Uno sterminio dimenticato, anzi mai riconosciuto. Il Porrajmos, il genocidio nazifascista di Rom, Sinti, Caminanti è stato escluso pure dalla legge istitutiva del Giorno della Memoria. Nonostante “il grande divoramento”, come è chiamato in lingua romanì, avesse annientato almeno 500 mila persone, la metà di tutta la popolazione gitana dell’Europa di allora. A quel crimine rimosso l’Anpi nazionale e l’Aned nazionale hanno voluto dedicare il 4 febbraio scorso alla Casa della memoria e della storia di Roma l’incontro pubblico “Rom e Sinti: il grande divoramento rimosso” . Un’iniziativa promossa con la partecipazione della portavoce di Alleanza romanì, Dijana Pavlovic, e di Luca Bravi, docente dell’Università di Firenze, tra i pochi storici italiani che hanno ricostruito le vicende della persecuzione della Comunità rom, trovando e ascoltando testimoni, recuperando documenti, con ricerche ostinate e faticose, spesso scomode.

«È nostro dovere ricordare sia la Shoah del popolo ebraico – ha sottolineato a una platea attentissima la presidente nazionale dei partigiani, Carla Nespolo – sia la strage delle altre minoranze, degli omosessuali e degli oppositori politici, dei prigionieri di guerra e dei disabili. Ed è urgente conoscere il genocidio del popolo Rom – ha proseguito Nespolo – perché l’oblio alimenta il veleno della discriminazione e del razzismo, brodo di coltura di ogni fascismo». Altrettanto importante è ricordare le responsabilità del nostro Paese nella persecuzione dei “gitani”,  un’ossessione razzista che non fu esclusiva della Germania hitleriana. «Durante il regime mussoliniano furono deportati almeno 25 mila Rom, Sinti e Caminanti – ha spiegato Fabrizio De Sanctis, presidente dell’Anpi di Roma, in apertura dei lavori –.Vennero destinati prima a campi di internamento, in Molise e Sardegna soprattutto, e poi condannati allo sterminio nei lager nazisti». Preoccupa oggi «il ritorno di proposte di censimenti dei Rom, di schedature su base etnica, razziale, e il diffondersi di sentimenti razzisti su cui, a più riprese hanno soffiato esponenti del Governo». Lo fece il ministro dell’Interno Roberto Maroni nel 2008, ordinando ai prefetti di prendere le impronte digitali anche ai bambini, e per questo l’Italia venne condannata dall’Unione europea. Lo scorso anno, appena arrivato al Viminale, Matteo Salvini, ministro e vice presidente del Consiglio, propose “un’anagrafe”, costretto poi a fare marcia indietro per l’indignazione e la mobilitazione di tanta parte della società civile.

È dunque una priorità sgomberare non i campi rom, peraltro peculiarità tutta italiana, ma i pregiudizi. Diffidenze accumulate da secoli, asservite alla perenne ricerca di “un nemico”.

Comincia a illustrare la storia  del popolo Rom in Europa Aldo Pavia, vice presidente nazionale Aned. Una narrazione scandita a partire dal Medioevo da infamanti stereotipi: “discendenti della razza di Caino”, li definì un monaco francescano a Creta nel 1322; nel XV secolo la Serenissima Repubblica di Venezia, in guerra contro l’impero ottomano, li accusò di essere ladri e spie al servizio del nemico; seguirono leggi speciali contro il “vagabondaggio” e nel 1558 si stabilì che si potessero uccidere gli zingari senza incorrere in pene; nell’Ottocento a Milano era addirittura lecito uccidere un rom e impossessarsi dei suoi beni.

Deportazione di Rom (da https://static.ilmanifesto.it/2016/08/02/03-ultima-rom-tt-512×394.jpg)

In realtà, in tutta Europa, i disprezzati “zingari” erano semplicemente artigiani molto bravi, liutai, esperti nell’arte di metalli, lavoravano il rame, inventarono la filigrana, stagnai (i calderai, come ricorda la toponomastica di molte città) e soprattutto erano stanziali, abitavano in case, non erano affatto nomadi né stranieri. Anche i giostrai e i teatranti si spostavano unicamente per lavorare, come tanti pendolari di ieri e di oggi. «Nel 1944, l’anno dello sterminio nazista ad Auschwitz-Birkenau, a Marzhan, Mauthausen, Lackenbach e Salisburgo, a Chelmo, Belzec, Sobibor e Treblinka venne cancellata l’intera classe media Rom», ha precisato la portavoce di Alleanza romanì, Dijana Pavlovic. E se la scienza tedesca offrì una sponda all’abominio, moltiplicando gli studi sulla pericolosità sociale delle popolazioni rom, caratterizzata dal “gene ereditario del nomadismo e dall’asocialità”, in Italia quelle tesi vennero riprese e sostenute da antropologi come Guido Landra, con tanto di saggi pubblicati sul periodico “La difesa della razza”.

Era stata la Germania, nel 1905, a realizzare le prime schedature dei Rom. Il primo “censimento” fu opera di Alfred Dillmann, capo della polizia di Monaco. Pubblicò anche un libro dal titolo “Zigeunerbuch”, il libro degli “zingari”, con i nomi di tutte le famiglie di lingua romanì del territorio. L’intento era che la gente potesse tenerle a distanza e infatti i Rom non riuscirono più a lavorare e molti furono costretti ad emigrare.

Il fascismo continuò a percorrere la strada dell’orrore, cavalcando e inasprendo le misure di ostracismo ai danni della Comunità rom, fin dai primi anni 20, ha spiegato lo storico toscano Luca Bravi.

La schedatura di una bambina rom (da https://www.wordsinfreedom.com/2-agosto-1944-il-genocidio-scomodo/)

La persecuzione si articolò in tre fasi. In un primo momento, a questori e prefetti venne ordinata l’identificazione e la schedatura dei Rom, sebbene sudditi del Regno dal cognome italianissimo e molti degli uomini fossero stati valenti soldati nel primo conflitto mondiale. In seguito, durante l’occupazione, quei registri saranno utilizzati per le liste di deportazione nei campi nazisti, altrimenti sarebbe stato impossibile, basandosi solo sui cognomi, distinguere un rom da un qualunque altro italiano. Le disposizioni di polizia raccomandavano inoltre una particolare attenzione alle “carovane di zingari”, da bloccare e respingere alle frontiere. Successivamente, tra il 1940 e il 1943, l’ordine sarà di arrestare tutti i Rom e i Sinti italiani e “stranieri”, e di trasferirli in speciali campi di concentramento quali Agnone e Boiano in Molise, Prignano in Emilia Romagna, Tossicia in Abruzzo, Pedasdefogu in Sardegna, per citarne alcuni. Dopo l’armistizio, la sorte di moltissimi di quei Rom internati, donne, bambini uomini è segnata, sono messi sui vagoni e inviati, transitando anche da Bolzano, nei campi della morte nella “Grande Germania” e in Polonia. Solo ad Auschwitz-Birkenau vennero sterminati in 23 mila. «Lo sappiamo – precisa lo storico Bravi – perché un prigioniero riuscì a salvare il libro mastro in cui erano annotati i nomi delle persone che vivevano nello Zigeunerlager». La soluzione finale arriverà il 2 agosto 1944 con l’uccisione, in una sola notte, di circa 2 mila persone.

Poco conosciuto è il contributo dei rom alla Resistenza italiana. In molti, dopo l’8 settembre combatteranno nelle formazioni garibaldine in molte località del Nord, in Friuli Venezia-Giulia anche nella Osoppo, in Abruzzo nella gloriosa Brigata Maiella. Ed è lungo l’elenco dei partigiani rom Caduti, fucilati dai nazifascisti, alcuni decorati al Valor Militare alla memoria.

Nel dopoguerra, la giustizia fu latitante per il popolo rom. Nonostante nel ’45 la Convenzione di Bonn imponesse alla Repubblica Federale Tedesca di indennizzare le vittime delle persecuzioni razziali, non venne loro concesso alcun risarcimento. Non solo, alcuni dei principali teorici sperimentali della “razza zingara”, lo psicologo Robert Ritter e l’antropologa sua collega Eva Justin, continuarono la loro carriera accademica. Peggio, le loro indegne ricerche furono integralmente recepite da Hermann Arnold, reputato dagli anni 60 in poi, un grande esperto di “zingari”. Nel suo libro più famoso invitava alla sterilizzazione di Rom e Sinti, pratica che nelle civilissime Svizzera e Svezia saranno applicate sulle donne di origine Rom addirittura fino alla metà degli anni 70.

«Aiutateci a colmare la lacuna nella legge che in Italia istituì nel 2000 il Giorno della Memoria, escludendo la persecuzione etnica del popolo rom – è stato l’appello di Dijana Pavlovic –. Dal 2015 un disegno di legge, presentato nel 2015 da Luigi Manconi, allora Presidente della Commissione diritti umani, e da altri suoi colleghi senatori non è mai stata discussa e giace nel cassetti di Palazzo Madama». Una sollecitazione raccolta dalla presidente nazionale Anpi. «Come democratici e antifascisti abbiamo il grande compito di combattere, uniti, l’indifferenza, dettata soprattutto dalla mancanza di conoscenza – ha detto Carla Nespolo nelle conclusioni del convegno –. Grazie alla collaborazione di tanti insegnanti, l’Anpi con incontri nelle scuole trasmette alle nuove generazioni i valori di pace, solidarietà e fratellanza. Oggi viviamo tempi difficili dovendo contrastare il razzismo, quotidiano e istituzionale. Ma tanta società civile è al nostro fianco. Sono convinta che la mente e il cuore delle persone siano buoni, se non subiscono condizionamenti. E noi continueremo a operare, certi della vittoria, ricordando la lezione di vita dei nostri partigiani».