Sono legittime le misure di divieto di circolazione e riunione, nonché di svolgere attività produttiva posta in essere a seguito dell’emergenza sanitaria in cui versa il nostro Paese? La Costituzione prevede espressamente, all’articolo 16, che la libertà di circolazione possa essere limitata “per motivi di sanità o di sicurezza”. L’articolo 17, sulla libertà di riunione, dispone che essa possa essere vietata per “comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica”. L’iniziativa economica, scrive ancora la Costituzione all’articolo 41, non può svolgersi “in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà alla dignità umana”. Infine, l’articolo 32 sulla tutela della salute non solo esplicita che questa è un “diritto fondamentale dell’individuo”, ma che costituisce anche un “interesse della collettività”. Dal punto di vista della Costituzione si tratta, dunque, anzitutto di verificare se sussistono le condizioni per potere applicare i limiti e i divieti a salvaguardia del diritto fondamentale alla salute.
È da tenere presente, in proposito, che lo stato di emergenza sanitaria è stato dichiarato non solo dalle autorità italiane ma anche, e soprattutto, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Quindi stiamo parlando certamente di un rischio elevatissimo alla salute individuale e collettiva che determina uno stato d’emergenza di fatto. Situazione non paragonabile con le tante “emergenze” nazionali che, in base a discutibili valutazioni politiche, si pongono alla base di specifici indirizzi e programmi di alterne maggioranze parlamentari e di governo.
È questo stato di necessità che legittima gli interventi extra ordinem del governo in carica, limitativi delle nostre libertà costituzionali. È però altresì evidente che questa stessa base normativa e di fatto, impone la piena ri-espansione di tutte le libertà che deve essere assicurata appena cessata, anzi appena migliorata, la situazione emergenziale.
Alla legittimità del fine delle azioni poste in essere che in questo caso si riscontra a livello costituzionale (ed è imposta dalla necessità della salvaguardia della salute e della vita dei concittadini) non sempre può corrispondere una legalità dei mezzi. In alcuni casi per impossibilità di fatto, in altri – assai più critici – per valutazioni di opportunità o legati alla situazione emergenziale che si è venuta a determinare.
Secondo Costituzione, in effetti, le pur legittime limitazioni alla libertà di circolazione devono essere stabilite dalla legge “in via generale”. In assenza di questa e nell’impossibilità di una approvazione immediata di una o più leggi d’emergenza approvate dal Parlamento in questa fase (in queste drammatiche ore) è il Governo a dovere intervenire con atti aventi forza di legge e che la nostra Costituzione espressamente individua come gli strumenti da utilizzare in casi straordinari di necessità e d’urgenza. Subito dopo aver dichiarato lo stato di emergenza (il 31 gennaio) il Governo ha varato un decreto legge (23 febbraio 2020, n. 6 ora convertito in legge n. 13 del 5 marzo 2020) in cui ha sostanzialmente definito la cornice giuridica che ha permesso i successivi interventi adottati nei giorni successivi prevalentemente con atti del presidente del Consiglio (Dpcm) ovvero dei singoli ministri. Sono seguiti altri decreti legge che sono intervenuti per adottare misure di sostegno per le famiglie, i lavoratori e le imprese (Dl 2 marzo 2020, n. 9); per contenere gli effetti negativi sull’attività giudiziaria (Dl 8 marzo 2020, n. 11); per potenziare il Servizio sanitario nazionale (Dl 9 marzo 20920, n. 14); per adottare altre misure al fine di potenziare il Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico (Dl 17 marzo 2020, n. 18).
Per quanto riguarda il primo Decreto legge, che, s’è detto, predispone il sistema generale di limitazione delle libertà di circolazione e soggiorno messo poi in atto, potrebbe rilevarsi la non conformità formale allo schema costituzionale (che individua nella legge formale del Parlamento la fonte idonea a limitare in generale la libertà di circolazione per motivi di sanità), ma di fatto lo stato di necessità provocato dalla terribile espansione del contagio non lascia moto spazio per questi rilievi. Bene dunque ha fatto il Governo ad adottare questo strumento di normazione. D’altronde, i decreti legge sono pur sempre atti emanati dal Capo dello Stato e dunque da questi controllati ex ante, inoltre essi devono essere convertiti in legge dal Parlamento che ha ex post l’ultima parola.
Diverso il discorso con riferimento agli atti successivi del Governo che hanno dato attuazione alle misure e definito i limiti alle libertà costituzionalmente tutelate. Atti che hanno assunto la veste dei Dpcm ovvero delle ordinanze del ministero della Salute o degli Interni (oltre ad una serie di ordinanze, direttive, decreti di varie autorità: dalla protezione civile ai presidenti di regione e sindaci dei comuni italiani).
In questi casi non deve negarsi che si è operato al di fuori del costituzionalmente previsto. Contra constitutionem? Probabilmente no, perché sono tutti atti posti in essere in stato di necessità, al fine di tutelare il diritto fondamentale più rilevante che la costituzione protegge: il bene supremo della vita dei consociati. Ma se questo è il fondamento legittimante gli atti e i comportamenti del governo attualmente in carica, che ha operato nella drammatica situazione presente, devono essere chiari anche i limiti, presenti e futuri, che devono essere rigorosamente e inderogabilmente rispettati.
Anzitutto una specifica delimitazione temporale: le limitazioni dei diritti costituzionali non potranno essere prorogati oltre lo stretto necessario, con immediato e diretto riferimento alla situazione che di fatto ha imposto le misure di sicurezza sanitaria. È per questo che tutti gli atti del governo (e delle altre autorità) devono contenere un termine a breve di scadenza. Scaduto il quale si riespande automaticamente e senza bisogno di ulteriori interventi dell’autorità la sfera piena della libertà. Ciò – è vero – può comportare, come ahimè sta avvenendo, che a termine del periodo breve fissato l’epidemia (dunque lo stato di necessità) non rallenti, ma anzi acceleri e dunque sia necessario prevedere un ulteriore intervento. È questo un costo necessario, ma che non inficia la necessità di porre un termine di scadenza dei decreti adottati assai breve, per assicurare che le misure siano prese in riferimento alla situazione concreta e solo nello spazio temporale necessario a superare l’emergenza sanitaria più acuta.
Un secondo requisito deve essere tenuto fermo se si vuole dare fondamento legittimante ai comportamenti posti in essere del Governo. Non solo si tratta di atti provvisori, ma anche di comportamenti irripetibili. La natura eccezionale ed extra ordinem di tutti i provvedimenti adottati per arginare la pandemia deve esser ribadita con forza, per evitare che qualcuno passata l’emergenza possa solo immaginare di proseguire, nella ordinaria amministrazione, ad utilizzare certe misure. Qui ed ora si tratta di contrastare un pericolo unico nel suo genere, non siamo di fronte alle nostre ordinarie emergenze, neppure a quelle ritenute politicamente più allarmanti. Queste misure non potranno costituire alcun precedente per nessun governo futuro.
A chi dovesse pensare di estendere lo stato di necessità, magari teorizzando uno “stato d’eccezione permanente”, bisogna chiarire che porrebbe in essere non tanto fatti o comportamenti incostituzionali, quanto – ancor peggio – atti eversivi della legalità costituzionale, nei confronti dei quali sarebbe legittimata la resistenza sociale. Nessuna assimilazione è pertanto possibile tra l’attuale stato di necessità e le ordinarie, logoranti crisi perpetue o le emergenze perenni cui siamo abituati in tempi “normali”. Riconoscere, limitare e circoscrivere gli stati d’eccezione serve per evitare che un futuro governo si senta autorizzato, fosse anche con il consenso del “popolo” (che in tempi di populismo ben poco vuole dire) ovvero della stessa maggioranza parlamentare, ad utilizzare gli stessi mezzi per affrontare la crisi economica e sociale, ovvero per imporre le proprie politiche nelle materie più controverse. Soprattutto nei settori sensibili (dalla gestione dell’ordine pubblico, alle politiche sicuritarie) si dovrà vigilare perché nessuno abusi della situazione presente. Dopo la pandemia spetterà a tutti noi ricordare che la Costituzione si pone a fondamento delle libertà rivendicandone il valore e l’essenza.
Da questa tragica vicenda potremmo uscire in due modi. Riscoprendo le ragioni della solidarietà e del vivere assieme: valori che in molti hanno ritenuto non più perseguibili trascinati dall’ansia di una società votata al consumo e all’individualismo proprietario. Forse la guerra (al virus) e il dolore che essa sta provocando può farci comprendere che vale la pena pensare più in grande, guardando oltre i nostri egoismi. Se il trauma di questa vicenda dovesse insegnarci a prestare maggiore attenzione alla tutela della salute, all’ambiente che ci circonda, alla necessità di garantire un servizio sanitario nazionale in grado di assicurare il diritto fondamentale alla salute e le cure a tutti non soltanto nei casi eccezionali, ma nelle emergenze di tutti i giorni, tutto ciò sarebbe sicuramente una conseguenza positiva rispetto a questa tragedia. Se invece si dovesse pensare di poter stabilizzare, in via ordinaria, una drastica riduzione della socialità, un esponenziale aumento dell’individualismo, un aggravamento della paura dell’altro e dell’ignoto, allora al rischio sanitario conseguirebbe un nefasto regresso culturale che ci allontanerebbe anni luce dalla prospettiva di libertà e di progresso garantita dalla Costituzione.
Gaetano Azzariti, docente universitario, giurista, presidente di “Salviamo la Costituzione”
Pubblicato mercoledì 25 Marzo 2020
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