Alla vigilia della seconda guerra mondiale le mire espansionistiche di Mussolini avevano portato, dall’aprile 1939, all’occupazione italiana dell’Albania. Dopo l’armistizio dell’8 settembre moltissimi nostri militari di stanza nel Paese si unirono però ai partigiani albanesi. Se più note sono le imprese gloriose del battaglione Gramsci, per esempio, Lia Tosi da anni studia per mettere in luce alcuni aspetti meno conosciuti del contributo italiano alla Resistenza albanese.
Il battaglione italiano della V brigata albanese [1] si costituisce a Shtimle in Kosovo il 24-25 novembre 1944, in seguito alla riorganizzazione dovuta alla formazione della V Divisione, che il 18 novembre ha incorporato da pochi giorni la III, la V, la XXV brigata.
Leggiamo in Historicu i Brigadёs V sulmuese [2] parole di stima verso gli italiani a fianco dei partigiani albanesi, per il valore in combattimento, per quanti hanno perso la vita nelle battaglie contro il “comune nemico”, per il compito importante svolto nei settori dell’artiglieria, nelle compagnie di mortai, dei genieri, per i medici, gli infermieri.
Questo battaglione si costituisce in una fase in cui la guerra volge alla fine (l’Albania è già quasi tutta liberata dai tedeschi) e diventa il sesto della V brigata. Ma già altri 15 reparti italiani si erano organizzati dall’8 settembre in poi: nel settembre 1943 la ceta Risorgimento, la prima ceta Matteotti; e nell’ambito del Comando delle Truppe italiane alla montagna [3] altri 10 battaglioni: btg Martino, Nuova Italia, il btg di Dibra col gen. Piccini e Haxhi Lleshi; i battaglioni Zignani, Mosconi, Morelli (i cui effettivi sono destinati al lavoro); la VI batteria di artiglieria del capitano Menegazzi, la IX btr di artiglieria del capitano Cotta, entrambe destinate alla I brigata albanese; la V del capitano Giannone, aggregata alla III brigata; la VI del tenente Sainati, assegnata alla II brigata. Sono tutte batterie della divisione Firenze, che ha sostenuto per 4 giorni la battaglia di Kruja contro i tedeschi e poi ritirandosi sconfitta si fraziona per adeguarsi alla guerriglia.
C’è poi il più noto battaglione Gramsci: un gruppo di soldati (60? 80? 120?) pare quasi tutti della Firenze, che il 10 d’ottobre 1943 sulle rive del fiume Erzen si distaccano dalla colonna Martino rispondendo all’invito di Mehemet Shehu di entrare nell’Esercito di liberazione albanese assumendone regole e disciplina. Infine l’anno seguente si formeranno ancora 2 reparti italiani nell’Albania centromeridionale: la compagnia Fratelli Bandiera e il battaglione Matteotti [4]. Dunque il nostro battaglione è in realtà il 16° della vicenda italiana nella resistenza albanese, e al momento della sua formazione rimangono operativi solo il btg Gramsci, con la I brigata, la VI batteria di artiglieria ancora con la I Brigata, e la IX batteria ora con la VII Brigata.
C’è una sostanziale differenza fra il btg Gramsci e il battaglione italiano della V: il primo si forma agli albori della partecipazione italiana alla resistenza in Albania, uscendo dal reparto italiano di appartenenza (la colonna Martino, che pure ha già combattuto duramente contro i tedeschi), con ciò segnando una cesura con l’esercito strumento del fascismo, ed entrando sì in ambiente di cultura diversa ma in modo compatto, entro una propria nicchia linguistica e sotto guida e patrocinio di una brigata albanese. Il secondo nasce invece sul finire della guerra e rappresenta simbolicamente ma anche concretamente un bacino di raccolta della diaspora italiana, soldati disseminati ai quattro venti dalla capitolazione in poi: ce ne sono da tutte le parti dei Balcani centro-meridionali e da tutte le passate divisioni italiane; dal Montenegro, dalla Grecia, dalle divisione Regina, dalle isole, da Corfù, da Rodi, da Creta, naturalmente dall’Albania. E vi si ricompone una piccola comunità di parlanti italiano. A quanto sappiamo dai racconti-memorie di Renato Gatti, un tenente della divisione Parma [5], nei mesi precedenti la costituzione del battaglione, nell’auspicio di potere formare un reparto tutto italiano, tra gli italiani presenti nei vari reparti della V si era manifestata una forte tensione verso la lingua madre. Incontrandosi dicevano che sarebbe stato bello stare tutti insieme, e parlare la loro lingua, potersi capire. Mentre Ernesto Celestino, tenente della Perugia scampato all’eccidio di Kuç, che del battaglione diventerà comandante, annotava mese dopo mese l’incrementarsi della presenza italiana in Brigata, incremento che incoraggiava la speranza di costituirsi in battaglione.
Sottolineo l’importanza della lingua madre in questa aspirazione. La lingua è non solo riappropriazione di identità culturale per tante monadi in dispersione, ma in questo caso (ma lo è sempre) la lingua madre è patria immateriale, e quindi un anticipato rimpatrio, anche per quelli che non ritorneranno. Il battaglione infatti da lì a poco proseguirà con la V brigata in Sangiaccato e molti, albanesi e italiani, cadranno ancora in combattimento o falcidiati dalla terribile epidemia di tifo, ancora fianco a fianco negli ospedaletti di Senica e Novi Varosh contro un altro “comune nemico”.
Ma per valutare meglio il significato di questo battaglione bisogna considerare che la partecipazione italiana alla Resistenza in Albania fu un fenomeno molto complesso, che non si piega a letture univoche.
Il soldato italiano all’indomani della capitolazione entra in un mondo di incognite incontrollabili e mette in atto tutte le sue risorse per sopravvivere, i suoi mestieri, il suo saper fare. È oggi contadino, domani partigiano, poi cuoco, falegname, infermiere, medico, calzolaio, servitore, anche pittore e musicista [6], ma porta su di sé il marchio di provenienza dall’esercito dell’oppressione fascista. E non sempre la popolazione civile o i partigiani se lo dimenticano.
È incontestabile che le famiglie albanesi abbiano protetto tanti italiani mettendo a rischio la vita dei propri membri. È incontestabile che le formazioni partigiane abbiano offerto agli italiani una sponda di salvezza. Ma l’accoglienza non è sempre stata positiva, si sono verificate anche situazioni pesanti.
Due esempi di segno contrastante, relativi all’avviamento al lavoro per i soldati che non potevano combattere perché disarmati o per altre ragioni.
Esempio positivo: nell’ottobre 1943 il dirigente partigiano Bako Dervishaj è incaricato dal comandante della zona partigiana del valonese (Vlorё) di cercare una qualche sistemazione per la torma miserevole di italiani che sostano affamati e senza prospettive nella valle dello Shushicё dopo la fuga da Drashovica, e sono soldati e ufficiali della divisione Parma, in parte anche della Perugia, che, disarmati, hanno vagato invano sulla costa nella speranza di un imbarco, coi tedeschi alle calcagna. Dervishaj sente per loro una gran pena, quasi un sentimento di fratellanza, e stila un catalogo di norme per regolarizzare il rapporto fra i civili albanesi e gli italiani, sul lavoro e per calmierare i prezzi nel piccolo commercio.
Esempio di una situazione opposta, sempre per quanto riguarda l’avviamento al lavoro: negli archivi italiani, Ufficio Storico dell’Esercito, Archivio Centrale dello Stato a Roma, Fondo Ricompart Estero (Ricompense partigiane estero), sono conservati documenti dove affiora un termine inquietante, schiavitù, schiavi, termine motivato dagli scriventi con il fatto che gli italiani sarebbero stati messi a fare lavori estenuanti senza retribuzione in cambio di scarso cibo. La motivazione per un termine così pesante lascia perplessi.
Più chiara spiegazione ce la fornisce il maggiore David Smiley delle Missioni britanniche nel suo libro Albanian Assignment [7] dove racconta di avere visto a Llizhё soldati italiani messi in vendita dai partigiani al prezzo di un napoleone d’oro o un sovereign d’oro ciascuno.
Conferma la compravendita il reduce Remoli, imparentato col primo sindaco comunista della città di Pistoia liberata, che riferisce di essere stato venduto e comprato 3 volte di famiglia in famiglia.
Conferma il tenente Olivio Casoli [8] della Parma. Catturato dai tedeschi, liberato dai partigiani che attaccano la polveriera di Drashovica dove era rinchiuso assieme ad altre migliaia di italiani. Sbandato viene ospitato con altri (compreso Renato Gatti) in una casupola dei coniugi Karafili (che pagheranno con la vita il loro appoggio alla resistenza e l’aiuto agli italiani); per un breve periodo è partigiano nella V; poi si ferma a causa di recidive di malaria. Lo ritroviamo nella primavera del ’45 in attesa del rimpatrio che cammina per le strade di Vlorё. Un improvviso schiamazzo alle sue spalle, italiani che fuggono, partigiani che inseguono e catturano tutti, Casoli compreso.
Vengono messi in vendita in luogo pubblico. È impressionante la descrizione della compravendita, con i compratori che contrattano il prezzo in base all’aspetto assai malandato degli uomini da comprare. Casoli ha fortuna, passa un suo amico albanese e fingendo di non conoscerlo lo contratta e lo compra, se lo porta via e lo libera. La vicenda Casoli illustra bene l’avvicendarsi delle variabili sul percorso di un italiano in Albania negli anni ’43-’45. Liberato a Drashovica da partigiani albanesi, protetto nello sbandamento da albanesi, messo in vendita da albanesi e liberato da un altro albanese.
In mezzo a queste variabili dall’8 settembre tantissimi italiani hanno dovuto cercare di sopravvivere, spesso da soli, o con un amico occasionale, o in minimi gruppi. Quindi o in piccole isole linguistiche o in solitudine linguistica. Ecco perché la tensione verso la lingua madre, e perché quando il battaglione si realizza (sesto della V brigata e sedicesimo dei battaglioni italiani nella resistenza in Albania) si realizza la piccola comunità italofona dove la lingua è patria immateriale.
Ma c’è di più: quando la V si trasferisce a nord e poi in Kossovo attacca nel territorio di Kukёs poi fra Giakova e Prizren le miniere di cromo, e cacciandone i tedeschi libera con i suoi partigiani italiani un bel numero di altri italiani, “schiavi”, militari ed ex operai civili una volta dipendenti della Ammi (Azienda minerali metallici italiana) costretti dai tedeschi al lavoro coatto. I liberati dalle miniere, come i liberati dalle colonne della Wehrmacht in ritirata dai Balcani meridionali, aggregandosi volontariamente alla V brigata, raddoppiano il numero degli italiani al suo interno, rendendo possibile la realizzazione del battaglione, che rappresenta, grazie alla V, un concreto riscatto all’apice di tanti percorsi dolorosi e una minuscola patria.
Lia Tosi, studiosa delle vicende dei soldati italiani in Albania, autrice di numerosi volumi sul tema
Intervento alla Conferenza della Accademia delle Scienze di Albania: “Gli Albanesi e la coalizione antifascista nella seconda guerra mondiale”. Tirana, 14 novembre 2014.
[1] Il battaglione nell’aprile del ’45 si chiamò Carlo Palumbo dal nome di un ufficiale caduto il 31 dicembre ’44 a Mejane presso Prjepolje.
[2] R.Kucaj,P.Bezhani, Historicu i Brigadёs V sulmuese, p. 364, Tiranё, 1989
[3] La ceta Risorgimento operava con il battaglione albanese Dajti, la ceta Matteotti con la III Brigata; il Comando delle truppe italiane alla montagna, già delineato dal colonnello pilota Barbi Cinti, si sostanziò con l’arrivo dei reparti della Firenze e un btg dell’Arezzo reduci dalla battaglia di Kruja. Ne fu comandante il generale Arnaldo Azzi. Il btg Martino era affiancato al btg albanese Dajti, il Nuova Italia alla II Brigata di B.Balluku. I btg Zignani, Mosconi, Morelli, dipendevano dalla zona di Peza, dove era attiva la III Brigata.
[4] La ceta Fratelli Bandiera si formò nella zona del Mokra e fu la terza compagnia del btg Reshit Çollaku, Il Battaglione Matteottti operava con la XIX Brigata.
[5] R.Gatti, Le croci sul Golico, Alessandria,1971
[6] Sirio Galli, un soldato della divisione Arezzo sfuggito con altri alla cattura tedesca, ebbe una travagliata esperienza in cui si aiutò con le sue capacità grafiche. Nel campo di Punemir i suoi manifesti ammorbidiscono il rigido Skander Russi; in seguito, durante l’offensiva tedesca del gennaio ’44, in una drammatica marcia dietro alla I Brigata, quando sia le Brigate che il Comando del gen. Azzi tentano di forzare l’accerchiamento, perde un’arrangiata calzatura, con un piede ferito, dita congelate, e rimasto indietro, solo, sopravvive a stento, anche scambiando i suoi disegni.
Sinché a fine maggio ’44 al congresso di Pёrmet ottiene l’incarico di decorare le sale dove si svolgerà il congresso. (S. Galli, Diario. Archivio Coremote, s.n.).
Raul Agostini, un caporale della divisione Firenze, venditore ambulante nella vita civile, dopo Kruja si arruolò nella I Brigata. Il 20 agosto ’44 è infermiere “nell’ospedale da campo del gruppo Skrapari”. Diviene poi “ istruttore violinista dei cori partigiani ha composto l’inno nazionale delle gruas antifasciste”; infine “svolse attività musicale presso Radio Tirana e Hotel Dajti per conto del Ministero della cultura popolare albanese”. (ACS, Roma, F.Ricompart Estero, A955)
[7] D.Smiley. Albanian Assignment, London 1985, p.90.
[8] O.Casoli. Memorie del maestro Olivio Casoli, Fossombrone, 2017.
Pubblicato lunedì 22 Giugno 2020
Stampato il 05/11/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/longform/il-battaglione-partigiano-che-voleva-parlare-la-lingua-di-dante/