«Ho reagito scrivendo». La voce morbida di Maha Hassan sintetizza il percorso della sua vita fino a qui. Tutto quello che le è accaduto, le sofferenze, il divieto di pubblicazione delle sue parole “sconvenienti” nella terra in cui è nata, l’esilio, le ingiustizie subite in quanto donna e gli occhi giudicanti della società, quando i costumi locali proibiscono anche un sussurro se non ti uniformi agli altri.
Maha Hassan è una scrittrice e giornalista curdo-siriana nata ad Aleppo e laureata in Legge nell’università della città. Nel 2011 il suo romanzo Umbilical cord è stato nominato per il “Booker”, l’International Prize for Arabic Fiction; in italiano è stato pubblicato il romanzo I tamburi dell’amore (Poiesis editrice, traduzione di Federica Pistono) e a breve arriverà nel nostro Paese anche un altro titolo, Metro of Aleppo, sempre con lo stesso editore.
Maha Hassan oggi vive a Parigi: è stata costretta a lasciare la Siria diversi anni fa, molto prima dell’inizio della guerra, e scrive le sue storie sia in arabo sia in francese. La incontriamo in occasione del festival “Conversazioni sul futuro”, a Lecce. Città che, nelle vie del centro storico e per le persone in strada anche dopocena in pieno autunno, le ricorda la sua Aleppo. «Nel mio libro Metro of Aleppo – spiega Hassan –, la protagonista, una curda siriana, ogni volta che prende la metro di Parigi si sente come fosse a casa perché, quando esce dal vagone, legge sulle insegne parole scritte in francese proprio come nella sua città d’origine. Poi accade – continua la scrittrice –che la giovane si perde e non riesce ad uscire dalla metropolitana. Così un signore le chiede: “Ma lei dove sta andando”? E lei risponde: “Vorrei andare ad Aleppo”. Questo è un tipico choc da esilio».
Come la sua protagonista anche lei ha scelto l’esilio: nel 2004 è stata costretta a lasciare la Siria e ha chiesto asilo politico in Francia. Perché?
Il 2004 in Siria ha rappresentato l’inizio della rivoluzione curda, antesignana della primavera araba. La situazione era instabile, ero stata schedata dal governo perciò ho scelto di lasciare il Paese. Sono siriana e sono curda, oggi li considero due vantaggi anche se fino a qualche anno fa non dicevo mai di essere una curda. La Siria ora fa i titoli dei giornali. Al Baghdadi è stato un nemico del popolo siriano e curdo, ma il ritiro di Trump ha permesso a Erdoğan di considerarci suoi bersagli. E poi sono una donna.
Cosa vuol dire essere una donna specialmente in una zona di conflitto?
Il nostro corpo non appartiene a noi, è della famiglia, della tribù. Mio padre, comunista, mi diceva: “Non puoi venire alle manifestazioni. Se ti prendono, sarai stuprata dalla polizia”. In quelle parole c’era anche la volontà di proteggere il suo onore perché la politica utilizza il corpo delle donne.
Lei ha usato parole emozionanti e dure allo stesso tempo, parlando del corpo delle donne curde in guerra. Lo ha fatto, ad esempio, per l’orrore perpetrato sul cadavere di Hevrin Khalaf, la politica curdo-siriana leader del Future Syria Party, uccisa da una milizia appoggiata dalla Turchia durante l’operazione militare turca nel Nordest della Siria. E, ancora, in merito al video sulla combattente curda Cicek Kobane, ferita e catturata dalle milizie jihadiste alleate di Ankara.
Ho letto tanti commenti di odio sui social che colpevolizzavano queste donne. In tanti non mettevano in discussione la guerra, ma il fatto che una donna stesse lì, in divisa, con le armi o a capo di un partito per fare politica. Isis vive tra di noi ma noi non lo vediamo perché alla fine Isis è una mentalità, se si giustifica o si difende chi uccide una donna.
Qual è il suo messaggio per scuotere chi non sa nulla di quanto sta accadendo in Turchia e in Siria contro le donne?
Io scrivo. Credo fortemente nella forza delle parole, e spero che magari qualche parola cada nell’orecchio di qualcuno e possa indurre il cambiamento. D’altronde, anche io sono stata cambiata dalle parole, la letteratura mi ha salvata quando ero una bambina. Sono però anche molto delusa perché è da 30 anni che scrivo, partecipo ad eventi, svolgo dei discorsi pubblici e parlo di cose che ancora mi provocano una forte emozione, pur se appartengono al passato, e mi viene anche da piangere. Allora mi chiedo: come posso scuotere le persone? Anche quanti “hanno bisogno di essere scossi” devono venirmi incontro, il rapporto deve essere bilaterale; chi viene ad ascoltarmi si vuole impegnare o si limita a udirmi? In quei territori in guerra ho delle cugine; ho un’amica, alla quale tengo moltissimo, che era ad Afrin (cantone curdo-siriano nel Nordest della Siria che la Turchia ha occupato a inizio 2018, ndr), poi è andata in esilio e ora è a Qamislo, dove è esposta a grosse minacce in seguito all’ultima operazione militare di Erdoğan, quella denominata “Sorgente di pace”. Vedo noi curdi come gli ebrei di oggi. Mi identifico molto nella loro storia, e provo un grande senso di vergogna perché, purtroppo, essa non ha insegnato niente. Nel secolo scorso, le atrocità ai danni degli ebrei sono state perpetrate nel silenzio generale. Ma adesso, in questa società così connessa, tali nefandezze non dovrebbero riprodursi. Sono molto delusa e ho anche molta paura.
In Italia ancora oggi, dopo diversi episodi gravi raccontati dalla cronaca, c’è chi nega un ritorno alla mentalità fascista, al linguaggio d’odio contro ebrei e altre minoranze. Come spiegherebbe a un ragazzo italiano cosa sono il fascismo e la mentalità oppressiva?
Il fascismo si realizza quando una persona, o un’autorità, si limita a considerare qualcun altro soltanto per una questione di sangue, senza altre ragioni. All’inizio del mio lavoro non mi identificavo come una curda, ma per Erdoğan non c’è niente da fare: sono una curda e basta, quindi un nemico, ed è un po’ ciò che alimenta il fascismo e il razzismo dappertutto. Per esempio, se pensiamo a Erdoğan e al Pkk, chiaramente si tratta di un problema politico, ma nel calderone entriamo anche noi cittadini. Se Erdoğan ha un problema politico con il Pkk dovrebbe risolverlo politicamente, invece il presidente turco promuove una guerra contro un’intera etnia. Per questo il fascismo è un’ideologia cieca, assolutamente incapace di giudicare e di vedere, e con un livello di odio debordante. Ai giovani direi che devono evitare di avere una “mentalità fascista” nel giudicare le persone soltanto per il sangue che scorre nelle vene, senza conoscerle, senza incontrarle. Nella maggior parte dei casi, i preconcetti che si possono avere prima di conoscere persone nuove sono falsi.
Quando ha preso la decisione di voler diventare una scrittrice?
Non si è trattato di una vera e propria decisione. Avevo una passione per il teatro e volevo diventare un’attrice, ma vivevo in una società molto chiusa. Mio padre non avrebbe mai accettato, e non ha accettato, infatti, che io facessi l’attrice. Quindi ho reagito cominciando a scrivere dei lavori teatrali. E così mi sono resa conto che potevo andare oltre il teatro: ho capito che la scrittura mi piaceva. in altre parole, come la protagonista del mio libro, ho dato una risposta un po’ di choc. La scrittura non è stata il mio primo sogno, ma una reazione a qualcosa che mi veniva proibito di fare. Ora però non immaginerei niente di diverso per me.
La prima cosa che ha pubblicato è stata su un tema erotico, quindi un argomento molto “problematico” in una società chiusa e maschilista. Come è andata?
Ho pubblicato fuori dal mio Paese, su Al naqed, un magazine di Beirut. Molti siriani, intellettuali e artisti in genere, hanno sempre guardato al Libano come al nostro “mare aperto”. Molti dissidenti da noi in Siria, infatti, hanno deciso negli anni di trasferirsi nel Paese dei cedri proprio per questa ragione, il che è un po’ strano: il Libano sembra un Paese più libero, ma è stato per molto tempo sotto il controllo del padre dell’attuale presidente siriano Bashar Al Assad. In Libano si respirava una specie di libertà, non proprio la libertà vera. Ero molto giovane, e provenivo da una famiglia altamente conservatrice, quindi mi ribellavo molto. Noi ragazze avevamo diritto a ballare, anche di uscire, purché non esternassimo le nostre emozioni. Non parliamo poi di sessualità: era assolutamente un tabù. Perciò, quando ho scritto questo romanzo con connotazioni erotiche, ho agito come tutti gli altri siriani: ho trovato un editore in Libano, Riad El Rayyes, la sua casa editrice porta il suo nome, e da lì è iniziato tutto.
Un libro che le ha creato molti problemi.
Nel nostro incontro l’editore mi ha detto che tutti pensavano che io fossi un uomo e che Maha Hassan fosse uno pseudonimo. Per questo mio primo romanzo ho avuto molti problemi ad Aleppo, dove la società è molto chiusa, soprattutto per le donne, e molto machista. Tutti mi guardavano e sparlavano di me, nei caffè, per strada. Un giorno qualcuno mi si è avvicinato chiedendomi perché avessi scritto quel testo, se sentissi la mancanza di un uomo e via dicendo. Ciò mi ha collocata quasi in un carcere, in una sorta di isolamento etnico-sessuale, tenendomi fuori dal resto della società. In quel periodo lavoravo in un ufficio: un giorno il mio capo, una donna, ha convocato tutte le altre impiegate, pensavo fosse un incontro informale per un brindisi o un caffè, e invece ho scoperto che ero un’imputata e quello era un tribunale. Il mio capo chiese infatti alle altre colleghe che cosa pensavano del mio scritto, se lo giudicavano scandaloso. Ricordo la mia assoluta incapacità di controllare la collera e quindi risposi accusandole di essere conservatrici: non avevo le armi culturali o l’esperienza per rispondere in una maniera diversa. Avevo contro le mie colleghe, la società intellettuale, per la maggior parte costituita da uomini, e anche la mia famiglia, che all’epoca non sapeva niente, e molte volte mi sono sentita dire che avrei fatto morire mio padre, se avesse saputo del mio libro e delle critiche.
E oggi, che da curda siriana vive in esilio ed è anche francese, a che punto è il suo percorso identitario?
Sto per finire un libro che ho scritto in francese e sono alla ricerca di un editore. In questo nuovo lavoro racconto un po’ la mia identità. Parto dalla storia di mia nonna armena che a 5 anni ha visto la sua intera famiglia massacrata, perciò è stata portata ad Aleppo, la sua identità è stata nascosta e le hanno dato un nome musulmano, così è stata adottata da una famiglia musulmana. Quando mia nonna si è sposata, suo marito, un vedovo, le ha dato l’identità della defunta moglie: la sua morte non era stata ancora registrata. Naturalmente ciò ha avuto ripercussioni in tutte le generazioni della mia famiglia. In tutto questo vedo il ripetersi di una lunga storia che arriva fino a me. Anch’io non avevo, e non ho, un’identità fissa, il che può essere talvolta una ricchezza, posso essere quello che voglio. Però provo un senso di vuoto enorme, a salvarmi è solo la forza della letteratura. Mi dico che il destino mi ha scelta affinché scrivessi la storia di tutte le persone venute al mondo prima di me e che erano analfabete. Immagino un “dio della scrittura” che mi ha permesso di dare loro voce. Mi sento Maha, ma quando scrivo mi sento tutte le donne che mi hanno preceduta.
Qual è la prima immagine che le viene in mente di Aleppo?
L’odore di mia nonna. Penso a lei e alla città vecchia di Aleppo. A me piace dire “mia nonna armena”, anche se lei si è nascosta per tutta la vita: aveva un odore che veniva proprio dal suq della città. Lì, prima della guerra, c’erano venditori di spezie, di hennè e di sapone che sprigionavano un odore molto penetrante che forse era l’odore di mia nonna.
(Ha collaborato Lucia Sollecito)
Antonella De Biasi, giornalista e saggista. È stata redattrice del settimanale “la Rinascita”. È coautrice e curatrice di Curdi (Rosenberg & Sellier 2018)
Pubblicato mercoledì 27 Novembre 2019
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