Oleg Mandić è nato nel 1933 a Susak, Croazia, nel maggio del 1944 viene arrestato e spedito ad Auschwitz. Sopravvivrà. Da oltre sessant’anni gira in lungo e in largo per raccontare la sua storia.
Lo scorso 31 gennaio, invitato dall’Anpi locale, è stato ospite al Comune di Limena (Padova), dove ha incontrato una folta platea di cittadini, tra cui i moltissimi studenti delle scuole medie del paese, che si è voluta regalare l’occasione di conoscerlo e ascoltarlo. Un’occasione speciale, ormai unica dati gli oltre 70 anni che ci separano dai fatti accaduti. È uno di quegli incontri che si ricordano poi per tutta la vita, quelli per cui si può dire “io c’ero”.
Molti dei ragazzi in sala hanno la stessa età che aveva Oleg Mandić, quando è stato internato ad Auschwitz: 11 anni. Vederli in sala mi rende felice e più fiduciosa nel futuro. Ospitare a Limena un testimone della follia nazifascista è un segno forte e importante per questo Comune, che lo riscatta dalla presenza, un anno fa, del raduno di Forza Nuova, un movimento che non fa mistero delle proprie posizioni negazioniste, affermando per esempio che nei lager c’erano il cinema e la musica di Wagner e che le camere a gas non sono mai esistite.
A qualsiasi cieco negazionismo si risponde con la testimonianza e la conoscenza. È fondamentale darsi la possibilità di ascoltare chi c’era: Oleg Mandić c’era, c’era ad Auschwitz, c’era negli ambulatori del dottor Mengele. Oleg c’era: era uno degli oltre 200.000 bambini internati ad Auschwitz, quasi tutti ammazzati dal gas Ziklon B che, più pesante dell’aria, veniva respirato per prima dai bimbi più bassi. Oleg c’era e c’è. E ci siamo noi ad ascoltarlo che potremo dire “io c’ero” e se potremo dirlo dovremo anche assumercene la responsabilità: prima o poi, toccherà a noi. Non testimoniare: la testimonianza è solo di chi partecipò ai fatti. A noi toccheranno la memoria e la conoscenza. Memoria è una parola attiva: è dalla sua attività che dipende la vita del passato. Ma alla memoria serve la conoscenza seria, onesta e precisa del passato su cui va esercitata; senza conoscenza la memoria resta celebrazione vuota, un monumento pieno di polvere che nessuno capisce. Testimonianza, memoria, conoscenza. E lasciatemi aggiungere “compassione”. Non è possibile ricordare e conoscere davvero senza “patire insieme”, senza riconoscere nel dolore degli altri, di ogni altro, un dolore anche nostro, che ci rende uguali, solidali e umani proprio perché fragili allo stesso modo.
Come mai tu, tua madre e tua nonna siete stati deportati?
L’8 settembre 1943, nella Seconda guerra mondiale, l’Italia capitolò e dopo 12 giorni vennero i tedeschi ad occuparci. Nel frattempo la città Abbazua e il suo circondario vennero governati dal Fronte di Liberazione, capeggiato da mio nonno (dottor Ante Mandić). Il nonno e papà si ripararono dai partigiani prima dell’arrivo dei tedeschi, i quali, per rappresaglia, arrestarono nonna, mamma e me.
Come è possibile che tu sia stato esattamente l’ultimo bambino ad uscire dal campo di Auschwitz e a chiuderne il cancello?
Perché effettivamente lo sono stato. Auschwitz fu liberata dai russi e dopo la liberazione ci furono molti visitatori: giornalisti, operatori della Croce Rossa, politici… Quando arrivava qualcuno, la mamma ed io lo fermavamo e lo pregavamo di mandare un messaggio in Jugoslavia (allora la Croazia faceva parte di quello Stato, ndr) per informare che eravamo vivi. Sapevamo che mio nonno era vicino a Tito e ci aspettavamo che il messaggio sarebbe potuto giungere a lui. Qualcuno lo fece. A quel tempo mio nonno Ante era alla presidenza dello Stato, ovvero uno dei tre reggenti che fungevano temporaneamente da gestori del potere esecutivo in Jugoslavia. Quando la notizia della nostra sopravvivenza allo sterminio giunse a Mandić, a Belgrado, si sono attivati i telefoni internazionali e, tramite Mosca, furono date disposizioni di trovarci nel lager. Il comandante del distretto militare Fedosenko venne personalmente ad incontrarci, e con lui una équipe cinematografica. Io non sapevo che la pellicola fosse stata conservata e quando, 25 anni dopo, giunsi nuovamente ad Auschwitz, ebbi quasi un infarto nel vedere le riprese in cui eravamo io, la mamma e la nonna con gli ufficiali russi. Naturalmente non poterono trasferirci immediatamente ma rimanemmo ad abitare con il comandante russo del campo mentre perdurava l’evacuazione dei deportati superstiti. L’operazione si protrasse per oltre un mese e, quando furono tutti evacuati, noi salimmo con lui in automobile e partimmo per Cracovia. Quando si chiusero dietro a noi i cancelli di Auschwitz entrai nella storia: eravamo gli ultimi deportati usciti vivi dal campo.
Come sei potuto sopravvivere ad Auschwitz?
In prevalenza grazie al caso e alla fortuna: il 70%. Quando dovevamo prendere noi delle decisioni, siamo riusciti ad azzeccare sempre quella “vincente”. Il 25% è stato l’amore materno e il 5% capacità e destrezza di un ragazzino cresciuto troppo presto. A due mesi dall’arrivo ad Auschwitz scoprirono che ero riuscito a sistemarmi con la mamma nel campo femminile, malgrado avessi più di 10 anni di età, il limite oltre il quale si separavano i maschi dalle femmine. Sarei dovuto essere trasferito al reparto maschile, ma per poterlo fare dovetti passare una visita medica (!?). Alla visita ebbi una febbre di quasi 39 gradi centigradi che mi chiuse temporaneamente l’entrata del reparto maschile. Al momento mi misero nel reparto di Mengele, perché lì c’erano gemelli maschi fino ai 18 anni. E si dimenticarono di me. Lì ci rimasi fin quasi alla fine. La febbre improvvisa fu un caso molto fortunato. Poi, per esempio, il 20 gennaio 1945 abbiamo potuto scegliere se andare con i tedeschi e 80.000 detenuti in Germania (era la famigerata “Marcia della morte”, a causa della quale solo 20.000 detenuti arrivarono a destinazione) o rimanere con altri 5.000 detenuti ad attendere l’arrivo dei russi, colla minaccia di essere nell’attesa passati per le armi dai tedeschi. Abbiamo scelto la seconda soluzione e siamo sopravvissuti.
Com’era la vita nel campo?
Si cercava di arrivare, possibilmente vivi, al giorno successivo. Ciò era però in contrasto col piano nazista che in un campo di sterminio, chi ci capitava, doveva morire di stenti nel giro di sette mesi. E così morivano giornalmente 4.000 detenuti. Gli ebrei invece raramente arrivavano ad entrare all’interno del campo: venivano gasati e cremati il primo giorno, subito, all’arrivo. Non venivano neanche registrati.
Come è stata e com’è la tua vita dopo Auschwitz?
I miei 86 anni di vita sono segnati da Auschwitz. Avevo 11 anni, prima ancora di essermi formato come uomo, ho trascorso un anno intero in campo di sterminio. Questo ha mutato il mio modo di pensare su cosa rappresentasse la vita. Il pensiero basilare che ho maturato è che quanto di peggio mi potesse accadere era già successo. Quando parti da questo presupposto hai tutte le predisposizioni per una vita meravigliosa. Potendo/dovendo rifarla, la vita la rifarei tale e quale ad una condizione: che all’inizio ci sia proprio Auschwitz! Perché è a questa mia tragica esperienza che devo la vita meravigliosa che ho avuto.
Sei tornato poi ad Auschwitz?
Sì. Molte volte. Per lo più per ragioni terapeutiche! La gente quando viene a trovarsi in periodi di crisi consulta lo psicoanalista. Quando capita a me, io torno ad Auschwitz! Riattraverso i sentieri e i ricordi di settant’anni fa, incontro mentalmente quelli che non hanno avuto la mia fortuna di farcela… e torno a casa sano con l’ennesima convinzione che la vita è bella e val la pena di esser vissuta.
Oggi partecipi a dibattiti con i ragazzi sia in Croazia che in Italia: quale messaggio dai ai giovani?
Non odiare! Non conviene: l’odio porta altro odio, anche superiore al nostro. Porta sciagure e catastrofi. E raramente se ne trae soddisfazione. Siccome l’odio lo fomentiamo noi stessi, esso nasce e si riproduce nel nostro cervello. Di conseguenza siamo in grado di governarlo: possiamo e dobbiamo sopprimerlo. Per il nostro bene. Credetemi: io ci sono passato.
Come giudichi il riaffacciarsi in vari Paesi d’Europa, in Polonia e Ungheria ma anche in Italia, di movimenti e idee di matrice neofascista e neonazista?
È un fatto triste e preoccupante. Perché il ripetersi di attività nefande nella Storia non è tanto raro. Col mio spiegare in giro la differenza tra il Male e il Bene tengo ad aggiungere un piccolo obolo affinché ciò non debba accadere.
Pubblicato mercoledì 20 Febbraio 2019
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