di sangue, la testa ormai non è più avvolta da una chioma di capelli neri ma da poche sterpaglie di peli e chiazze rosse. E io urlavo e urlavo e urlavo, ma era come se fossi sola al mondo, nessuno mi sentiva. Le lacrime solcavano il mio volto sfigurato. E urlavo, e urlavo, e urlavo. Mi prendono ancora di forza, scappo e loro mi raggiungono, e arriviamo nel bosco. Decidono che ne hanno abbastanza di me, del mio corpo. Guardo il mio volto riflesso in una pozzanghera, non mi riconosco e mi chiedo se possa ancora chiamarsi donna quel mostro nel riflesso, rifiuto di credere sia io. Alla fine, ho smesso di urlare. Vengo gettata in una fossa assieme ad altri uomini, i miei “amici partigiani” dicono con disprezzo; i loro cadaveri attutiscono la caduta. Mio Dio, cosa ne hanno fatto di me. Vengo lasciata sola a marcire. Perché è successo questo?
Non ho neanche la forza di piangere, ma non dovrei stupirmi, piangere è un diritto dei vivi. Vero? Ora però andate via: ricordare è stancante, scomodo, talvolta noioso; forse per questo nessuno viene alla mia tomba.
Luca Lanata, studente della 5ªA, Liceo delle scienze umane “Sandro Pertini” di Genova
Pubblicato giovedì 10 Dicembre 2020
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