Quello che accadde in Italia – intendo dire nella politica italiana – nella primavera-estate del 1960 è stato di grande rilievo e di determinanti conseguenze.

Viceversa, a mio avviso, l’analisi, la ricerca (…) storica, è stata quanto mai avara e reticente.

Le nostre biblioteche contengono pochissime opere editoriali che trattino di quel periodo e dei fatti del giugno-luglio 1960, che l’hanno caratterizzato. Eppure il contesto politico, nazionale ed internazionale, che precedette i fatti del “giugno-luglio” offre spunti di notevole interesse.

Solo per fare pochi e generici riferimenti basti ricordare, restando nell’ambito internazionale più coinvolgente per la sinistra, l’approssimarsi del XX Congresso del PCUS e del clamoroso “Rapporto Kruscev” e le non ancora rimarginate ferite provocate dalla repressione sovietica dell’insurrezione ungherese del 1955.

Ancora più significativi gli elementi di novità che emergeranno in quella fase in Italia: il messaggio del Patriarca di Venezia (divenuto poi Papa Giovanni XXIII) al 32° Congresso Nazionale del PSI; le sperimentazioni “milazziane” in Sicilia; i tormenti interni della DC alla ricerca di una strategia di respiro dopo il fallimento, nel 1953, della cosiddetta legge-truffa che nelle intenzioni avrebbe dovuto assicurargli sufficiente base parlamentare per non doversi “contaminare” né con la destra, né con la sinistra.

Questi pochi e generici riferimenti, stanno però a dimostrare che tutto il quadro politico internazionale, e soprattutto nazionale, era percorso da crisi, sconvolgimenti e, quindi, alla ricerca di nuovi sbocchi, oggi diremmo di nuovi equilibri.

Ma analizzare adeguatamente tali eventi sarebbe stato, e tuttora sarebbe, compito degli storici o di politologi attenti ed obiettivi. Non certamente il mio, assolutamente impari a simile impegno e, comunque non in questa sede, per la quale è richiesto un più semplice ricordo dei “fatti del luglio ’60”.

Dico subito che per i genovesi quel periodo è ricordato e tuttora vissuto come il “30 giugno e seguenti”.

Poco tempo prima, a costo di una crisi lacerante al suo interno, la DC aveva concluso con l’accettare i voti determinanti dei fascisti del MSI di Almirante (ancora nemmeno inumidito dalle acque sdogananti di Fiuggi!) per sorreggere la sua gracile e traballante maggioranza parlamentare. Così si formò il governo Tambroni con l’assenso di Segni al tempo Presidente della Repubblica.

Le reazioni della Resistenza, dei partiti e dell’opinione pubblica democratici furono, come noto, vibranti e generali. Era giustamente considerata una intollerabile vergogna la rottura del patto costituzionale (il MSI ha votato contro la tuttora vigente Costituzione della Repubblica!).

Anche all’interno della DC si manifestò insofferenza e non mancarono atti di grande coerenza democratica, come dimostrato dalle dimissioni dei Ministri Bo (genovese) e Pastore. Ma tant’è, Tambroni intendeva procedere pervicacemente nella sua avventura e per compiacere il suo nuovo alleato, forse per legittimarlo definitivamente, ne autorizza la convocazione del suo Congresso Nazionale a Genova. Proprio a Genova, medaglia d’oro della Resistenza e, per di più, in un Teatro a pochi passi dal Sacrario dei Caduti Partigiani. Un Congresso che sarebbe stato presieduto da C.E. Basile, Prefetto di Salò a Genova, corresponsabile dei massacri dei nostri patrioti.

Se questa è stata la causa ultima scatenante la rivolta antifascista di Genova, v’è da dire che il clima, la tensione, lo sdegno in città erano già fortissimi prima, in connessione con l’inaccettabile aggravarsi del quadro politico nazionale.

È opportuno ricordare che in quei giorni il Comune di Genova era commissariato a seguito delle dimissioni della giunta centrista, sorretto dai voti determinanti dello sparuto gruppo missino.

Era accaduto che un perentorio invito dell’allora Segretario del PDSI – Matteo Matteotti – aveva imposto le dimissioni agli assessori socialdemocratici presenti in quella giunta centrista.

Questo dà l’idea di quale era già da mesi la situazione politica nella Città, nella quale, vale il caso di ricordarlo, i consiglieri comunali del PCI e del PSI si sommavano a 38 unità su un totale di 80. L’avventura tambroniana e la ulteriore provocazione fascista del Congresso hanno fatto il resto.

Già nel corso del mese di maggio la mobilitazione e la protesta contro la manovra Tambroni-Almirante è vastissima. Si registra via, via, un crescente realizzarsi di precise prese di posizioni e di concrete manifestazioni. Fra i lavoratori del porto, delle fabbriche metallurgiche, nelle scuole, alla Università, nei quartieri, l’indignazione è altissima e si concretizza con i primi scioperi di settore e di azienda.

Al Raduno di Pannesi del 2 giugno, che l’ANPI di Genova annualmente organizza, l’oratore ufficiale, Umberto Terracini, da par suo, incita la ampia platea di antifascisti convenuti alla lotta intransigente contro il proposito reazionario e restauratore. Giorno dopo giorno la protesta si allarga sempre più e coinvolge l’intera area ligure e la zona del basso Piemonte.

Il Governo nazionale e i suoi organi periferici respingono ruvidamente ogni appello a rivedere la sua posizione. Risponde che intende ad ogni costo garantire la libertà di riunione e di opinione (!).

Quasi che non risultasse ormai assolutamente chiaro che la posta in gioco era il riconoscimento, la “codificazione”, dell’inserimento dei fascisti nell’area di governo, con la conseguenza della rottura del patto costituzionale. Per cogliere tale obiettivo occorreva infliggere una esecrabile offesa alla Città, fiera delle sue tradizioni democratiche, e alla memoria e ai valori di tutta la Resistenza.

L’ampia mobilitazione popolare (e sorprendentemente notevole quella dei giovani!) è sorretta e orientata da un dispiegamento di forze associative, sindacali e partitiche senza precedenti.

L’ANPI e la Camera del Lavoro sono schierate in prima linea e con loro i Partiti (PCI, PSI, PSDI, PRI e la Comunità Ebraica e, a titolo individuale, singole personalità del mondo cattolico e liberale: Lazzaro Maria De Bernardis, l’Avvocato Tixi).

Nel pomeriggio del 28 giugno (quando già alla chetichella stanno arrivando i primi gruppetti di congressisti missini) il ricostituito Consiglio Federativo della Resistenza indice una manifestazione pubblica nel centro della città, piazza della Vittoria la più spaziosa. I pochi dubbi sulla riuscita vengono spazzati via molto prima del previsto inizio del comizio. Una folla enorme riempie completamente l’area della manifestazione alla quale Sandro Pertini, oratore ufficiale, rivolge un discorso lucido ed appassionato che infiamma la marea di semplici cittadini e di militanti dell’antifascismo.

Il grande successo della manifestazione però non smuove l’ostinata posizione governativa che, anzi, fa affluire a Genova imponenti forze di polizia, tra le quali i famosi reparti della “Celere” di Padova.

Siamo alla vigilia della giornata decisiva.

La Camera del Lavoro per la giornata del 30 giugno indice uno sciopero generale di tutte le categorie a partire dalle ore 15 fino alla fine dei turni di lavoro.

Il corteo, con alla testa i capi della Resistenza, dei Partiti antifascisti e della Camera del Lavoro, attraversa tutto il centro della città e, ancora una volta, raggiunge piazza della Vittoria. Un corteo imponente, mai visto a Genova così maestoso prima di quella occasione. La tensione è altissima e si accompagna alla gioia per la grande riuscita dello sciopero e della manifestazione.

Bruno Pigna, Segretario responsabile della Camera del Lavoro, svolge un breve discorso, concludendo con l’invito a scioglierlo restando però pronti ad altre iniziative di lotta sino al raggiungimento dell’obiettivo di impedire il Congresso fascista.

La grande marea dei centomila abbandona la piazza e, in parte, risale verso il centro, in piazza De Ferrari dove dissennatamente sono schierate ingenti forze di polizia quasi a cercare lo scontro fisico con i manifestanti.

E gli scontri si verificano. Caroselli, impiego di autoblinde, pestaggi, inseguimenti, feriti da una parte e dall’altra. Tutto questo dura ore ed ore. Fino a che l’intervento risoluto di Giorgio Gimelli, Presidente dell’ANPI, nei confronti dei vertici della Questura, non determina, verso sera, un allentamento degli scontri sino al loro cessare col ritiro degli agenti di polizia.

Le tempestose riunioni che si susseguono in Prefettura non ottengono alcun risultato.

Fermo nelle sue posizioni il Consiglio Federativo della Resistenza; altrettanto fermo il Prefetto in base alle rinnovate direttive governative.

Anche una proposta, a suo dire “conciliante” viene sdegnosamente respinta dagli antifascisti.

Si sarebbe trattato di spostare il Congresso del MSI in un Teatro nell’estremo levante della città e, un comizio della Resistenza sul piazzale dell’autostrada, al lato opposto, nel ponente della città.

A ben vedere, un anticipo di quello che negli anni successivi sarebbe stato lo schema della teoria degli “opposti estremismi”. La Resistenza non poteva accettare tale soluzione-trappola. E non la accettò.

Questa la conclusione della grande “storica” giornata del 30 giugno ’60 a Genova.

Nella nottata il Prefetto comunicava che il Congresso missino non si sarebbe più svolto a Genova. La Resistenza, la democrazia avevano vinto. I fascisti impauriti e chiusi da giorni nelle camere di albergo, alla spicciolata lasciavano finalmente la città!

Dopo alcuni giorni – nel corso dei quali la rivolta di Genova infiammò la sonnolenta politica nazionale, risvegliando un forte sentimento antifascista in tutte le espressioni della democrazia italiana – si riportano dal Nord al Sud del Paese roventi dibattiti in Parlamento e gli accesi scontri per le forze politiche anche all’interno della stessa DC che sino ad allora aveva sostenuto le scelte di Tambroni.

Purtroppo chi era stato sconfitto a Genova, voleva ad ogni costo una sua rivincita sul campo. Che si manifestò, nei primi giorni di luglio con le aggressioni e gli eccidi di Catania, di Roma e, particolarmente di Reggio Emilia.

Ma ormai la riscossa democratica, pagando purtroppo prezzi altissimi con le vittime della reazione poliziesca, si era affermata e aveva raggiunto un punto di non ritorno. Infatti, di lì a poco il governo Tambroni si dovette arrendere e dimettere.

La “rivolta” popolare iniziata a Genova il 30 giugno e poi proseguita e allargata in tutta Italia nei giorni seguenti, aveva vinto una storica battaglia e perciò aperto al Paese una nuova stagione (non priva di luci ed ombre) caratterizzata da un nuovo clima dove erano possibili progetti di convivenza civile e politica e di sviluppo sociale.

Anche nel lontano 1900, lo sciopero generale realizzato a Genova, contro la decisione governativa di sciogliere la locale Camera del Lavoro, portò alle dimissioni del Governo Saracco e all’arrivo di una “nuova” stagione politica: quella giolittiana… (per saperne di più leggere quanto scrive su La Stampa di Torino un suo eccezionale corrispondente: Luigi Einaudi).

È proprio vero, la storia si ripete.

(da Patria Indipendente n. 9 del 2004)