Ci sono pagine di storia ancora da studiare e su cui confrontarsi, fatti che a seconda della lente con cui si guardano hanno il sapore del fatto eroico o della tragedia, entrambi purtroppo ordinari nella guerra e necessari per passare alla storia. In tutto questo rientrano certamente anche i fatti del paesino valtellinese di Buglio in Monte che sorge tra boschi di castagni a mezza costa sulla soleggiata sponda retica della provincia di Sondrio.
L’11 giugno del 1944 i partigiani della zona, guidati dal comandante Nicola della 40° Brigata Matteotti, occuparono il paesino creando una zona libera, l’unica nella valle durante la guerra di Liberazione. I patrioti tennero assemblee prendendo decisioni democraticamente insieme alla popolazione, destituirono il podestà eleggendo il sindaco, distribuirono le derrate alimentari e la lana che trovarono nei magazzini destinati all’ammasso mentre sul municipio issarono la bandiera rossa. La sfida al regime era lanciata apertamente. Come se non bastasse, Nicola inviò al Prefetto Rino Parenti un telegramma in cui annunciava la costituzione della libera Repubblica di Buglio in Monte.
L’intervento è preceduto nel territorio da una serie di azioni di guerriglia andate a buon fine per i partigiani che spiegano l’entusiasmo e anche l’azzardo dell’occupazione. L’8 veniva attaccata la caserma dell’Aeronautica a Colico, il giorno seguente una squadra aveva occupato Ardenno e saccheggiato alcuni camion di rifornimenti. La colonna partigiana aveva poi percorso la provinciale ed era salita fino a Buglio dove, nella piana, venivano uccise due spie fasciste. Subito il colonnello Raffo accompagnato da due ufficiali tedeschi e un gruppetto di uomini si precipitò in paese nel tentativo di sorprendere i ribelli, ma questi riuscirono a fuggire subito. Il 10 era stato teso un agguato ad un treno della linea Milano-Tirano carico di militi fascisti. In questo susseguirsi di azioni vittoriose si inserì quindi la decisione di osare ancora di più puntando dritti su Buglio in Monte con l’intenzione di occuparlo per soli pochi giorni prima di tornare a nascondersi nei boschi più in alto. L’esperienza ebbe però vita breve e l’esiguo numero di partigiani col suo comandante non tennero conto della posizione indifendibile ed esposta del paesino in caso di attacco, che, certamente e prevedibilmente, sarebbe arrivato in poco tempo, annunciato persino qualche giorno prima sulle colonne de Il Popolo Valtellinese.
In preda ad un’euforia generale, la notizia della liberazione del piccolo borgo si diffuse velocemente in valle fino ad arrivare a Milano, una situazione che il pugno dell’oppressione non poteva di certo tollerare. Appena la voce giunse nel capoluogo lombardo, subito il Partito comunista milanese inviò un gruppetto di giovanissimi studenti del Fronte della Gioventù, senz’armi ma con la falsa illusione che le avrebbero trovate una volta arrivati sul posto. In realtà, i partigiani avevano a disposizione solamente tre mitragliatrici Breda (di cui una di queste nascosta dopo l’8 settembre in Val Gerola e poi recuperata) e poche armi automatiche, fucili e moschetti.
La rappresaglia fu spietata: fin dall’alba di giovedì 15 giugno una decina di cannoni posti sul fondovalle nella piana della Selvetta, dove sorge tutt’oggi il ristorante “La Brace”, si misero a bombardare il paese incendiando le case dei contadini. Fu un colpo di mortaio a dare il via al bombardamento, che riecheggiò nel silenzio di quell’alba, poi l’inferno. In una inutile e disperata difesa, i partigiani cercarono di impedire l’avanzata dei tedeschi che insieme alle truppe mongole e fasciste risalivano, il giorno seguente, la montagna dai tre lati, due dei quali ai fianchi del nucleo abitato, ben protetti dalle vallette in cui si trovavano. In tutto le forze nazifasciste erano composte da un migliaio di uomini ben armati, circa ventisei automezzi, mentre i partigiani erano solo un centinaio di cui solamente una cinquantina quelli armati. Tutto quello che riuscirono a fare fu ritardare l’accerchiamento e solamente quando Nicola capì che era impossibile mantenere le posizioni, ordinò ai suoi di sganciarsi nel tentativo di fuggire in Valmasino portandosi sopra all’abitato di Roncaglia. In paese entrarono prima i cosacchi, seguiti dai tedeschi e dai repubblichini. Al loro arrivo le restanti povere case vennero saccheggiate: “i soldati rubarono il paiolo in rame della polenta, il burro e il vino facendolo però assaggiare prima a mia mamma e poi a me per vedere se fosse avvelenato” racconta S. Codazzi che all’epoca dei fatti aveva 18 anni e ricorda bene quel giorno e le violenze sessuali che ci furono: “C’era un tenente tedesco che mi aveva chiesto di accompagnarlo dove abitavo ma quando ha aperto la porta della stalla di mio zio e ha appoggiato il mitra alla rella (il recinto del maiale, ndr) ho capito l’intenzione che aveva, mi sono spaventata ed ho urlato. Sono arrivate mia mamma ed altre donne e allora sono tornata dentro. Ma non è successo solo a me, almeno altre due ragazze sono state vittime di quel tenente. Una volta non si parlava di queste cose e quelle venivano un po’ isolate e additate dalle altre in paese”.
I civili rimasti furono ammassati sul lato sud della piazza del Municipio, con le braccia alzate, faccia al muro, i mitra spianati alle spalle. Anche le suore furono rinchiuse dietro ad un portone. La strage fu evitata solo grazie all’intervento del parroco don Lino Giana che riuscì a farli liberare tutti, pagando poi con quattro mesi di carcere per il suo favoreggiamento alle formazioni partigiane della zona.
Nell’attacco caddero 7 vittime civili e 9 partigiani. Sei di questi (Bollina, Zamboni, Nicoletti, Bianchi, Vecchiattini, Gabellini) erano i ragazzi del Fronte della Gioventù milanese che vennero catturati e fucilati ai piedi dell’abitato al ponte del mulino di Erminio Jemoli che venne picchiato e costretto ad assistere all’esecuzione: si stavano difendendo lanciando sassi, l’unica arma che avevano trovato arrivati a Buglio. A questi sono dedicate targhe commemorative in giro per la città di Milano nelle case dove abitavano (Viale Monza, via Tertulliano 38…). Con loro venne fucilato anche Clemente Valeni, 36 anni, di Gaggio, il cuoco del gruppo, che si era appostato con la mitragliatrice al Gesù del Dosso. Anche il Reda di Ardenno (18 anni) fu ferito alla coscia e catturato alla Sciaresa, località vicino al cimitero, e lì ucciso con una rivoltella da un tedesco. Il cadavere di un ragazzo di 17 anni di Talamona, Pasina, fu rinvenuto dopo qualche giorno in uno stato irriconoscibile: i fascisti lo avevano cosparso di benzina e gli avevano dato fuoco.
Tra i civili particolarmente drammatica fu l’uccisione di due fratellini di 12 e 2 anni Tarcisio e Gemma Travaini mentre stavano fuggendo dal paese: la pallottola li uccise insieme, trapassando il fratello e la sorellina che portava in braccio. Le brigate nere restarono a presidiare Buglio fino al 20 settembre, occupando la casa parrocchiale attrezzandola come caserma.
L’errore militare di Nicola e dei suoi uomini fu evidente fin da subito, causando immediatamente dopo la fuga un aspro confronto all’interno della Brigata tra lui ed in particolare Camillo, il dottor Giuseppe Giumelli, medico dei partigiani. La sera dopo il rastrellamento, infatti, i patrioti superstiti si ritrovarono all’Alpe del Masino e dopo un acceso scontro verbale se ne andarono in tre quattro, tra cui Camillo.
In sintesi si può dire che la prematura occupazione di Buglio in Monte fu un evidente momento tragico ed eroico insieme, che spinse il Cln locale a cambiare strategia, preferendo alla sfida aperta al regime la rappresaglia, evitando il più possibile il coinvolgimento della popolazione civile. Certamente, però, da quel momento in poi in Valtellina il movimento partigiano andò organizzandosi in maniera più robusta e capillare, compito non facile vista la posizione strategica sia per il confine con la Svizzera sia per la statale 38 che attraverso lo Stelvio porta verso l’Alto Adige. Si capisce bene quindi anche la scelta degli ultimi giorni del fascismo, mai concretizzatasi, di tentare una estrema resistenza della repubblica di Salò proprio in provincia di Sondrio.
Oggi a Buglio in Monte non sono in molti a ricordare quanto è successo, i partigiani del paese sono morti tutti e la gente non racconta più in casa. La memoria è tenuta però viva dalla commemorazione che ogni anno viene fatta sulla piazza del paese dall’Anpi e dal Comune. Un compito non facile ma fondamentale per mantenere viva la memoria di quel territorio e del Paese intero.
Giacomo Perego
Pubblicato venerdì 26 Ottobre 2018
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