Un giorno un’adolescente scopre di essere ricercata dalla polizia per una sua opera. No, non è l’incipit di un giallo né di un dramma di teatro dell’assurdo. È una storia vera, quella dell’artista e giornalista curda Zehra Doğan e raccontata da Antonella De Biasi in questa edizione destinata ai lettori dagli 11 anni.

La pietra dello scandalo, per le autorità turche, è il dipinto conosciuto come “la Guernica curda” che raffigura una scuola media bombardata e attanagliata da carri armati, mostri metallici dalle enormi mandibole, su cui sventolano le bandiere con la mezzaluna. L’opera vale a Zehra l’accusa di “propaganda per un’organizzazione terroristica” e la condanna a 9 mesi e 22 giorni di prigione da scontare nel carcere di Diyarbakır.

Zehra Doğan (wikipedia)

Da questo momento, il racconto si dipana su un doppio filo narrativo: quello del presente, in cui Zehra fa l’esperienza del carcere, e quello del passato, attraverso i flashback che riportano la protagonista nei luoghi a lei cari, tra amici e familiari, facendo conoscere allo spettatore quella vita “normale” che, anche se fuori da una cella, continua a rincorrere dei brandelli di serenità.

“Molte parole nella loro lingua di fantasmi vengono usate per descrivere l’esodo” scrive De Biasi in una frase fulminea, e subito proietta il lettore in uno scenario in cui la vita è così precaria che anche la lingua vi si adegua, coniando nuovi termini che si fanno strada nel dolore come stretti cunicoli di salvezza. Parole come trincee dietro cui ripararsi, che ricordano il conforto materno, l’accoglienza di una casa, oppure parole urgenti, da usare quando non c’è nemmeno il tempo per spiegare.

La “Guernica curda”

I capitoli si avvicendano con un registro narrativo lieve che però non sottrae nulla al dramma raccontato: l’autrice riesce a rendere la pena della prigionia e, insieme, la grande forza vitale che la protagonista incontra in carcere. Decine di sue coetanee, ragazze curde imprigionate senza un processo, finite in galera per aver cantato una canzone o per aver usato parole “non appropriate”: insomma, per aver mostrato a tutti la bellezza della libertà.

“Dorşîn”, acrilico su tela, realizzato nel 2016 nella prigione di Mardin (https://zehradogan.net/)

Molti dei personaggi presentati – specifica De Biasi nella nota per il lettore – sono realmente esistiti, altri semplicemente immaginati, “assemblati” a partire da sogni e desideri comuni. Incontri rivelatori, figure che fanno avvicinare Zehra alla sua arte, salvandola dalla solitudine. Grazie a un lavoro di squadra, infatti, la pittrice riesce a realizzare decine e decine di nuove opere, che trovano il modo di arrivare all’esterno attraverso le canaline idriche, per colpire e conquistare con la forza espressiva dei colori.

E proprio questi sono il cardine della narrazione attorno al quale ruota la prigionia: ogni capitolo è legato a una sfumatura, un ingrediente, un elemento, che ancorano alle condizioni di vita in cella e, insieme, permettono di comprendere l’evasione di cui è capace l’arte. Rosso anguria, curcuma, caffè, sono solo alcuni dei titoli dei capitoli che diventano anche il pretesto per raccontare il vissuto di Zehra e la sua arte, tra spezie, tramonti, paesaggi e gli occhi di un’amica. Ma sono anche gli ingredienti che la protagonista utilizza per dipingere in carcere, avanzi di cibo che diventano acquerelli e pastelli di fortuna.

“Sarmaşıklar 2”, 2018 (https://zehradogan.net/)

Il colore è ricordo e, insieme, vita in divenire; perché la ragazzina curda, fiera delle sue origini e animata dalla voglia di dipingere e disegnare, vede in ogni tinta la speranza e, nella possibilità di continuare a creare le sue opere, la prospettiva di salvarsi.

Il libro è pensato per i lettori più giovani, per spiegare loro cosa voglia dire nascere e crescere in un posto in cui anche i diritti basilari possono sembrare privilegi. Ma il racconto della prigionia va di pari passo con una passione smisurata, capace di oltrepassare il filo spinato. Ed è anche la storia di amicizia, di una rete profonda e intessuta giorno dopo giorno, di un reciproco supportarsi anche in condizioni di deprivazione inimmaginabili. A disposizione del lettore, delle mappe per orientarsi nel territorio di Diyarbakır e un glossario per avvicinarsi alla cultura curda, comprendendo quei termini che, per una scelta rispettosa del retroterra della protagonista, nel libro si trovano in lingua originale.

“Neynik” (“Specchio”), 2020 (https://zehradogan.net/)

L’appendice, poi, è impreziosita dalle tavole di Zehra Doğan, che descrivono in modo vivido la condizione di un popolo oppresso e di vicende umane relegate al silenzio e alla sofferenza. Ci sono, inoltre, le testimonianze fotografiche dei pennelli che la pittrice realizza con mezzi di fortuna, come le piume di uccello intrappolate nel filo spinato del cortile del carcere, o con le ciocche di capelli delle compagne di cella, che diventano setole per dare intensità, profondità e corpo ai colori.

Un’illustrazione di Zehra Doğan dall’appendice del libro

Perché anche in questo emerge la grande umanità, la condivisione di un dramma che non rende nemici, ma alleati. Quella di Zehra è una voce, una vita e una singola esperienza, ma si fa inevitabilmente megafono di sofferenze comuni. Con chiare immagini e parole semplici, Zehra – la ragazza che dipingeva la guerra è in grado di diventare universale, generando una mimesi tra lettore e protagonista perché, a tutte le latitudini, essere giovani significa anche questo: avere degli ideali da difendere con forza e tenacia per trovare il colore anche nel buio più profondo.