Alberto Cipellini, classe 1919, è stato un esponente della Resistenza in Valle Grana combattente nelle brigate di ‘Giustizia e Libertà’, comandante partigiano insieme a Giorgio Bocca e Aurelio Verra. Senatore per quattro legislature (dal giugno 1968 al luglio 1983) e vice presidente del Senato, è scomparso nel 2005.
L’otto settembre 1943, sottotenente di complemento di fresca nomina, mi trovavo nella caserma Cesare Battisti del 2° Reggimento Alpini, a Cuneo. Per una scelta alquanto avventata, ma giustificata da una minaccia di dieci giorni di consegna alla Scuola AUC di Bassano del Grappa (specializzazione: guastatore), mi trovai ad essere ufficiale subalterno di Nardo Dunchi comandante della compagnia guastatori-zappatori del battaglione reclute del 2° Alpini. Eravamo appena rientrati da una cosiddetta esercitazione sul greto del fiume Stura, dove Dunchi aveva parlato di tutto – re, Mussolini, tedeschi, fascisti, ecc. – da anarchico qual era, ignorando di illustrare le tecniche degli attacchi con tubi di gelatina e cose simili. «Prepariamoci a combattere i tedeschi ed i fascisti», esclamava; e gli alpini (molti della zona di Massa Carrara) lo guardavano con stupore e trepidazione.
In caserma la notizia si sparse in un baleno «Tenente, è finita, andiamo a casa» mi disse un vecchio richiamato, con in mano un fiasco di vino. Ritenni inutile guastargli la festa rispondendo che la pensavo in modo esattamente opposto. Venne la sera, il Comando se ne stava rinchiuso senza dare ordini: cresceva nelle camerate l’agitazione tra i soldati, nonostante il «Silenzio» che molti reclamavano fuori ordinanza, mentre tra di noi, ufficiali, di complemento, si discuteva sul che fare. Ricordo che ad un tratto Dunchi, salito su un tavolo, fu molto categorico nell’esprimere il suo giudizio sulla situazione presente e futura «voi che siete di Cuneo sapete dove abitano… andiamo nelle case dei fascisti e facciamoli fuori…, altrimenti ce li troveremo addosso». Lo considerammo un pessimista ed un esaltato e continuammo a discutere per quasi tutta la notte.
Il mattino del 9, rapporto dal Maggiore, comandante il battaglione; lo chiamavano «Polvere» per il modo scattante di camminare e di correre, pare anche al fronte.
«Abbiamo deciso di piazzare due mitragliatori alle finestre che danno in Via Battisti e di chiudere il portone d’ingresso, per bloccare eventuali carri armati…», Dunchi ringhiava come un mastino.
Alla spicciolata, verso le 10, quattro o cinque di noi, uscimmo per recarci nello studio dell’avvocato Duccio Galimberti, dove ci aspettavano anche Arturo Felici (Panfilo), Ettore Rosa, Detto Dalmastro e altri; si parlò a lungo della resistenza ad un eventuale arrivo in città di forze tedesche. Intanto le notizie si facevano sempre più confuse: dal comando ci dicevano di tenere uniti e sotto vigilanza i soldati. Ma, ogniqualvolta li radunavamo o ispezionavamo le camerate qualcuno ne mancava….
«Dobbiamo uscire di qui, questa è una trappola…», tuonava Dunchi nel solito raduno serale. Intanto le luci, nonostante il grido della guardia «oscuramento, oscuramento», stavano accese in tutte le camerate.
II giorno 10 fu decisivo. Una cicogna tedesca sorvolo la città e la caserma dove pareva di essere in un alveare impazzito; scoppiò, con grande fracasso, una botola della fognatura, non distante dalle cucine, proprio mentre stavamo caricando una carretta di armi automatiche e di munizioni, che dovevano servire ad armare i civili del gruppo Galimberti.
La confusione fu indescrivibile. II portone fu aperto soltanto per fare entrare un grosso autocarro militare sul quale il colonnello comandante aveva dato ordine di caricare i vasi di fiori che ornavano l’ingresso del cortile per restituirli al fioraio dal quale li aveva affittati.
Nel primo pomeriggio Dunchi mi prese in disparte: «Cip, io me ne vado e mi prendo gli alpini delle mie parti; non posso lasciarli qui». Chiamammo la compagnia all’adunata, facendo passare parola di che cosa si trattava; scesero tutti i toscani. Ordinai l’attenti, presentai la forza a Dunchi. Ci abbracciammo. Andai di corsa al portone che feci aprire; Silvestri schierò la guardia sul presentat-arm e Dunchi uscì rispondendo al saluto con i resti della compagnia, perfettamente inquadrati ed armati.
La sera fu triste per me; la presenza di Dunchi mi aveva dato un imprevedibile coraggio ed ora mi mancava. Decidemmo che il mattino saremmo partiti per la montagna: i militari a Frise, i civili a Madonna del Colletto.
La notte passò insonne; verso le otto del mattino inforcai la bicicletta ed andai a casa. C’era soltanto mia madre, essendo mio padre ferroviere in trasferta e mia sorella al lavoro. Le dissi che stavo partendo per la montagna con Detto, Giorgio, Aurelio e altri, ma che comunque la cosa non sarebbe durata a lungo. Mia madre mi guardò pensosa, gli occhi appannati dietro le lenti. Disse soltanto: eccoti le chiavi di casa se tu dovessi tornare mentre non c’è nessuno (un giovanotto – a quei tempi – ancorché ufficiale degli alpini, quando tornava a casa suonava il campanello e subiva così il controllo orario dei genitori!).
La baciai, scesi di corsa le scale senza voltarmi, inforcai la bicicletta, raggiunsi Giorgio ed Aurelio e, insieme, lasciammo la città per raggiungere la montagna a Frise, in Valle Grana.
Sul grande viadotto passammo vicino a due ragazze: «Ecco gli ufficiali che scappano…». Fu come una frustata.
Così, l’undici di settembre del 1943, poco dopo le undici cominciai quella grande avventura che ho avuto la fortuna e l’onore di vivere.
(da Patria indipendente n. 14 del settembre 1982)
Pubblicato venerdì 6 Settembre 2019
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