Gianfranco PagliaruloNon ci sono parole davanti al massacro di Orlando.

Eppure occorre razionalizzare, capire, schierarsi, in qualche modo essere partigiani. Così come lo si è stati dopo la strage di Hebdo, quando in tanti hanno urlato “io sono Charlie”. Così come lo si è stati dopo il Bataclan e dopo Bruxelles. Non nascondiamo la montagna dietro un dito: sono ben pochi quelli che hanno detto – e scritto – “io sono gay”. Bene ha fatto Stefano Sechi a scrivere “Dopo questa tragedia abbiate il coraggio di dire: sì, sono gay. Abbiate il coraggio di farlo, anche se non lo siete. Abbiate il coraggio di farlo per amore dei vostri amici, dei vostri figli, dei vostri genitori. Abbiate il coraggio di farlo per non sentire più parlare di diversità. Abbiate il coraggio di dire: sono gay, sono etero, sono bianco, sono nero, sono ebreo, sono musulmano. Perché prima di tutto siamo esseri umani”. Bene ha fatto Andrea Liparoto, dirigente nazionale dell’ANPI, a riprendere testualmente le sue parole. Prima di tutto siamo esseri umani, ovvero – come diceva Vittorio Arrigoni durante i bombardamenti israeliani su Gaza – “restiamo umani”.

Questo è il tema: l’umanità rinnegata, abiurata, violata, profanata. Poco importa che siano “lupi solitari” o miliziani dell’Isis. Ciò che conta è il cupio dissolvi di cui costoro sono portatori, al punto da perdere consapevolmente la propria vita pur di negarla ad altri la cui unica colpa è quella di esistere. Sembra l’epifania – dunque l’apparizione, la manifestazione – del mito della bella morte, così caro ai repubblichini, ma riletto in chiave apocalittica, millenaristica, come annichilimento dell’umano. Per contrastare la metastasi di Daesh e dei suoi tentacoli diffusi nel mondo, non c’è altra via che una coalizione internazionale la più larga possibile che prosciughi l’acqua in cui navigano miliziani e terroristi e metta a nudo ambiguità e connivenze dei governi che in un modo o nell’altro li sostengono.

Ma l’ecatombe del “Pulse” non parla solo di una sindrome paranoica e paranazista che alberga nella mente degli assassini. Parla anche di noi, dell’“occidente reale” qui ed ora. Parla della più grande potenza mondiale ove si vendono armi come a Frascati si vendono aspirine; parla di una pseudocultura della violenza e del sangue che transita trionfante su tutte le reti televisive attraverso film, telefilm, reality, in un’orgia di sparatorie, esplosioni, inseguimenti in auto, e così via farneticando; parla di una guerra vera, reale, eppure spesso oscura, senza tempo e senza fine, che imperversa oramai nel Medio Oriente e nel mondo. La guerra, dunque, come strada senza ritorno, come “eccezione normale”, un ossimoro che attesta l’ingresso dell’idea della guerra permanente nelle nostre case e, prima ancora, nelle nostre teste; e che si incarna nell’assordante silenzio globale sulla corsa sfrenata agli armamenti da parte di tutti.

“Restiamo umani”: un grido tanto più alto quanto più sembra che la realtà lo neghi. La motivazione dell’attacco ai frequentatori del “Pulse”, al di là della psicopatologia dell’attentatore, è nel fatto che questi fossero omosessuali. Un buon motivo per sterminarli. E alla traumatica negazione del diritto alla vita per le vittime si aggiunge il corollario grottesco: il ragazzo americano scampato alla strage, che il giorno dopo è andato al lavoro e si è trovato licenziato perché aveva partecipato alla festa gay; il parroco di Decimoputzu (Cagliari), don Massimiliano Pusceddu, che ha affermato che i gay meritano la morte, per poi rettificare – alcuni giorni dopo – che parlava di morte spirituale; quella della insegnante di Bari, che scrive su facebook che sì, la strage di Orlando è condannabile, “ma io penso anche a quanti bambini si sono salvati da molestie sessuali”; e così via devastando.

Ecco perché la strage del “Pulse” parla anche di noi, della perversa modernità del nostro tempo, il tempo dell’odio, del rancore e dell’angoscia, della comunità di clausura, della prigione in cui ci siamo reclusi pur di separarci dall’altro, chiunque esso sia, perché nemico. E così, prima ancora di separarci dall’altro, ci siamo separati da noi stessi, scissi, sdoppiati, dottor Jekyll e mister Hyde del tempo della globalizzazione.

Eppure c’è una via per superare lo sgomento di questi giorni. Assieme, per contrastare qualsiasi discriminazione fra le persone, per recidere ogni pregiudizio che ci allontana dall’Altro, per prendere atto definitivamente che al di là di ogni differenza di pelle, di religione, di abitudini, di reddito, di sesso e di costumi sessuali, il sangue di tutte le donne e gli uomini ha sempre e ovunque lo stesso, medesimo, identico colore.

La via – la via della sicurezza, della riconquista della speranza, del restare umani – è quella indicata da una Carta di cui tanto si discute in questi mesi, ove afferma: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”, e dispone: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Ecco perché, davanti alla strage del “Pulse”, siamo tutti – ancora, testardamente e consapevolmente – partigiani.