Il 15 febbraio 1922 una spedizione di squadristi spezzini partì per La Serra di Lerici, in provincia della Spezia. Lungo la strada, in località Catene, ci fu uno scontro armato in cui persero la vita il fascista Alberto Landini e il comunista Stefano Gabriele Paita, ardito del popolo. La spedizione fu bloccata e fu impedito il suo obiettivo: l’aggressione al circolo Sempre Avanti della Serra.
La Sezione ANPI di Lerici ha ricordato questo episodio di arditismo lo scorso 12 febbraio, con il convegno di studi Fascismo e antifascismo delle origini. A cento anni dai fatti della Serra, organizzato in collaborazione con ANPI provinciale La Spezia, ANPI regionale Liguria, ANPPIA La Spezia – Massa Carrara, Comitato provinciale Unitario della Resistenza, Istituto spezzino per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, Istituto storico della Resistenza apuana e dell’età contemporanea, Rete fascismo e antifascismo nella Toscana nord-occidentale e nella Liguria orientale, Archivi della Resistenza, Società Marittima di Mutuo Soccorso di Lerici, Museo Audiovisivo della Resistenza della provincie di Massa Carrara e della Spezia. Hanno collaborato anche l’Archivio di Stato La Spezia e il Sistema bibliotecario urbano La Spezia. Il Comune di Lerici ha dato il patrocinio.
Abbiamo cercato di portare elementi utili a collocare i fatti della Serra e i suoi protagonisti all’interno di un determinato periodo storico: quello del fascismo nell’anno della marcia su Roma e dell’antifascismo alle prese con un terreno di azione sempre più ristretto e difficile. Abbiamo ricostruito il contesto storico provinciale e nazionale, così come i profili di alcuni dei protagonisti dei fatti, con l’obiettivo di restituire al meglio il significato storico di quell’evento, le cause che lo resero possibile così come le conseguenze che provocò sia in termini giudiziari sia politici e biografici. Abbiamo cioè raccontato la storia – basata sui documenti – delle idee rifiorite e delle speranze, illusioni e delusioni di tante persone coinvolte, per la prima volta nella storia italiana e lericina, in un’esperienza collettiva e di massa che lasciò il segno per una vita. La storia della Lerici del “biennio rosso” e del “biennio nero”, con entrambi i colori presenti in vario modo nelle due fasi. La Lerici della speranza rivoluzionaria, più che mai viva già dal 1917, e la Lerici dell’avvento del fascismo. Una storia le cui radici sono da cercarsi nel 1914: fu la Grande Guerra a inaugurare quell’epoca di rivoluzioni e controrivoluzioni, che si sarebbe spenta solo nel 1945.
Dalla “microstoria” locale è derivato una sorta di prisma, attraverso cui è possibile comprendere la “grande storia” nazionale. Proprio per questo gli episodi di resistenza così come gli eccidi fascisti accaduti in ogni luogo d’Italia cento anni fa dovrebbero essere oggetto di memoria e di studio. L’importanza del ricordo e della conoscenza storica risalta più che mai in questo 2022. Dobbiamo capire ciò che è accaduto. La storia è un immenso fiume in cui scorrono insieme acque limpide e acque terribilmente torbide. Senza fare i conti con queste ultime, gli uomini e le donne del presente non possono capire quali vie seguire.
La spedizione squadrista del 15 febbraio 1922
I fatti della Serra maturarono nel contesto di una lunga storia di contrapposizione tra fascisti e antifascisti, su cui tornerò. Mi limito qui ai fatti immediatamente precedenti: il 29 gennaio i fascisti provenienti da Spezia aggredirono a San Terenzo di Lerici e poi nel capoluogo alcuni giovani che portavano al taschino un fazzoletto rosso.
Il 13 febbraio cinque giovani arditi del popolo – Stefano Gabriele Paita, Fioravanti Tani, Alfredo Baldini, Ugo Del Punta, Italo Mion – incontrarono in un’osteria al Guercio, nelle colline di Lerici, il fascista Francesco De Biasi e lo disarmarono, prelevandogli la rivoltella. Scesi a Lerici, aggredirono il fascista Duilio Biaggini, redattore del giornale Il Tirreno. In suo aiuto accorsero sul posto i fascisti Emilio Biaggini – che fu poi podestà di Lerici dal 1929 al 1934 e federale della Spezia per otto anni dal novembre 1931 – e Pietro Bibolini. Uno degli arditi sparò ai due, ferendoli entrambi. Tani e Baldini furono riconosciuti, e denunciati il giorno dopo.
Il 15 febbraio sera partì, da Spezia, la spedizione. L’obiettivo dei fascisti era il circolo Sempre Avanti, creato nel 1915 dai socialisti come luogo di divertimento e di educazione, e in particolare il capo degli antifascisti: il socialista Angelo Bacigalupi, operaio del Muggiano e primo deputato socialista eletto alla Spezia (dal 1919 al 1921).
Prima di arrivare alla Serra vi fu lo scontro a fuoco tra Paita e Landini, e spari da ambo le parti. Arrivarono i carabinieri, che arrestarono i fascisti – poi rilasciati il giorno dopo – mentre gli arditi si dileguarono. Landini morì il 17 febbraio, Paita il 2 marzo.
Partì un’inchiesta a senso unico: negli atti del processo i fascisti risultano parte lesa. Il 28 giugno 1923 a Chiavari, in Corte d’Assise, furono condannati Angelo Bacigalupi, Severino Bertella, Italo Mion, Fioravanti Tani e Giulio Zanello. Tredici imputati furono assolti, cinque erano latitanti.
La critica più sferzante al processo fu espressa dallo stesso Bacigalupi in un articolo del 1931: «I fascisti, costituitisi parte civile, volevano vendicare il loro morto, un capo squadra caduto in quel cruento conflitto. Del giovane Paita, un lavoratore caduto anch’egli in quel conflitto, per mano dei fascisti, nessuno, ad eccezione di un piccolo avvocatino che faceva le sue prime armi, nessuno se n’era ricordato, né l’autorità di P.S., né il giudice, e tanto meno il presidente delle assisi o il rappresentante l’accusa. […] Il presidente! Quando penso che durante tutto il processo ha fatto l’impossibile per servire il fascismo, a scapito s’intende della giustizia, secondato – bisogna dirlo – dall’ineffabile rappresentante della pubblica accusa, non posso fare a meno di compiangere tutti coloro che sinceramente credevano nell’indipendenza della magistratura italiana [1]».
Non fu una guerra civile
Poniamoci subito una domanda. Fu un episodio di una guerra civile in corso?
La categoria vale forse per la Resistenza, ma per il 1921-1922 è del tutto inappropriata. Bacigalupi, esiliato in Francia dopo l’arresto e il carcere, lo scrisse a Pietro Nenni in una lettera del 1929 in cui polemizzava con la sua raccolta di articoli dal titolo La guerra civile: «Ma come ti è saltato in mente? Per guerra civile si intende lo scontro armato di due fazioni che nella lotta rischiano il tutto. Al contrario tutti i rischi erano per gli antifascisti. Molte volte il piano era concertato e stabilito nelle prefetture del Regno» [2].
Alla Serra non andò proprio così. Due fascisti lericini, Magellano Pagano e Gino Vizzotti, che erano a conoscenza della spedizione e forse avevano contribuito a prepararla, avvisarono, temendo il peggio, le forze dell’ordine [3]. Che però si guardarono bene dall’intervenire: bloccarono, è vero, il passaggio dei fascisti dalla direzione principale Muggiano-San Terenzo, ma non da quella secondaria di Pitelli.
In ogni caso nel 1921-1922 non esisteva alcuna organizzazione armata del movimento operaio: i rivoluzionari non progettarono alcuna rivoluzione, né alcuna difesa armata. Mancò uno dei requisiti essenziali della guerra civile: la violenza fascista era organizzata, quella socialista, comunista e anarchica no. Certo, forme di resistenza si manifestarono, con un’unità dal basso di operai socialisti, comunisti, anarchici, repubblicani.
Alla Serra e prima ancora, nel luglio 1921, a Sarzana, e poi dopo, nell’agosto 1922, a Parma, questo anelito unitario vivo tra le masse diede vita al movimento degli Arditi del popolo. Ma furono tentativi improvvisati, senza alcun coordinamento nazionale. Quei rivoltosi avevano qualche arma, ma un partito armato del movimento operaio non vi fu mai. Mentre lo Stato abdicava al suo ruolo e stava da una parte sola.
I partiti operai erano tutti in crisi e in lite tra loro, e per motivi diversi contrari in ogni caso agli Arditi del popolo. La confusione nel PSI era massima. Come scriverà Nenni nel 1946, «una rivoluzione ogni giorno annunciata e ogni giorno rinviata finisce per essere una rivoluzione vinta» [4]. Mentre il giovane PCd’I era settario e dogmatico, e in qualche caso, come alla Spezia, attraversato da profonde divisioni, che avevano portato a una crisi lacerante nell’ottobre 1921: lo scioglimento della sezione e la nomina di un nuovo esecutivo fu possibile grazie alla venuta a Spezia di Umberto Terracini [5].
Il fascismo, invece, aveva un chiaro elemento identitario: la violenza. «La ricerca della guerra civile fu un tratto distintivo dei fascisti che non trovarono avversari disposti a combatterla» [6], ha scritto Andrea Ventura. Non fu il sovversivismo “rosso” la causa del fascismo, che ha invece origini di lungo periodo nella società italiana. Aveva ragione Claudio Pavone a mettere in collegamento il primo dopoguerra con la violenza precedente e con la repressione nello Stato e nella società italiana [7].
La “brutalizzazione della politica” che caratterizzò il dopoguerra aveva certamente un legame con la Grande Guerra, ma anche e soprattutto origini ben più lontane, nella brutalità antisocialista e antioperaia dello Stato tra fine Ottocento e inizio Novecento. Lo studioso spezzino Giuseppe Fasoli lo scrisse già in un saggio del 1987: «Cade in grossolano errore chi ritiene che la violenza fascista possa ricondursi a una sorta di aberrazione derivata dalla psicologia e dalla pratica dei campi di battaglia […] In precedenza la violenza delle armi era presente […] come repressione operata dagli organi dello Stato con la giustificazione, sempre, di ristabilire l’ordine pubblico» [8].
L’alleanza tra borghesia e gerarchie militari
La storia di Spezia è emblematica: una larvata dittatura militare fu anticipata proprio in questa città, piazzaforte militare, già durante la Grande Guerra. Il Consiglio comunale fu sciolto per tre anni, il comandante in capo della Marina, ammiraglio Umberto Cagni, ebbe tutti i poteri. Ogni parvenza di vita democratica fu accantonata. La classe operaia vide moltiplicate le misure repressive: chi osava protestare veniva inviato al fronte o al confino. Anche Bacigalupi fu “bandito” dal Muggiano, perché «di idee socialiste avanzate e di carattere alquanto impetuoso ed ardito» [9]. L’operazione fu realizzata dalle stesse forze, legate a gran parte della borghesia industriale e commerciale e della Marina, che sostennero poi la nascita del fascismo. Il deus ex machina fu Domenico Giachino, già sindaco ed esponente del blocco liberale.
A guerra finita, lo spirito rivoluzionario raggiunse la sua punta più alta nel maggio-giugno 1919. Spezia diede il via alla rivolta contro il carovita che si espanse poi in molte parti d’Italia. Fu un moto spontaneo, non militarizzato, che fu represso non solo dalle forze dell’ordine ma anche dai “poliziotti volontari”: si può supporre i primi gruppi fascisti, dato che il primo nucleo dei fasci si era costituito in aprile. Mentre fino ad allora lo scontro era stato solo con lo Stato, ora sarà sempre più anche con i fascisti, alleati con lo Stato (Sarzana fu, in questo, un’eccezione). Nello “sciopero internazionale”, a favore della Russia dei soviet, del luglio 1919 il presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti cominciò a fare affidamento, per il mantenimento dell’ordine, anche su quelle persone che si riconoscevano, come scrisse ai prefetti, nell’«opera di patriottismo» [10]. Era l’inizio di quella rivincita borghese che a poco a poco trovò nel fascismo il proprio alfiere.
Dalle ricerche emerge con nettezza, a Spezia, il legame della borghesia del tempo – o comunque di sue parti considerevoli – con i grandi complessi delle costruzioni navali e della produzione bellica. L’elemento di fondo per comprendere anche le vicende successive è l’alleanza borghesia-gerarchie militari. L’unione dei reazionari si realizzò attorno al giornale Il Tirreno, il cui primo numero uscì il 10 novembre 1919. Documenti ritrovati da Fidia Sassano, militante socialista e archivista del Muggiano, resi noti durante l’occupazione delle fabbriche del settembre 1920, portarono alla luce la verità: Giachino aveva preso l’iniziativa di portare Il Tirreno a Spezia, ottenendo il finanziamento dei proprietari delle industrie Ansaldo e Cerpelli [11]. Il commento del giornale alla scoperta fu un’ammissione: cosa c’è di scandaloso nel fatto che la borghesia paghi di tasca propria per difendersi? Ancora: il corrispondente spezzino del Secolo XIX riscuoteva dall’Ansaldo un supplemento di 100 lire mensili per il vitto. Nello stesso periodo i proprietari dell’Ansaldo finanziavano Il popolo d’Italia, il giornale fondato da Mussolini.
Questa analisi non comporta il negare che il fascismo sia stato un movimento sociale, con una ideologia – sia pure eclettica e confusa, tra combattentismo, fiumanesimo, nazionalismo e futurismo – capace di conquistare il consenso della piccola e media borghesia. A Spezia Orlando Danese era un intellettuale, molti erano gli ex combattenti… Ma il fascismo fu soprattutto reazione borghese contro la classe operaia [12], e ideologia dello Stato. Non ideologia della società e delle masse, ma per la società e per le masse.
Antifascismo di classe e massimalismo socialista
L’altro punto che emerge con nettezza dalle ricerche è che l’antifascismo spezzino era marcatamente operaio, proletario, di classe. L’antifascismo era essenzialmente il socialismo: non riformista come a Genova, ma massimalista. Un forte ruolo lo ebbero anche gli anarchici, attivi nell’USI (Unione Sindacale Italiana) – il loro giornale, Il Libertario diretto da Pasquale Binazzi, aveva un rilievo nazionale – e, dal 1921, i comunisti, che nel febbraio di quell’anno conquistarono la maggioranza nella Camera del Lavoro confederale, diretta fino ad allora dai socialisti.
Ancora: nel marzo 1919 nacque il Partito Popolare. Dimostrò quella sensibilità per i contadini e la piccola borghesia che non diede prova di avere chi riteneva risolutiva soltanto la classe operaia. Ma, soprattutto a Spezia, il PPI fu, in una prima fase, troppo accondiscendente con i fascisti, anche in dissenso con il partito regionale.
Nella vicenda del massimalismo fu assai forte l’influenza della Rivoluzione russa. Soprattutto a partire dal 1919, il massimalismo si diffuse come «traduzione approssimativa e infedele della parola bolscevichi, che vuol dire maggioritari, ma che risente della suggestione di una espressione tratta dal gergo della tradizione socialista italiana, quella del “programma massimo”, il programma della rivoluzione, contrapposto al programma minimo, quello delle riforme da rivendicare nell’immediato» [15]. Senza che la Rivoluzione russa fosse davvero conosciuta, si creò un vero e proprio mito, che suscitò le speranze e i sogni delle classi subalterne. Bacigalupi ne fu stimolato e affascinato: il 1° gennaio 1920, per esempio, parlando agli operai spezzini nella sede della Società di mutuo soccorso, sostenne la necessità di un governo socialista, che avrebbe consentito «di ridonare la prosperità e la Russia dà ammaestramenti al riguardo» [16].
Riformisti e comunisti hanno sempre, in modo diverso, denigrato il massimalismo. Le accuse dei primi sono di fughe in avanti irresponsabili; quelle dei secondi, al contrario, di tradimento delle aspirazioni rivoluzionarie delle masse. Dobbiamo in realtà comprendere il massimalismo come prodotto, non come causa della crisi della società italiana di quegli anni. E ammirarne la disperata intelligenza e la tragica passione.
La coscienza di sé della classe operaia e l’inadeguatezza dei sindacati e del partito
Ma torniamo a Spezia nel 1919. Dopo le lotte e la vittoria socialista alle elezioni politiche di novembre il movimento operaio intensificò la sua attività sindacale e politica.
La punta più alta della tensione rivoluzionaria a Spezia fu, come ho accennato, il movimento della primavera del 1919. E tuttavia il 1920 fu ancora un anno di grandi lotte, rivendicative e per il potere. Il 6 febbraio Bacigalupi parlò agli arsenalotti e auspicò «l’avvento della gestione diretta delle fabbriche per opera dei lavoratori» [17]. In un comizio a Sampierdarena, il 21 agosto 1920, «si scaglia contro gli industriali qualificandoli come pescicani […] e dice: se essi credettero di servirsi della Guardia Regia come nello sciopero di Torino, nel quale alle Guardie Regie furono date laute gratificazioni di 1.000 lire, allora con rivoltelle alla mano dovrà il proletariato metallurgico spazzare le strade, ed occupare gli stabilimenti» [18].
L’anno culminò, appunto, con l’occupazione delle fabbriche del settembre. Il Cantiere Ansaldo Muggiano fu occupato il 2 di quel mese. In serata seguirono l’occupazione della Cerpelli, della Vickers Terni e del cantiere Miglietta. Così pure alla Pertusola, dove – scrisse il direttore, il fascista Elvidio Zancani – «fu issata bandiera rossa e una parte del personale, assieme agli estranei, venne lasciato come guardia rossa». Poi arrivò Bacigalupi, che dichiarò agli operai che lo attendevano che «ormai lo stabilimento era proprietà loro» e “li rimproverò per non aver preso in ostaggio la persona del direttore» [19].
Per molti la fase discensionale del movimento fu l’accordo che concluse l’occupazione – a cui lo stesso Bacigalupi contribuì – ma la punta più alta fu precedente, nel 1919.
Cagni, rientrato a Spezia, durante lo sciopero generale del gennaio 1920 aveva incarcerato i dirigenti operai alla Palmaria, ma era stato costretto a liberarli. Nel marzo-aprile 1920 gli arsenalotti avevano scioperato per 35 giorni. I moti contro il carovita si erano ripetuti anche quell’anno, a maggio, questa volta con epicentro Sarzana. Poi l’occupazione delle fabbriche.
Era emersa una classe operaia con una diffusa coscienza di sé e del proprio ruolo. Gli operai non si sentivano più solo salariati ma anche classe dirigente produttiva. Leggiamo la testimonianza di Fidia Sassano sull’occupazione del Muggiano: «Mancavano quasi tutti i dirigenti, quasi tutti i tecnici, tutti gli impiegati amministrativi, ma la grande maggioranza degli operai era al proprio posto e, sulla base dei disegni già in possesso dei capi officina e dei capi tecnici, in tutti i reparti e nelle navi in costruzione e in allestimento si lavorava quasi regolarmente. […] Alle porte e sulle navi i guardiani vigilavano affinché nulla fosse asportato dallo stabilimento e non vi furono abusi di sorta» [20].
Su un altro versante, quello dell’educazione e della cultura, leggiamo la testimonianza di Tommaso Lupi, lericino, operaio e “guardia rossa” del Muggiano: «Durante la settimana andavo a prendere lezione di musica e di violino dal prof. Dall’Oglio, una sera posai l’orologio sul tavolo e il professore curioso guardò la medaglia che vi era attaccata dicendo: è Garibaldi? No, gli dissi, è Lenin. Rimase meravigliato di avere un allievo – come disse poi – rivoluzionario» [21].
Gli operai dimenticarono «il proprio io per comprendere l’importanza della classe», come dimostrò – per restare in Liguria – l’esperienza delle “cucine comuniste” e del “forno comunista” a Savona, a cui diedero vita la Camera del Lavoro, la sezione socialista e la sezione metallurgica in occasione dello sciopero dei metallurgici dell’agosto 1919, che durò oltre due mesi: «Gli operai affluiscono a queste cucine a consumare i loro pasti, tutti i vecchi pregiudizi sono caduti infranti di fronte alla realtà e alla necessità di resistere. È una nuova coscienza di classe che va plasmandosi nei nostri lavoratori; è l’affratellamento che stringe sempre più i vincoli di solidarietà e fa dimenticare agli operai il proprio io per comprendere l’importanza della classe. L’operaio specialista seduto gomito a gomito col manovale, il maestro di forno che divide il suo pane col compagno che ieri era suo subalterno, cuochi improvvisati, camerieri volontari, donne di scioperanti o scioperanti pur loro, che compiono tutti i lavori necessari, migliaia di scioperanti e famiglie di scioperanti che vivono alla medesima tavola senza la minima rampogna o critica, tutto quest’insieme di nuova vita collettiva e comunista dimostra come domani il proletariato saprà vivere nella nuova società comunista» [22].
Ma il sindacato e il PSI, palesemente inadeguati, non rispecchiavano questa maturazione. La spontaneità operaia e la spinta dal basso non incontrarono l’organizzazione sindacale e politica.
“Guardia rossa” e “Guardia tricolore”
Nel frattempo l’avversario non stava a guardare: sempre più si cercava di dar vita a quella che Il Tirreno definì «guardia bianca o meglio la guardia tricolore» [23]. Il giornale invocò apertamente la dittatura militare. Giachino continuava a tessere la tela dell’unione delle forze borghesi. Il 13 maggio 1920 si era ricostituito il Fascio. I massimi dirigenti erano esponenti della borghesia, della Marina, dell’Esercito, all’insegna di quel connubio già evidenziato [24]. Il 2 giugno ci furono i primi scontri tra fascisti e antifascisti in città. Gli industriali maneggioni delle commesse militari appoggiavano la violenza squadrista o ne erano i caporioni. Nel novembre 1920 il “blocco nazionale”, appoggiato dai fascisti, vinse le elezioni amministrative a Spezia. L’euforia della vittoria portò all’assalto della Camera del Lavoro, che fu respinto. Anche a Lerici fu eletto un sindaco del “blocco”.
Fu così in tutta Italia. Con un intreccio tra violenza di Stato e violenza fascista: i simboli furono l’eccidio di Decima di Persiceto il 5 aprile 1920, di cui furono autori i carabinieri, e l’attacco squadrista al Comune di Bologna, il 21 novembre 1920.
Gli anni 1921-1922, con l’inserimento pieno in funzione dirigente dei fascisti nello schieramento borghese spezzino e di esponenti militari nel fascismo spezzino, furono gli anni della piena offensiva fascista. In una città “statale” un ruolo chiave non potevano che averlo anche i prefetti e i funzionari pubblici. Tutto si stava saldando: borghesia, militari, autorità statali, fascismo.
Il direttorio del Fascio emanò un comunicato, il 25 febbraio 1921, che era una vera e propria dichiarazione di guerra: «Occhio per occhio, dente per dente» [25]. Il 27 febbraio fu assalita la Camera del Lavoro. Il giorno dopo fu ucciso l’anarchico Adolfo Olivieri. Il 20 maggio il direttorio del Fascio pubblicò sulle colonne del Tirreno un elenco di dirigenti socialisti, comunisti e anarchici passibili di rappresaglie personali: «li riterremo personalmente responsabili» [26]. Nel maggio la serrata del cantiere Miglietta fu il primo atto di un’offensiva tesa a stroncare l’organizzazione di classe, colpendo il contratto collettivo di lavoro: 700 operai furono licenziati, le assunzioni si riaprirono sulla base di un contratto individuale.
Gli Arditi del popolo, grande occasione mancata
Nonostante tutto, le elezioni politiche del maggio dimostrarono le grandi riserve che aveva ancora il movimento operaio. Le guardie regie risposero, subito dopo, con l’eccidio di via Torino. Anche i fatti di Sarzana evidenziarono la capacità di resistenza. Non solo: Sarzana simboleggiò l’unità dei partiti operai e l’impegno dello Stato. Ma fu un’eccezione. Lo Stato fece scelte opposte: Guido Jurgens e Vincenzo Trani, funzionari imparziali e perciò politicamente infidi, furono cacciati. I partiti del movimento operaio erano divisi e confusi.
E gli Arditi del popolo furono una grande occasione mancata, «l’errore straordinario» [27] dei partiti proletari. Ritorna la questione di una spontaneità che non trovò una risposta. Era, quello spezzino, un arditismo poco dannunziano [28], ma prettamente operaio, con fattore coagulante l’appartenenza di classe. Come alla Serra. Il primo nucleo spezzino di Arditi del popolo fu costituito non a caso per iniziativa del segretario della Camera del Lavoro confederale [29]. Ancora nel novembre 1921 nel circondario di Spezia gli arditi avevano due sezioni, una a Spezia con circa 300 aderenti, l’altra a Sarzana con circa 150 aderenti. Ma dopo che «i dirigenti vennero tutti diffidati, non hanno più svolto alcuna palese dimostrazione» [30], aggiungeva la prefettura. Il 18 dicembre si tenne, a Spezia, il loro congresso regionale – parteciparono, per il circondario, i rappresentanti di Spezia, Sarzana, Migliarina, San Terenzo, Riomaggiore –, che si concluse con un appello inascoltato dal PSI e dal PCd’I, non dagli anarchici. Il rapido tracollo degli arditi dipese da questo abbandono e dalla repressione dello Stato. Certo, anche dalla mancanza di armi. Oggi vediamo chiaramente i limiti degli arditi: la prevalenza dell’aspetto militare su quello politico, il rigido classismo. Ma questi «eretici, o se si preferisce, irregolari dei rispettivi movimenti» [31], come li ha definiti Eros Francescangeli, ebbero comunque il merito di aver combattuto.
Il “passaggio di consegne” del 1922
Il 1922 fu l’anno dell’ultimo esile tentativo di resistenza, anch’esso su pressione delle masse, con l’Alleanza del lavoro, nata a febbraio. Avanzava la sconfitta. Le giornate di agosto furono tragiche anche a Spezia, a Sarzana, in Liguria: fallimento dello sciopero legalitario e vera e propria invasione del fascismo. Il filofascista Secolo XIX raccontò come a Genova le forze di polizia piegarono la resistenza popolare avanzando nei vicoli con un’opera feroce di «rastrellamento» [32], che lasciò campo aperto alle squadracce al comando di Renato Ricci. Sempre lui, come a Sarzana nel luglio 1921.
A Spezia, dopo i fatti della Serra e la successiva uccisione, dopo i funerali di Landini, del fascista Francesco Podestà – un mistero su cui non è mai stata fatta luce, perché il processo contro un gruppo di “sovversivi” fu un’evidente montatura giudiziaria – la violenza squadrista crebbe di intensità. Gli iscritti al Fascio nella provincia spezzina erano 1.800 nel dicembre 1920, a fine estate 1922 erano saliti a 4.570, con 80 squadre, 25 Fasci, 16 sottosezioni, 4 avanguardie giovanili e 4 gruppi femminili. A Lerici i fascisti erano saliti a 120, con 4 squadre, le sottosezioni di San Terenzo (30 iscritti) e Pugliola (20), una avanguardia giovanile e un gruppo femminile. Cominciò l’esodo degli antifascisti all’estero, fino al 1925: almeno tremila persone lasciarono la provincia. Tanti erano di Lerici e della Serra.
Emblematico fu il 28 ottobre, giorno della marcia su Roma, a Spezia: la città fu presidiata insieme da fascisti e marinai, il corteo fascista per le vie della città fu aperto dalla banda della Marina sulle note di Giovinezza.
Come se avvenisse, tra Stato liberale e regime fascista, un regolare “passaggio di consegne”, all’insegna della continuità.
La montatura dell’ammiraglio Tur e la saldatura tra il fascismo e lo Stato
L’unico caso di scontro tra fascisti e militari avvenne il 18 ottobre, a San Terenzo. Ne scrisse Mario Farina nel numero 1962-1963 della Rivista storica del Comune della Spezia: «Nel 1939 un alto ufficiale, Ammiraglio, scriveva da Venezia a un alto gerarca spezzino per chiedere un suo aiuto onde avere il riconoscimento dei suoi meriti fascisti, e allegava un memoriale firmato sulle sue benemerenze. In questo memoriale si legge tra l’altro una lettera del comandante delle squadre d’azione segrete in cui si dice che l’Ammiraglio in questione “fascista fervente, propagandista tra i marinai, si è impegnato con noi squadristi a varie azioni in Spezia… e ha rifornito di armi e munizioni e mezzi le nostre squadre”. E poi l’Ammiraglio ricorda altre cose, tra cui un episodio significativo [33]».
Farina, nel 1962-1963, non fece il nome dell’ammiraglio, allora ancora in vita. Lo fece nel 1973, nel saggio Fascismo e Forze Armate in un centro industriale (Guerra e dopoguerra alla Spezia), depositato all’ISR spezzino. Si trattava dell’ammiraglio Vittorio Tur, nel frattempo scomparso (1969), che Farina definiva «influente sia sui fascisti che sul Comando in capo». Nel memoriale Tur narra di sé in terza persona. Leggiamo l’«episodio significativo» citandolo dal saggio di Farina del 1973, in cui è riportato integralmente, senza i piccoli tagli operati nel saggio del 1962-1963:
«Nonostante la sua viva raccomandazione ai fascisti di evitare qualsiasi atto ostile verso le Forze Armate e le caserme, alcuni fascisti entrarono nello stabilimento Colombo a San Terenzo, ov’erano alloggiati soldati del genio, e, sorpresili nel sonno, poterono portar via circa 50 fucili. Vi furono colluttazioni senza gravi conseguenze. Il mattino successivo di buonora fu avvertito dal Comandante Dildò che il Comando in capo avrebbe rotto alle ore 8 tutte le relazioni con i fascisti, con evidenti disastrosi risultati. Gli raccomandava di tentare di evitare tanta iattura.
Il comandante Tur si precipitò al Comando in capo. L’ammiraglio, che era circondato dal capo di Stato Maggiore, dal generale comandante la brigata, dal prefetto e dal questore, confermò che, dopo quanto era accaduto, avendo i fascisti mancato alla parola, i ponti dovevano essere rotti e che dalle ore 8 le Forze Armate avrebbero agito a qualunque costo. Le autorità che attorniavano l’ammiraglio non dissentivano da lui. Con calma il comandante Tur fece notare all’Ammiraglio che fino allora nella prima Piazza Marittima italiana nulla era accaduto che potesse avere la benché minima ripercussione sfavorevole, soprattutto all’estero, e che sarebbe stato assai grave attuare le decisioni di S.E. Si permetteva far considerare che coloro i quali avevano compiuto l’atto deplorevole a San Terenzo potevano essere comunisti travestiti da fascisti e che la loro azione doveva avere lo scopo non tanto di rifornirsi di armi, quanto di far nascere quello che sarebbe accaduto qualora le disposizioni di S. E. fossero state attuate. Questa frase rasserenò l’ambiente. Fu nominata una commissione mista militare e fascista per compiere un’inchiesta a San Terenzo. Il comandante Tur ne fu il presidente, con vicepresidente l’ing. Miozzi [segretario provinciale del PNF, NdA]. La commissione tornò verso le ore tredici col risultato che, volutamente per impedire conflitti, confermava la prima supposizione del Comandante Tur e per di più assicurava che entro 24 ore i fascisti avrebbero restituito i fucili» [34].
L’episodio è davvero «significativo» perché conferma la fitta rete di rapporti e l’alleanza tra fascisti e vertici militari, caratteristica del fascismo spezzino fin dalle origini. Il 28 ottobre 1922 il comando fascista di Spezia fu assunto, non a caso, dal generale di brigata Giusto Fedele, generale della riserva. Il memoriale Tur non è stato rintracciato negli archivi pubblici, né Farina ha fornito indicazioni bibliografiche precise. Fu comunque lo stesso Tur, in un libro edito nel 1963 [35], a rivelare che nel 1935 aveva rivendicato il suo protagonismo nella montatura raccontandolo alle alte gerarchie militari per ottenere la promozione ad ammiraglio di divisione, e che «quando nel ’39 Muti – allora Segretario del Partito – conobbe a La Spezia la mia opera mi fece avere la tessera ad honorem retrodatata al 1922» [36].
Quando il duce venne a Spezia
In quei giorni di ottobre, in cui si saldava l’alleanza tra il fascismo e lo Stato, l’opposizione non c’era quasi più, decimata dal bando, dai licenziamenti, dall’esodo, dalla gravissima crisi sindacale e politica del movimento operaio.
Benito Mussolini, il duce, fece, durante il regime, una visita ufficiale alla Spezia il 26 e 27 agosto 1931; «ne aveva fatte altre, piuttosto informali, arrivando spesso improvvisamente al pontile della Marina, come fece, anche nell’agosto ’23, poco prima che La Spezia fosse eretta a Provincia, attraversando la città in macchina scoperta assieme al Sindaco Ezio Pontremoli, ad Enzo Toracca (il federale fascista della Spezia, nda), al vice Prefetto Delli Santi ed al Questore Umberto Albini, venuti a riceverlo» [37].
Come lo accolse la classe operaia, il nerbo dell’antifascismo? Non possiamo saperlo, il duce non visitò mai una fabbrica. Lo fece a Torino, alla Fiat, il 25 ottobre 1923: non ci fu alcuna protesta, semmai il silenzio. Anche nella visita alla Fiat del 1932 non ci fu alcun dissenso. Benedetto Croce, riflettendo più di dieci anni dopo sul significato di quelle visite alle fabbriche, fece un bilancio amaro dell’accettazione del fascismo da parte della classe operaia [38]. A Spezia, il 27 agosto 1931 il duce parlò dal balcone del Palazzo della Provincia a una piazza entusiasta. Ma in fabbrica non andò. Un’identità culturale operaia perdurò, tuttavia, anche nel profondo del regime fascista. Si può sostenere, alla luce della lotta clandestina al fascismo durante il ventennio e del ruolo della classe operaia nella Resistenza, che, come a Torino, «pur subendo realmente l’oppressione, almeno una parte della classe operaia aveva un’immagine di sé e del suo passato che l’aiutava per un verso a compensare l’oppressione, ma per l’altro prefigurava una disposizione alla libertà» [39]. Almeno in una parte della classe operaia la morale del lavoro, il senso del sacrificio e della dignità di classe, la coscienza dell’operaio della propria necessità non vennero mai meno. L’antifascismo della Resistenza fu ben più maturo e ampio di quello delle origini. Fu interclassista ma ebbe anch’esso una forte impronta della classe operaia.
Il fascismo spezzino, tra affarismo e scontri di potere
E il fascismo spezzino? Come evolse negli anni? Si può dire che si caratterizzò sempre per l’intreccio con l’industria e la Marina militare, pur dividendosi in feroci lotte interne. Il duce, nel discorso del 27 agosto 1931, affermò: «Desidero che il Fascismo spezzino sia degno delle pagine che ha scritto nella storia del Fascismo italiano. Senza disciplina non vi è unità, senza l’unità delle forze e degli spiriti non si arriva alla potenza, così nei gruppi, così nelle nazioni». Era «un implicito richiamo all’ordine per i capi del fascismo locale che in quegli anni contendevano tra loro per piccole questioni di potere» [40]. Lo scontro tra le fazioni «aveva, tra i rispettivi capi, solo un ben concreto obiettivo: accaparrarsi le risorse del Golfo e cioè posti di lavoro e gli appalti conseguenti alle ricche commesse militari» [41]. A questo scopo «non erano estranee neppure lettere anonime” che denunciavano malversazioni degli alti gerarchi. Guido Bosero, uno dei capi della spedizione della Serra, squadrista della prima ora e imprenditore in affari con la Marina, console generale della Milizia dal gennaio 1923, «nel ’46 dirà che fu nel 1925 che “segnalò ruberie, violenze, protezionismi di alti gerarchi centrali… ciò fu riferito a Roma e da qui ebbe i primi affronti nel partito”» [42]. Il 14 maggio 1928 il giornale L’Opinione scriveva: «Esaminata la situazione spezzina, S. E. l’on. Turati ha sospeso i fascisti Console Guido Bosero e On. Elvidio Zancani (cognato di Bosero e, come abbiamo visto, direttore della fonderia Pertusola, nda) da ogni attività di partito» [43]. Lo stesso giornale, il 16 luglio 1928, riportò che Bosero era stato espulso dal partito, «dimostrando col suo atteggiamento la più assoluta incomprensione dei doveri che incombono a chi ha l’onore di militare nel fascismo» [44]. Il 19 gennaio 1929 la regia questura «inserì nell’archivio “Sovversivi” una cartellina intitolata “Bosero Guido, fu Giovanni ex fascista”» [45]. Il che non impedì a Bosero di continuare a fare affari con la Marina, come tutti gli altri imprenditori spezzini fedeli al partito. E a Orlando Danese, intellettuale e “moderato” ma squadrista anch’egli, di citare Bosero, ancora nel 1942, tra i «quattro squadristi [che] sembrano personificare, in maniera pittoresca e vivace, l’indole dell’arditismo spezzino» [46].
Il fascismo lericino
Il fascismo lericino fu in primo luogo borghese e benestante. Il primo nucleo fascista nel Lericino fu costituito a San Terenzo, ricordò L’opinione nel 1926: «Il capoluogo, opulento […] era meno inflitto dalle eresie politiche di quel che non fossero le frazioni», come la Serra, dove «stava, come una spina nel fianco del Comune italianissimo, il Bacigalupi». Tra i promotori c’erano il parroco don Vincenzo Roncallo, che «inveiva romanamente dall’altare contro il malcostume e il sovversivismo», il dottor Francesco Bucceri, medico del posto, gli imprenditori Remigio Azzarini e Michele Piazza, Giuseppe Diaz – nella memoria popolare lericina il più squadrista – e altri. «Né mancò a questi primissimi – sottolineava il giornale – l’appoggio del nome illustre dei Mantegazza nella persona di Don Giulio» [47].
A Lerici Emilio Biaggini e Pietro Bibolini – aggrediti il 13 febbraio 1922 in uno degli episodi all’origine alla spedizione della Serra [48]– appartenevano a famiglie di armatori. Ma il vero capo del fascismo lericino era il cittadino più facoltoso: l’ingegner Giovan Battista Bibolini, armatore, che fu deputato dal 1934 al 1943, quindi senatore, nonché presidente della provincia dal 1932 al 1935. Nel 1921 era consigliere provinciale e comunale, e presidente del fascio lericino. Pietro era suo nipote.
Un fascismo non violento? La spedizione alla Serra fu spezzina, e i fascisti lericini Magellano Pagano e Gino Vizzotti, come ho ricordato, cercarono in qualche modo di evitarla. L’8 maggio 1921, centocinquanta fascisti avevano disturbato il comizio elettorale del comunista Aristide Pavolettoni a Lerici e devastato la sezione comunista di San Terenzo. Ma anche in questo caso erano spezzini – c’era pure Alberto Landini –, così come lo erano i fascisti che, il 29 gennaio 1922, diedero inizio alle provocazioni che portarono ai fatti della Serra. Il 20 agosto 1921 lo stesso Giovan Battista Bibolini, secondo Il Tirreno, era stato minacciato da un ardito del popolo, ma il suo «alto senso di moderazione» e il suo «spirito pacifico» erano valsi «a scongiurare ulteriori incidenti [49]». Tornando a Magellano Pagano, Bacigalupi, nell’interrogatorio al processo sui fatti della Serra, per difendersi dall’accusa disse che, dopo gli episodi del 13 febbraio, il 14 al pontile di Lerici aveva incontrato Pagano, che lo aveva invitato «a tenermi in quei giorni appartato, data l’intenzione dei suoi amici fascisti di procedere a qualche rappresaglia» [50].
Ma tutto ciò non significa affatto che i fascisti lericini non fossero anch’essi violenti. Non ci furono due fascismi, nemmeno a Lerici: la violenza fu l’elemento identitario che coinvolse tutto il movimento. All’aggressione ad Albano e Marcello Gregori a San Terenzo il 9 giugno 1922, al pomeriggio, parteciparono anche Emilio Biaggini e Magellano Pagano, insieme ad altri fascisti lericini e sarzanesi, identificati dai carabinieri [51]. Il giorno prima «i due più arrabbiati fascisti di qui – scrisse il corrispondente del Libertario da San Terenzo – credendo di avere loro due in mano il paese aggredirono un consigliere comunale comunista», e i fascisti spararono rivoltellate nel borgo sia la sera del 9 giugno che quella successiva. [52]. Secondo Il Secolo XIX il 10 giugno a San Terenzo i fascisti erano alla caccia del comunista Romeo Pagano e furono oggetto di rivoltellate, ma furono arrestati i «due fascisti Francesco Larieri e Magellano Pagano, trovati in possesso di rivoltella [53]».
Da allora fu tutto un crescendo per tutto il 1922, fino alla violentissima rappresaglia che si scatenò per più giorni dopo l’uccisione di Giovanni Lubrano – uno degli squadristi più feroci – la notte del 21 gennaio 1923 alla fonderia Pertusola, dove lavorava. I fascisti lericini fecero la loro parte. Tra gli squadristi arrestati vi furono Silvio Carro di Pugliola, Valentino Novelli di Lerici, Cesare Lupi del Guercio [54]; tra le vittime un altro Barbantan, Fioravanti Paolo Raspolini detto Dante, di Romito Magra, parente di Stefano Gabriele Paita. Lo squadrismo non finì con la marcia su Roma, si trasferì nelle milizie e in altri organismi e fu per tutto il ventennio elemento centrale e caratterizzante di tutto il fascismo.
L’antifascismo lericino
L’antifascismo lericino era operaio, come quello spezzino e sarzanese: operai del Muggiano, della Pertusola, degli altri cantieri. Con una specificità: la presenza di molti “sovversivi” marittimi, a partire da Stefano Gabriele Paita, legati a una lunga tradizione democratica che risale al Risorgimento e alle Società operaie di mutuo soccorso. Paita, nel 1922, aveva 25 anni: faceva il marinaio sulle navi mercantili ed era infiammato dagli ideali comunisti. Abitava a Lerici, quindi il suo punto di riferimento non poteva non essere Angelo Bacigalupi. Ma per comprendere il personaggio va soprattutto spiegato che apparteneva alla numerosa famiglia dei “Barbantan”, i cui membri «ebbero una vita avventurosa e spesso controcorrente derivante sia da un innato idealismo primitivo sia da un desiderio spontaneo di ribellione e furono marchiati come “sovversivi” o come “eroi”» [55].
Sull’antifascismo operaio leggiamo ancora la testimonianza del lericino Tommaso Lupi sull’occupazione del Cantiere Muggiano: «Nel Cantiere del Muggiano lavoravano molti operai che abitavano a Pitelli, a San Terenzo e Lerici, e nei paesi sopra Lerici, come La Serra, Pugliola, Solaro. Per quelli di Pitelli era facile alle famiglie degli occupanti portare da mangiare ai loro familiari; ma per quelli del Comune di Lerici la faccenda era piuttosto ardua. Si rimediò in questo modo: uno dei vaporetti di Lerici, che facevano servizio alla Spezia e con gli scali a San Terenzo e Pertusola, di proprietà della Società operaia di mutuo soccorso, aderì alla nostra richiesta e due volte al giorno faceva scalo al Cantiere. Portava quelli che avevano fatto il loro turno di riposo a casa, e imbarcava quelli che avevano finito il proprio turno di lavoro e di guardia. Inoltre per molti che dovevano rimanere alla notte di guardia, venivano con il vaporetto i loro familiari che portavano i “fagottini” con il cibo per la sera e per la notte. Era uno spettacolo veramente commovente vedere la solidarietà delle spose, delle mamme e dei figli con i loro congiunti occupanti il cantiere. Molti i saluti, gli abbracci, le raccomandazioni di stare attenti» [56].
Dopo i fatti della Serra, l’antifascismo operaio lericino fu messo sotto scacco dalla violenza fascista e dalla repressione dello Stato. Non mancò, nella tragedia, qualche episodio divertente, come quello raccontato dal Libertario del 16 marzo, in una corrispondenza da San Terenzo datata 11 marzo: «In questo paese si è scatenata una ributtante reazione fascista-poliziesca. Si può annunciare l’avvenuto matrimonio tra l’elemento fascista e i carabinieri. […] I nuovi ricostruttori e i carabinieri si sono fitti in testa di trovare delle bombe, dei moschetti, della gelatina, ecc. […] Pochi giorni fa i tranquilli cittadini di un paesello vicino a San Terenzo, denominato Bagnola, furono sossopra. Erano arrivati i fascisti ed i carabinieri a fare una perquisizione. Cercavano ancora le… bombe. […] Buttarono all’aria ogni cosa non trovando mai nulla. Ma dentro un fornello videro tre barattoli. […] Ma presi in mano quei tre barattoli rimasero di sasso. Erano, aiutatemelo a dire, erano pieni di… merda mescolata con acqua, che avrebbe dovuto servire da concime per le semenze» [57].
L’ironia non mancava nemmeno ai fascisti e ai loro sostenitori. Il Tirreno del 25 marzo raccontò che le onde sollevate da un cacciatorpediniere si erano rovesciate sulla banchina di Lerici e invaso il mercato, facendo credere a un maremoto: «In un baleno il mercato s’è spopolato e le donnicciuole si sono riversate, in fuga gridando, verso la Serra. Quegli abitanti, la cui coscienza non è forse molto tranquilla, dopo gli ultimi conflitti, a veder da lontano dirigersi sul loro paese, in fuga, una folla urlante, ha subito pensato a una spedizione fascista e, terrorizzata, s’è data alla campagna commutando il grido d’allarme dei lericini: il maremoto in quello più famoso: “I fascisti! I fascisti!”» [58].
Alla Serra avevano però ragione a temere. Il cerchio si stava stringendo attorno al gruppo degli arditi del popolo, in testa Angelo Bacigalupi e Guglielmo Zanello, individuati come i capi. Il 28 marzo Il Tirreno pubblicò i nomi di tredici antifascisti denunciati e arrestati. Bacigalupi si era dato alla latitanza [59].
Scontri e agguati si verificarono lungo tutto il 1922. Nella notte tra il 29 e il 30 aprile, in salita Canata a Lerici, esplose una bomba fuori della casa del vicedirettore della fonderia di Pertusola ed ex sindaco di Lerici Agostino Pagano: «non si esclude – scrisse Il Tirreno – che l’attentato sia stato perpetrato per motivi politici – avendo l’ex sindaco un figlio fascista» [60]. Dopo l’attentato, per diversi giorni, vi furono incidenti tra fascisti e “sovversivi”. Il 6 maggio Il Secolo XIX scrisse che «mercoledì sera a San Terenzo contro la casa di un comunista fu sparato un colpo di rivoltella e ieri sera un fascista nei pressi di Lerici fu fatto segno a diversi colpi da arma da fuoco che fortunatamente non lo colpirono» [61]. Lo stesso giorno Il Tirreno intitolava: Rivoltellate contro un fascista a Lerici, incolpando «persone non residenti a Lerici ma bensì provenienti dai vicini paesi del Romito o della Serra, sempre aizzati da elementi del luogo» [62]. Ci siamo già soffermati sull’aggressione fascista ad Albano e Marcello Gregori il 9 giugno a San Terenzo e sui fatti del giorno prima e di quello successivo. Il 22 giugno Il Libertario scriveva: «Ieri si svolse il processo a carico di due giovani comunisti di San Terenzo, Cresci Giacomo e Lazzari Armando», a cui erano stati «trovati 100 grammi di dinamite». Cresci dichiarò «che gli serviva per la pesca». «La grave condanna – proseguiva il giornale – ha destato enorme impressione, specialmente a San Terenzo, dove i due buoni giovani sono conosciuti e stimati» [63]. In un memoriale del fascista Umberto Cresci, visionato da Alberto Incoronato, l’autore racconta le azioni squadriste del giugno 1922, compiute insieme a Guido Bosero, Dialma Terzi, Augusto Bertozzi e ad altri caporioni del fascismo: «quindi ci recammo alla Serra di Lerici ove dopo vari spari di mitragliatrice e varie legnate si devastò la sezione del Partito Comunista asportando il vessillo e altri oggetti» [64]. Il 23 agosto Bacigalupi fu catturato a Genova [65]. Dopo Sarzana, anche la Serra «un giorno rocca inespugnabile dell’on. Bacigalupi», capitolò [66]. Il 27 agosto fu inaugurata la sezione del PNF della Serra, presenti Augusto Bertozzi e Orlando Danese. Il discorso del Bertozzi «fu seguito dalla raccolta di nuove adesioni tra i numerosi presenti, in maggior parte contadini» [67]. Ma le tensioni non si erano sopite. Il 9 dicembre 1922 Il Popolo scrisse: «A Serra di Lerici in seguito a un diverbio il fascista Bertella Federico d’anni 16 veniva ferito al basso ventre per una coltellata infertagli da Zanelli Luigi d’anni 25 noto sovversivo. Lo Zanelli è latitante» [68].
Le tensioni non si sopirono mai, nemmeno negli anni del fascismo trionfante.
Un impegno che fu una garanzia per il futuro
Per molti imputati per i fatti della Serra, assolti o condannati e amnistiati, e per altri “sovversivi” si apriranno le vie dell’esilio: per tanti di loro, in Francia o negli Stati Uniti, non fu comunque facile militare nell’antifascismo, come fece Bacigalupi. Fu più difficile ancora per chi restò, strettamente sorvegliato per vent’anni. Ci fu chi si appartò, chi fece una vita di stenti e di vagabondaggio, chi dissimulò per poter sopravvivere: ma il regime non sempre si fidava, come con Cesare Zanello, della Serra, «un penitente forzato ma non un ravveduto», scrivevano i carabinieri nel 1933.
E ci fu chi, come Vittorio Bianchi, ardito del popolo a Bagnola a quindici anni, si impegnò all’interno della Pertusola, fino a quando fu scoperto e assegnato al confino di polizia. O chi, come Argiglio Bertella “Argì”, contribuì alla realizzazione della tipografia clandestina del CLN e del PCI alla Rocchetta di Lerici – il ruolo principale lo ebbe Tommaso Lupi – e alla lotta partigiana.
Tra gli imputati al processo ve n’erano tre imparentati con Bacigalupi, tutti della Serra: Giuseppe Brondi, fratello per parte di madre, segretario della sezione comunista della Serra; il citato Cesare Zanello, cognato, socialista; Memore Zanello, nipote, comunista non iscritto. Alla Serra c’era davvero un piccolo “microcosmo sovversivo”, fatto di amicizie ma anche di legami familiari.
Alcuni dei protagonisti dei fatti del 1922 furono arrestati e poi rilasciati dopo un altro episodio mai chiarito, avvenuto alla Serra in pieno fascismo, il 1° maggio 1931, quando «un gruppo di forsennati proditoriamente aggredirono a colpi di rivoltella cinque giovani inermi colpevoli soltanto di essere fascisti» [69], come scrisse il 13 maggio 1931 il prefetto in una relazione in cui proponeva «l’ammonizione» per uno di loro, Gabriele Zanelli. Il prefetto così proseguiva:
«Quella zona ha bisogno di essere epurata: risente ancora oggi, dopo un decennio, dell’opera delittuosa dell’ex deputato Bacigalupi, che ne aveva fatto un fortilizio del comunismo. I residui di quel triste passato, finora rimasti nell’ombra, è bene che siano attentamente sorvegliati» [70].
Con Gabriele Zanelli furono arrestati e poi rilasciati anche Cesare Zanello – colpevole di aver «avvicinato compagnie di dubbia fede politica e specialmente quella capeggiata da Zanelli Gabriele» e «ritenuto il fomentatore dei fatti del 1° maggio» [71]– e “Argì” Bertella.
La vicenda di “Argì” fa riflettere sul “filo rosso” tra arditismo popolare e Resistenza. Quella di Luigi Giorgi conduce invece al legame con l’antifascismo del dopoguerra. Giorgi, segretario della sezione socialista di Lerici, ardito del popolo il 21 luglio a Sarzana, condannato per i fatti della Serra, emigrò a Marsiglia. Dopo la Liberazione chiese alla questura di Spezia e al consolato d’Italia a Marsiglia l’esito del procedimento penale e gli fu risposto che nulla esisteva a suo carico. Tornato a Lerici nel 1947, fu tratto in arresto. Ci fu un’immediata manifestazione antifascista. Un funzionario di PS scrisse al questore Angelo Mangano: «Ieri sera, verso le ore 21 ero telefonicamente avvertito dal maresciallo comandante la Stazione dei Carabinieri di Lerici che, a seguito dell’arresto di certo Giorgi Luigi di Emanuele […] era stata inscenata una dimostrazione davanti alla caserma da parte di tutti gli antifascisti di Lerici per ottenerne la liberazione. […] Ristabilita la calma, e dietro ordini avuti, assumevo a verbale sia il Giorgi che Bertella Argiglio fu Enrico coimputato nel procedimento penale a carico del Giorgi e che era stato assolto per non aver commesso il fatto, diffidavo il Giorgi entro le ore 9 di stamani» [72].
Giorgi fu rimesso in libertà, il suo mandato di cattura fu revocato solo nel 1954, dopo anni di lotte. La solidarietà espressa da «tutti gli antifascisti di Lerici» fu la dimostrazione che l’esperienza degli arditi del popolo non era stata dimenticata. Certamente la Resistenza, come ho già sottolineato, fu una lotta molto diversa. L’antifascismo, dopo il 1921-1922, maturò e si trasformò. Ma è giusto riconoscere che in quei disperati giorni di Sarzana o della Serra, prima della sconfitta, furono poste alcune premesse per la lunga lotta che seguì. Quell’impegno fu una garanzia per il futuro.
Il “fiore” delle donne
Come nella Resistenza, erano presenti, nell’antifascismo delle origini, il “fiore” e la “feccia”, per usare l’espressione di Beppe Fenoglio ripresa da Pavone [73]. Tra il “fiore” c’è sicuramente quello delle donne. Sono tante, magari nascoste, ma tante. Le donne della filanda, che, come racconta nella sua memoria Amedeo Carignani, gridavano «Basta con la guerra» [74] al frate che teneva sermoni patriottici. Le donne che parteciparono ai moti contro il carovita del 1919, che chiedevano di “fare Lenin”. Le donne di San Terenzo: dopo l’aggressione al consigliere comunale comunista dell’8 giugno 1922, che ho già ricordato, «il paese intero, principalmente le donne, si ribellarono al nuovo sopruso» e i due caporioni fascisti «se la diedero a gambe andando a Lerici» [75]. Le “Barbantane”: la Carmela, la Annunziata, le matriarche protagoniste del libro di Albero Incoronato.
Sifilde Carro, lericina, anarchica come il marito Giacomo Cresci, incarcerato per la dinamite «che gli serviva per la pesca». Fu probabilmente lei, dopo la condanna, a organizzare la solidarietà delle «generose donne del paese [76]». Faceva la cucitrice, per poter allevare i tre figli. Emigrò in Francia, restò sempre anarchica. Zelmira Peroni, spezzina, anarchica come il marito Pasquale Binazzi e sua compagna in ogni senso. Spesso lo sostituì come direttore del Libertario.
Furono uccisi dai loro
Una considerazione conclusiva. Studiando quegli anni balza agli occhi il ruolo filofascista di gran parte della stampa. Nel febbraio 1922, oltre al Libertario, che fu soppresso a ottobre, la voce più libera in qualche modo legata al territorio era il giornale genovese Il Lavoro. Il 26 febbraio 1922 rivelò che lo squadrista Augusto Bertozzi, uno dei ras della spedizione della Serra, aveva aggredito Antonio Gargiulo, sospettato di essere corrispondente del giornale Il Paese, per gli articoli sui fatti della Serra e sull’uccisione di Podestà, evidentemente non graditi. Il Lavoro, voce clamante sempre più nel deserto, ebbe il coraggio di dire la verità:
«Compiangiamo sinceramente i morti, ma aggiungiamo, perché anche e specialmente al cospetto dei morti si deve dire la verità, che il responsabile primo della loro tragica fine è il fascismo. Il Landini e il Podestà sono stati, prima di tutto, uccisi dai loro [77]».
Giorgio Pagano, copresidente del Comitato Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza dell’Anpi, storico, sindaco della città di La Spezia dal 1997 al 2007
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[1] Angelo Bacigalupi, La Sentenza, in Almanacco del Partito Socialista Italiano, Partito Socialista Italiano, Parigi, 1931, pp. 61-66.
[2] Lettera di Angelo Bacigalupi da Parigi a Pietro Nenni del 15 settembre 1929, Patrimonio dell’Archivio Storico Senato della Repubblica, Pietro Nenni, 1. 1. 2. 161.
[3] Il tenente dei carabinieri Francesco Marra così testimoniò al processo per i fatti della Serra, il 29 giugno 1922: «Ad ora tarda, fui informato della minacciata spedizione fascista da Pagano Magellano e Vizzotti Gino. Penso perciò che costoro, avendo tentato di sventarla, non debbano aver partecipato alla sua preparazione» (Tribunale civile e penale di La Spezia, Fascicoli processuali, b. 388/II, fasc. 18, sottofasc. 2, ASSP). Sul ruolo di Pagano e Vizzotti l’imputato Giulio Zanello – personaggio assai ambiguo – espresse una tesi diversa nell’interrogatorio del 24 giugno 1922. Il suo racconto iniziò dal mattino del 15 febbraio: «Recandomi a casa, la Fidalma (una donna della Serra, NdA) mi disse che il fascista Pagano Magellano mi voleva di urgenza a Lerici col fascista Vizzotti Gino. Io ci andai. Il Pagano e il Vizzotti mi dissero che ero atteso al Fascio di Spezia, ove mi accompagnarono, essendo partiti col vaporetto delle 14. Al Fascio vi erano Terzi, Bosero, Bertozzi e altri fascisti che non conosco. Fui informato della spedizione punitiva progettata per la sera allo scopo di incendiare il circolo Sempre Avanti della Serra. Fui richiesto di informazioni e il Terzi disegnò assieme al Pagano e al Vizzotti la pianta del circolo. Mi dissero che io li dovevo guidare, assicurandomi che prima delle Catene me ne sarei andato per conto mio». In un altro interrogatorio, il 26 giugno 1922, Zanello aggiunse: «Non so spiegare perché Pagano e Vizzotti, organizzatori della spedizione, ne abbiano poi data notizia all’autorità per sventarla» (entrambi i documenti sono in Tribunale civile e penale di La Spezia, Fascicoli processuali, b. 388/II, fasc. 18, sottofasc. 3, parte 1, ASSP). Nella sua testimonianza al processo, l’11 settembre 1922, Vizzotti negò quanto affermato da Zanello, sostenendo che fu «contrario» alla spedizione perché «era notorio che i sovversivi della Serra erano armati fino ai denti” e che tentò di impedirla “con l’unico mezzo a mia disposizione e cioè avvertendo l’autorità». Il 14 settembre Pagano, analogamente, insistette sull’avviso all’autorità come prova della «nostra buona volontà di evitare il conflitto» (entrambi i documenti sono in Tribunale civile e penale di La Spezia, Fascicoli processuali, b. 388/II, fasc. 18, sottofasc. 2, ASSP). Nelle testimonianze al processo nessun fascista affermò che Magellano e Vizzotti parteciparono alla spedizione, tranne Dialma Terzi.
[4] Pietro Nenni, Storia di quattro anni, Einaudi, Torino, 1946, p. 52.
[5] Federazione Regionale Comunista Ligure. Riorganizzazione della Sezione di Spezia, Bandiera Rossa, 24 novembre 1921.
[6] Andrea Ventura, Italia ribelle. Sommosse popolari e rivolte militari nel 1920, Carocci, Roma, 2020, p. 171.
[7] Claudio Pavone, Per una riflessione critica su rivolta e violenza nel Novecento, in Luigi Ganapini, Ferruccio Vendramini (a cura di), Rivolta, violenza e repressione nella storia d’Italia dall’Unità a oggi, Atti del seminario Rivolta, violenza e repressione nella storia d’Italia tra Otto e Novecento. La ricerca storica e il senso comune storiografico (Belluno, 6-7 ottobre 1994), Istituto storico bellunese della Resistenza e dell’età contemporanea, Belluno, 1996, pp. 21-26.
[8] Giuseppe Fasoli, L’antifascismo spezzino dal 1922 al 1945, in Antifascismo e Resistenza alla Spezia (1922-1945), Istituto Storico della Resistenza “P.M. Beghi”, La Spezia, 1987, p. 12.
[9] Prefettura di Genova, 27 novembre 1917, Casellario Politico Centrale 27480, ACS.
[10] Prefettura di Genova, Agitazioni e scioperi nel 1919, tel. n. 19320 del 14 luglio 1919, b. 301, ASG.
[11] Fidia Sassano, che allora lavorava nell’archivio del Cantiere, rivelò di essere l’autore della scoperta dei documenti nell’articolo Guardie rosse alla Spezia, pubblicato su Il Ponte del 31 luglio 1970.
[12] In Liguria il finanziamento dei primi gruppi fascisti organizzati da parte delle associazioni industriali e commerciali iniziò già alla fine del 1920. Si veda Sandro Antonini, Storia della Liguria durante il fascismo, Vol. I, De Ferrari, Genova, 2003, p. 147.
[13] Il 4 dicembre 1919 si tenne alla Spezia un grande comizio, presenti duemila operai metallurgici, in cui parlò anche Angelo Bacigalupi. Gli oratori prospettarono «la necessità dell’unione tra tutte le forze proletarie di ogni partito mediante la costituzione di un così detto fronte unico», Prefettura di Genova, Agitazioni metallurgiche 1919, espr. n. 3286 del 4 dicembre 1919, b. 297, ASG.
[14] In un interrogatorio nel processo sui fatti della Serra l’imputato Giulio Zanello affermò: «La mattina del 21 luglio 1921, verso le 10, mi trovavo nel podere di certo Tedeschi, calzolaio di Lerici, quando passarono, armati di fucile, Bacigalupi Angelo, Bertella Severino, Giorgi Luigi, Brondi Giuseppe, Priori Felice (tutti imputati al processo sui fatti della Serra, NdA). Costoro si fermarono un momento col Tedeschi ed avendo costui domandato se andavano a caccia, il Bacigalupi rispose che erano in giro per la campagna perché sapevano che vi erano i fascisti» (Tribunale civile e penale di La Spezia, Fascicoli processuali, b. 388/II, fasc. 18, sottofasc. 3, parte 1, ASSP). Sul Tirreno del 23 luglio 1921 una corrispondenza da Lerici riferiva, con riferimento al giorno precedente: «Provenienti dalla Spezia col vaporetto delle 13 erano sbarcati a Lerici circa ottanta “arditi del popolo” comandati dal noto Vallelunga, quello stesso che aveva organizzato e comandava le guardie rosse all’Ansaldo San Giorgio durante l’occupazione delle fabbriche. Al pontile erano attesi dai comunisti di Lerici con i quali si unirono […] Da Lerici il drappello si è diretto verso la Serra, ove era ad attenderlo l’ex deputato Bacigalupi, e ove si trattennero a banchettare fino alle ore 15. A quell’ora sopraggiunsero altri trenta comunisti da Romito, e contemporaneamente in calessino dalla Spezia l’ex tenente Borrini, elevato al grado di comandante di compagnia, ed il cui arrivo fu salutato dagli arditi con una levata di armi agitate in aria. Il Borrini, assunto il comando della compagnia, iniziò in piazza della Chiesa una serie di esercitazioni militari dopo di che divise in due le forze, un gruppo si diresse in Val d’Ameglia e l’altro al Guercio. Bacigalupi a qualcuno che domandava informazioni sulla spedizione dei due gruppi, rispondeva con grande naturalezza che si trattava di una spedizione contro i fascisti carrarini dispersi e che commettevano rapine ai danni dei contadini» (Le esercitazioni degli arditi del popolo, Il Tirreno, 23 luglio 2021). La mattina dopo, in ogni caso, l’atteggiamento di Bacigalupi cambiò. In un telegramma alla Direzione generale PS del Ministero dell’Interno del 23 luglio il prefetto Poggi scrisse, riferendosi alla giornata stessa: «Nella mattinata i fascisti di Spezia invitavano l’ex on. Bacigalupi socialista a recarsi sede Fascio. Egli aderì e rilasciò dichiarazione di nessuna solidarietà con arditi popolo. Inviai al Fascio appena informato funzionario col quale Bacigalupi si recò questo Ufficio e mi confermò essere stato trattato cortesemente e che a prova suo desiderio pacificazione egli per qualche giorno si sarebbe allontanato da Spezia perché la sua persona non fosse motivo turbamento» (Ministero Interno Gabinetto, Archivio Ministro Bonomi Ivanoe 1921-1923, f. 35, ACS). La dichiarazione di Bacigalupi fu ripresa dal Tirreno del giorno dopo (Un invito non desiderato dei fascisti all’ex on. Bacigalupi, 24 luglio 1921). Non sappiamo se fu dissimulazione o mossa politica nel segno di quel patto di pacificazione che anche il PSI siglò il successivo 3 agosto.
[15] Gaetano Arfè, Prefazione, in Elio Giovannini, L’Italia massimalista, Ediesse, Roma, 2001, p. 7.
[16] Prefettura di Genova, Tutela ordine pubblico 1919-1923, tel. n. 3458 del 2 gennaio 192°, b. 18, ASG.
[17] Riunione di arsenalotti, Il Libertario, 11 marzo 1920.
[18] Prefettura di Genova, Occupazione delle fabbriche settembre 1920, rel. n. 6393 del 24 agosto 1920, b. 19, ASG.
[19] Prefettura della Spezia, Archivio Gabinetto, Agitazione metalmeccanici 1929, busta 6, fascicolo 14, ASSP.
[20] Fidia Sassano, Guardie rosse alla Spezia, cit.
[21] Brevi note e ricordi personali di Tommaso Lupi sulla occupazione delle fabbriche alla Spezia nel 1920, e specificatamente del Cantiere Navale Ansaldo Muggiano, in Luciano Secchi, Il ‘biennio rosso’ in un centro industriale del Nord (La Spezia 1919-1920), tesi di laurea, Anno Accademico 1970-1971, Università degli Studi di Perugia, Facoltà di Scienze Politiche, p. XXXVI.
[22] Le cucine comuniste, Bandiera Rossa, 30 agosto 1919.
[23] G. Miceli, Armi e armati, Il Tirreno, 1° ottobre 1920.
[24] Emblematica fu la partecipazione al Fascio spezzino di Giuseppe Falconi, vecchio esponente della borghesia liberale, la cui presenza alla presidenza dell’organizzazione fascista legittimò per così dire il movimento fin’ allora semi privato, e lo inserì con una funzione ben precisa nello schieramento borghese» (Mario Farina, Appunti per la storia delle origini del fascismo a Spezia, tesi di laurea, Anno Accademico 1957-1958, Università degli Studi di Pisa, Facoltà di Lettere e Filosofia, p. 258).
[25] Il comunicato così proseguiva: «Fisseremo dei responsabili. Quando non individueremo i sobillati, pagheranno i sobillatori. Sempre in larga misura: in questa materia non è la generosità che fa difetto» (La dimostrazione di ieri sera, Il Tirreno, 24 febbraio 1921)
[26] I Fasci contro gli aggressori, Il Tirreno, 19 maggio 1921. Tra i dirigenti minacciati c’era Angelo Bacigalupi.
[27] Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano, Vol. I, Einaudi, Torino, 1967, p. 139.
[28] Il dannunzianesimo fu comunque la weltanshauung di alcuni arditi del popolo già arditi di guerra, come il sarzanese Papirio Isopo, e influenzò anche l’arditismo operaio. Gli stessi simboli dell’organizzazione derivavano dall’arditismo di guerra, come la scritta “A noi!”. Un solo esempio: al termine dell’occupazione delle fabbriche vennero diffuse copie di un manifesto diretto ai “fucilieri rossi” del “cantiere dei soviet” dell’Ansaldo Muggiano, firmato dal “comandante” Achille Vallelunga, in cui si poteva leggere: «A noi, Rossi! Il compito comune è uno: Obbedire! La volontà è una: Vincere. Restiamo in cantiere con l’arma al piede, pronti alla difesa» (Fonogramma dell’ufficio di P. S. di Sarzana al sottoprefetto in data 28 settembre 1920, Prescrizioni per la tutela dell’ordine pubblico, Busta 6, Fascicolo 14, ASSP).
[29] Si trattava di Mario Bissi, detto “Bacci”, muratore. Si impegnò successivamente nel lavoro sindacale a Deiva Marina e a Genova. Iscritto al PSI, si ritirò dal partito in seguito a «dissidi interni» (Fondo Questura, Archivio Gabinetto, casellario politico, busta 37, fascicolo 4, ASSP).
[30] Prefettura di Genova, Conflitti fra socialisti e fascisti 1921-1922, tel. n. 19644 del 23 luglio 1921, b. 33, ASG.
[31] Eros Francescangeli, Arditi del popolo, Odadrek, Roma, 2000, p. 174.
[32] Attorno all’isolato di Morcento la battaglia è durata tutta la notte. Blocco e rastrellamento dell’isolato, Il Secolo XIX, pagina nazionale, 4 agosto 1922.
[33] Mario Farina, Aspetti del movimento operaio alla Spezia. Dal 1915 al 1922, in Rivista storica del Comune della Spezia, p. 81.
[34] Mario Farina, Fascismo e Forze Armate in un centro industriale (Guerra e dopoguerra alla Spezia), ISR La Spezia, 1973, pp. 17-18. Le parole sottolineate sono nel testo originario.
[35] Vittorio Tur, Plancia Ammiraglio, Vol. III, Canesi, Roma, 1963, pp. 159-160. Al memoriale Tur fece riferimento anche Giuseppe Fasoli nel saggio citato del 1987, in cui riteneva i fascisti come i veri responsabili dell’assalto alla polveriera di Vallegrande avvenuto la sera del 4 giugno 1920: «Montatura può ritenersi l’assalto stesso alla polveriera di Vallegrande nel giugno 1920; episodio che generalmente è attribuito a sconsiderata iniziativa di anarchici, anche dopo che documenti di pugno dell’Ammiraglio Tur – ammettono, non lasciando più dubbi, che si fece ricorso a montature e falsificazioni del genere da parte dei fascisti, sia per procurarsi armi, sia per intimidire marinai e cittadini con le rappresaglie che seguivano» (Giuseppe Fasoli, L’antifascismo spezzino dal 1922 al 1945, cit., p. 10). Fasoli sostenne la medesima tesi nel 1992, nel saggio Le istituzioni politiche e sociali alla Spezia (1842-1948), in Spartaco Gamberini, a cura di, La Spezia Volti di un territorio, Laterza, Bari, 1992, p. 193. Mario Farina, nella sua tesi di laurea del 1957-1958, aveva invece sostenuto, riguardo all’assalto a Vallegrande: «è certo che l’azione fu attuata da elementi che intorno ai gruppi anarchici gravitavano» (Mario Farina, Appunti per la storia delle origini del fascismo a Spezia, cit., p. 256).
[36] Vittorio Tur, Plancia Ammiraglio, Vol. III, cit., p. 160.
[37] Gabriella Chioma, La Spezia 1923-1943, Edizioni del Tridente, 1987, p. XXVI.
[38] Luisa Passerini, Torino operaia e fascismo, Laterza, Bari, 1984, p. 232.
[39] Ivi, p. 246.
[40] Gabriella Chioma, La Spezia 1923-1943, cit., p. 82.
[41] Alberto Incoronato, Dietro la lapide dei Barbantan, Youcanprint, 2020, pp. 218-219.
[42] Ivi, p. 219. Incoronato cita il memoriale di Guido Bosero (1946), che ha avuto modo di visionare – insieme al citato memoriale Tur e al memoriale Cresci, che citeremo – con il vincolo della segretezza delle fonti.
[43] Zancani e Bosero sospesi da ogni attività di partito, L’Opinione, 14 maggio 1928.
[44] PNF L’espulsione dal Partito di Guido Bosero, L’Opinione, 16 luglio 1928
[45] Alberto Incoronato, Dietro la lapide dei Barbantan, cit., p. 262.
[46] Orlando Danese, Tutto è storia, Ed. Di Vincenzo, La Spezia, 1942, p. 147. Il libro di si concludeva con l’appendice L’Albo degli squadristi, nella cui introduzione Danese scriveva: «Il nome di Guido Bosero sorge spontaneo e profondo, come Capo delle Squadre d’Azione».
[47] I primi Fascisti in quel di Lerici, L’Opinione, 13 dicembre 1926. Nel Libertario del 30 marzo 1922 si può leggere la cronaca del tentativo fallito da parte dei fascisti di impossessarsi della SMS Fascio Marittimo di San Terenzo – una Società di mutuo soccorso “risorgimentale” fondata nel gennaio 1884 – in occasione del voto per il rinnovo del consiglio di amministrazione. La SMS rimase governata dai comunisti e dai socialisti, nonostante che i fascisti fossero appoggiati da don Roncallo e da Giulio Mantegazza (Corrispondenze, San Terenzo al Mare, 27 marzo 1922, Il Libertario, 30 marzo 1922).
[48] Secondo Il Secolo XIX la sera stessa «alcuni sconosciuti spararono quattro colpi di rivoltella, fortunatamente andati a vuoto», anche contro il citato Giuseppe Diaz (Imboscate, rapine e rivoltellate contro i fascisti, Il Secolo XIX, 15 febbraio 1922).
[49] Gli Arditi del Popolo, Il Tirreno, 21 agosto 1921. Secondo il giornale l’episodio avvenne per caso, quando un gruppo di arditi del popolo si accorse del passaggio di Bibolini e uno di loro, «trattenuto dai compagni, si era già mosso per affrontare» l’armatore. Gli arditi non sarebbero stati lericini «ma persone estranee».
[50] Tribunale civile e penale di La Spezia, Fascicoli processuali, b. 388/II, fasc. 18, sottofasc. 3 parte 1, ASSP. L’episodio fu nella sostanza confermato da Pagano nella testimonianza al processo: «E’ vero che nei giorni tra l’aggressione subita da Biaggini e Bibolini e il conflitto della Serra incontrai presso il pontile di Lerici Bacigalupi Angelo. Egli in quell’occasione fece l’agnello e si disse alieno dalle violenze. Non è vero che io lo abbia invitato ad allontanarsi per evitare rappresaglie; gli dissi che naturalmente qualche reazione vi sarebbe stata e se la sarebbero presa con i capi. Egli allora mi fece il discorso anzidetto e io gli risposi che lo avrei riferito ai componenti del Fascio di Spezia. Cosa che poi non feci; in primo luogo perché non me ne capitò l’occasione favorevole; nel secondo luogo perché i fatti dimostrarono essere il Bacigalupi lupo e non agnello» (Tribunale civile e penale di La Spezia, Fascicoli processuali, b. 388/II, fasc. 18, sottofasc. 2, ASSP).
[51] Alberto Incoronato, Dietro la lapide dei Barbantan, cit., p. 141.
[52] Corrispondenze, San Terenzo Mare, 11 giugno 1922, Il Libertario, 15 giugno 1922.
[53] Imboscate… a San Terenzo, Il Secolo XIX, 11 giugno 1922.
[54] Alberto Incoronato, Dietro la lapide dei Barbantan, cit., p. 190.
[55] Ivi, p. 25.
[56] Brevi note e ricordi personali di Tommaso Lupi sulla occupazione delle fabbriche alla Spezia nel 1920, e specificatamente del Cantiere Navale Ansaldo Muggiano, cit., p XXXIX. Il vaporetto era di proprietà della Società Anonima Cooperativa di Navigazione a Vapore Unione Operaia del Golfo, anch’essa di epoca risorgimentale, costituita a Lerici nel luglio 1883. Quanto fosse importante il suo ruolo lo rivela una lettera del Direttore del Cantiere Carlo Lardera al Sottoprefetto, il 4 settembre 1920: «Classifico come vergognoso l’attuale ordine di cose del Cantiere, che si serve dei camions e dei vaporetti per il trasporto della gente dai lontani paesi e delle famiglie, con rilevante consumo di materiale e di combustibile. Per questo prego la SV che siano catturati i camions […] e che d’accordo con l’Autorità Marittima sia catturato il vapore “Diana”» (Prescrizioni per la tutela dell’ordine pubblico, Busta 6, Fascicolo 14, ASSP).
[57] Corrispondenze, San Terenzo, 11 marzo 1922, Il Libertario, 16 marzo 1922.
[58] I fascisti! I fascisti!, Il Tirreno, 25 marzo 1922.
[59] La luce sui tragici fatti di Lerici o della Serra, Il Tirreno, 28 marzo 2022.
[60] I particolari sull’attentato di Lerici, Il Tirreno, 3 maggio 1922.
[61] Incidenti tra fascisti e sovversivi, Il Secolo XIX, 6 maggio 1922.
[62] Rivoltellate contro un fascista a Lerici, Il Tirreno, 6 maggio 1922. Vittima dell’agguato fu, scrisse il giornale, «l’operaio fascista Busonero».
[63] Corrispondenze, Sarzana, Una grave condanna, 20 giugno 1922, Il Libertario, 22 giugno 1922.
[64] Alberto Incoronato, Dietro la lapide dei Barbantan, cit., p. 139.
[65] Bacigalupi, secondo Il Lavoro, fu rintracciato grazie alle ricerche dei fascisti lericini, che si recarono a Genova, scoprirono e circondarono un bar da lui frequentato e lo arrestarono, per poi consegnarlo alle Guardie Regie (I fascisti arrestano l’on. Bacigalupi e lo traducono in Torre, Il Lavoro, 24 agosto 1922). Ma in base al verbale della Questura di Genova Bacigalupi fu arrestato su segnalazione di «Giannini Nino di Luigi, di anni 22, da Spezia», abitante a Genova (Tribunale civile e penale di La Spezia, Fascicoli processuali, b. 388/II, fasc. 18, sottofasc. 2, ASSP).
[66] Inaugurazione di una sezione fascista alla Serra, Il Secolo XIX, 29 agosto 1922.
[67] Ibidem.
[68] Fra comunisti e fascisti, Il Popolo, 9 dicembre 1922.
[69] Fondo Questura, Archivio di Gabinetto, casellario politico, busta 70, fascicolo 80, ASSP.
[70] Ibidem.
[71] Fondo Questura, Archivio di Gabinetto, casellario politico, busta 77, fascicolo 20, ASSP.
[72] Fondo Questura, Archivio di Gabinetto, casellario politico, busta 90, fascicolo 6, ASSP.
[73] Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1991, p. 454.
[74] Memoria di Amedeo Carignani, depositata presso il nipote Mauro Martone.
[75] Corrispondenze, San Terenzo Mare, 11 giugno 1922, Il Libertario, cit.
[76] Corrispondenze, Sarzana, Una grave condanna, 20 giugno 1922, Il Libertario, cit.
[77] Gli ultimi avvenimenti della Spezia, Il Lavoro, 26 febbraio 1922.
Pubblicato venerdì 8 Aprile 2022
Stampato il 13/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/idee/gli-speciali-di-patria/con-arditi-popolo-dove-il-1922-non-piego-lantifascismo-operaio/