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Un puzzle. Uno di quelli a tantimila pezzi, in cui però cinque tessere sono praticamente identiche e se non hai messo assieme tutto il resto non riesci a piazzarle. Ma per poter completare il resto devi sapere dove vanno quelle cinque…

Ecco la sfida delle prossime settimane dell’universo europeo. I cinque pezzetti uguali sono le presidenze del Parlamento europeo, della Commissione e del Consiglio, cui si aggiunge il/la sostituta di Mario Draghi alla Banca Centrale europea e l’Alto/a Rappresentante, carica occupata sinora da Federica Mogherini. Dissipiamo subito ogni dubbio: oggi l’Italia ha ben tre di quelle poltrone (anche se allo spettatore italico può aver dato l’impressione d’essere in campagna elettorale da tempo, l’on Tajani è ancora il Presidente del Parlamento europeo). Tre su cinque è una posizione di prestigio. Destinata a non ripetersi.

Nel cubo di vetro destinato ai fumatori della sala stampa del Consiglio, si è aperto, la notte della cena dei Capi di Stato e di governo che ha seguito le elezioni europee, il concorso per il più strambo portafoglio da assegnare al nostro Paese. Vince – al momento – il Commissario alle “Varie ed Eventuali”, ma sono ben piazzati anche quello ai “Palombari ciclisti” e, per restare nell’alveo delle possibilità più realiste, quello di un fantomatico portafoglio del Turismo. Un portafoglio “senza portafoglio” ovviamente, perché l’industria del turismo e i servizi collegati resterebbero strettamente nelle mani del Commissario alle imprese, offrendo al neonominato solo la possibilità di pubblicare brochure e intervenire a fiere di paese. Torneremo sul “non” ruolo dell’Italia più avanti.

Gruppi politici al Parlamento europeo

PPE – Gruppo del Partito popolare europeo (Democratici cristiani)
S&D – Gruppo dell’Alleanza progressista di socialisti e democratici al Parlamento europeo
ECR – Gruppo dei conservatori e riformisti europei
ALDE+ – Gruppo dell’Alleanza dei democratici e dei liberali per l’Europa + Renaissance + altri
GUE/NGL – Gruppo confederale della Sinistra unitaria europea/Sinistra verde nordica
Verdi/ALE – Gruppo dei Verdi/Alleanza libera europea
EFDD– Gruppo Europa della libertà e della democrazia diretta
ENL – Gruppo Europa delle nazioni e della libertà
NI – Non iscritti
Altri – Neoeletti senza appartenenza a un gruppo politico del Parlamento uscente
(dal 2009, secondo il regolamento del Parlamento, un gruppo politico è composto da almeno 25 deputati eletti in almeno sette Stati membri).

Partiti politici nazionali, appartenenza a un gruppo europeo e tendenza
Austria
FPÖ – (ENL) Freiheitliche Partei Österreichs – Partito della libertà austriaco. Nazionalista e destra populista, era il partito di Jörg Haider
Belgio
VI.Belang (ENL) – Vlaams Belang – Interesse fiammingo
Partito fiammingo di destra sociale e identitaria, chiede l’indipendenza delle Fiandre e una stretta regolamentazione dell’immigrazione. Diretto successore del Vlaams Blok (Blocco Fiammingo), che aveva decretato il suo autoscioglimento a seguito di una condanna, da parte della Corte di cassazione del Belgio, per violazione della legge contro il razzismo e la xenofobia.
Croazia
HDZ (PPE) – Hrvatska demokratska zajednica – Unione democratica croata
Orientamento democristiano e conservatore. Fa parte dell’Unione Internazionale Democratica, il raggruppamento internazionale dei partiti conservatori
Francia
RN (ENL) – Rassemblement National – Raggruppamento nazionale. Ex “Front national”, di Jean-Marie Le Pen, oggi guidato dalla figlia Marine. Partito di destra, nazionalista, sovranista, euroscettico e populista, sostiene l’uscita dall’euro, dalla Nato e la creazione di un asse “Parigi-Berlino-Mosca”; propone inoltre la revisione degli accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone, limitando il flusso di immigrati a 10.000 persone l’anno e oppone al “modello multiculturalista”, alle “discriminazioni positive”, al velo e ad altri simboli religiosi nei luoghi pubblici.
Coalition Renaissance (ALDE) – Coalizione rinascita. Insieme elettorale formato dal movimento del Presidente francese Macron (La Republique en marche!), il Movimento democratico (MODEM), AGIR e il Mouvement radical, social et libéral, d’orientamento di centro-sinistra.
Paesi Bassi
PVdA (D&D) – Partij van de Arbeid – Partito del lavoro
Partito socialdemocratico moderato. Fa parte del Partito del socialismo europeo e dell’Alleanza progressista, l’organizzazione internazionale fondata nel 2013, per superare l’Internazionale socialista e raccogliere partiti di centrosinistra non esclusivamente di tradizione socialista.
Polonia
PiS (ECR) – Prawo i Sprawiedliwość – Diritto e giustizia
Partito conservatore, clericale ed euroscettico, fondato nel marzo del 2001 dai gemelli Lech e Jarosław Kaczyński, dall’unione di una parte della “Azione elettorale Solidarność” con il partito “Accordo di centro”.

Emmanuel Macron e Donal Tusk (foto Imagoeconomica)

Per piazzare le cinque tessere nel posto giusto occorre tenere conto di una serie di requisiti che potremmo riassumere in: appartenenza a una famiglia politica, genere, nazionalità. Sapendo che unicamente la seconda è fissa – i negoziati sono binari, M/F senza tener conto di altre varianti – mentre le altre due si declinano in varie sfumature.

La famiglia politica, infatti, è certo quella europea (cioè i popolari del Ppe, i socialisti/socialdemocratici di S&d, i liberali/democratici e il partito del Presidente francese Macron, Alde+, e i Verdi, per citare solo i gruppi che hanno possibilità reali di giocare) ma i risultati in patria non possono essere dimenticati.

Così un candidato popolare tedesco, benché sia quello scelto per andare alla Commissione in caso di vittoria del Ppe, sconterà la magra vittoria nel suo Paese, mentre un candidato socialista olandese che abbia avuto un ottimo successo nazionale, sebbene la sua famiglia europea sia solo seconda per numero di seggi, potrebbe aspirare alla direzione dell’Esecutivo comunitario. Nel medesimo senso, un/una rappresentante dei Verdi – veri vincitori delle elezioni europee in molte realtà nazionali – avrebbe buon gioco a piazzarsi in posizioni di prestigio, nonostante il gruppo europeo d’appartenenza sia solo il quarto in termini di seggi.

Sottigliezze d’egual tenore per quanto attiene alla nazionalità. Il Presidente francese sosterrà – come è ovvio – un candidato d’oltralpe. Ma dovendo scegliere tra un Presidente della Commissione francese non del suo gruppo politico o un belga francofono e francofilo della sua famiglia europea, potrebbe essere tentato di percorrere la seconda strada alla Commissione, riservandosi la carta nazionale per altro ruolo di prestigio.

Avendo visto le – teoriche – regole del gioco, facciamo un passo indietro e definiamo gli altri parametri, facendo qualche nome.

Prima parola difficile da piazzare in ogni discussione post-elettorale: Spitzenkandidaten.

Il sistema degli Spitzenkandidaten (dal tedesco, “candidati di punta”) è stato utilizzato per la prima volta nel 2014 per nominare il Presidente della Commissione uscente, il lussemburghese Jean-Claude Juncker. Il meccanismo è semplice: la Presidenza dell’Esecutivo comunitario viene assegnata al candidato del partito politico europeo che ha ottenuto il maggior numero di seggi al Parlamento Ue. Nel 2014 Juncker era lo Spitzenkandidat del Ppe, che ottenne il maggior numero di seggi all’Europarlamento. Nato da un accordo informale tra i Capi di Stato e di governo dell’Unione, il Parlamento europeo e i gruppi politici, il sistema vorrebbe rafforzare la legittimità della Commissione, instaurando un simulacro di democrazia indiretta. I cittadini votano per un partito nazionale che si riconosce in un candidato alla Presidenza; l’insieme delle scelte degli europei contribuisce a identificare il partito europeo che ha ottenuto più voti, il cui candidato designato sarà proposto dal Consiglio al Parlamento.

Da https://www.eunews.it/2018/11/07/cose-lo-spitzenkandidat-scheda/110955

I Trattati Ue però non ne parlano. Il Trattato di Lisbona prevede solamente che il Consiglio europeo, a maggioranza qualificata, proponga all’Europarlamento un presidente della Commissione, che dovrà essere votato dalla maggioranza dei deputati per essere confermato. Il sistema piace ovviamente ai partiti politici, tanto da far adottare dal Parlamento europeo, nel febbraio del 2018, una Risoluzione in cui si afferma che il Parlamento respingerà i candidati alla presidenza della Commissione che non siano Spitzenkandidaten. Attenzione alle parole. Una risoluzione non è vincolante per nessuno, un articolo del Trattato lo è per tutti.

Martedì 28 maggio mattina c’è stato il primo incontro dei presidenti dei partiti e dei gruppi politici europei. A mezzogiorno, in sala stampa, si è sottolineato che la Risoluzione di cui sopra restava il faro per la scelta del successore di Junker. Alle 17 del medesimo giorno si sono riuniti i Capi di Stato e di governo a 100 metri in linea d’aria dal luogo dell’incontro mattutino. Mancavano pochi minuti alle 23 quando l’attuale Presidente del Consiglio, il polacco Tusk, è sceso in sala stampa per annunciare che le discussioni durante la cena confermavano la posizione del Consiglio: è il Consiglio – l’organo che riunisce i governi nazionali – che decide chi proporre al Parlamento. Essere uno Spitzenkandidat è semplicemente un parametro di cui il Consiglio terrà conto, ma non vi è automaticità…

Avete presente le tantemila tesserine del puzzle non ancora incollate? Ecco, qualcuno ha aperto la finestra e ora si ricomincia.

Perché se Manfred Weber, sconosciuto ai più ma candidato tedesco del Ppe per la Commissione, già fosse andato ad ordinare le tende per il suo nuovo ufficio, farebbe meglio a sospendere l’ordine. Quel posto gli spetterebbe secondo la logica parlamentare, ma siccome i nuovi deputati non potranno che accettare o rifiutare la proposta del Consiglio…

Chi potrebbe approfittare dell’incertezza per un periodo di negoziati che rischia di essere lungo, e andare a prendere le misure delle finestre dell’attuale ufficio di Junker è invece un tifoso della Roma che oltre che in italiano discute in francese, inglese e – ovviamente – in olandese. Parliamo dell’attuale primo vicepresidente della Commissione europea, Frans Timmermans, scelto ufficialmente al Congresso del Pse di Lisbona come candidato alla Presidenza della Commissione europea. Figlio di un archivista presso l’Ambasciata olandese a Roma, ha trascorso gli anni dell’adolescenza nella Capitale italiana, prima di entrare al ministero degli Esteri a L’Aia ed essere poi destinato all’Ambasciata olandese a Mosca. Ex ministro degli Esteri, alla Commissione si è occupato tra l’altro dei dossier scomodi, quali la preparazione della messa in stato d’accusa dei governi polacco e ungherese. Il suo partito, PdvA – partito del lavoro – ha ottenuto ottimi risultati alle elezioni olandesi, il gruppo S&d ha abbastanza seggi da essere il secondo al parlamento europeo e l’apertura del suo presidente, Udo Bullmann, a una maggioranza a quattro (Ppe, S&d, Alde+ e i Verdi) potrebbe portargli il sostegno degli ecologisti.

E se il presidente della Commissione fosse un socialista olandese, Klaas Knot – governatore della banca olandese – e candidato a una poltrona a Francoforte sarebbe fuori gioco e Macron potrebbe puntare a un francese per il posto di Draghi, magari quel François Villeroy de Galhau, governatore della Banca di Francia, che già ha sostenuto in passato.

Mario Draghi (foto Imagoeconomica)

Piazzando un socialista olandese alla Commissione e un Francese in odore di Alde+ alla Bce, restano ancora vuote le caselle “Germania”, “Parlamento”, “Consiglio” “Alto rappresentante”, “PPE” e “Verdi”; cui si aggiunge ovviamente quella “donna”. Casella per cui si fanno ormai tanti, forse troppi nomi. Perché il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk e quello francese Macron hanno promesso che delle cinque poltrone da assegnare, almeno due dovranno andare a candidate donne. Alla Commissione potrebbe andare una Danese aldina, Margrethe Vestager. Nazionalità neutra e criterio politico potenzialmente già soddisfatto, ma i Liberali – grazie all’apporto di Macron – sono la forza politica che ha ottenuto il migliore risultato in termini di aumento di seggi (seguita da Verdi e sovranisti). La Vestager ha ottima reputazione ed è stata lei ad apparire in sala stampa la notte elettorale, oltre che essere la Spitzenkandidat proprio dell’Alde+. È stata apprezzata per il suo ruolo alla Concorrenza, ha ottenuto l’appoggio esplicito del suo governo e potrebbe riscuotere a breve anche quello dei Verdi e – se dovesse andare male l’ipotesi Timmermans – potrebbe avere anche quello dei socialisti. E se invece la Francia puntasse alla Commissione, oltre a due signori decisamente di peso, quali il negoziatore capo per la Brexit, Michel Barnier (del Ppe) e il ministro dell’Economia d’oltralpe, Bruno Le Maire, Macron potrebbe anche puntare su Christine Lagarde, direttrice al momento del Fondo monetario internazionale. Anche Madame Lagarde si riconosce nel Ppe e potrebbe ovviamente concorrere anche a rimpiazzare Mario Draghi alla Banca centrale europea. Meno note ai più, ma ben presenti nella realtà brussellese due signore dell’est: l’attuale Presidente della Repubblica lituana Dalia Grybauskayté, ex commissaria europea prima alla Cultura e poi al Bilancio, e la bulgara Kristalina Georgieva, presidente ad interim della Banca Mondiale, e già commissaria europea agli Aiuti umanitari e al Bilancio. Nel mare magnum delle speculazioni attuali, entrambe potrebbero aspirare a più seggiole, compresa quella dell’Alta Rappresentante e del Consiglio.

Sarebbe indelicato terminare l’elenco senza citare la figlia di un pastore tedesco della Ddr, Angela Merkel, che benché abbia sempre negato, potrebbe così cadere in piedi dal salto nel vuoto della quasi sconfitta elettorale. Piazzata al Consiglio non sfigurererebbe di certo, così come se accettasse di occuparsi di politica estera. Una specie di diminutio, certo, rispetto al ruolo di Cancelliere, ma decisamente meglio che andare a osservare i cantieri.

Angela Merkel (foto Imagoeconomica)

Un suo ruolo al Consiglio, concordato con l’attuale Presidente Tusk, consentirebbe inoltre a quest’ultimo di tornare in Polonia a dirigere l’opposizione con qualche credito in tasca. E ai governi della vecchia Europa di togliere di torno l’ultimo dirigente di un “nuovo Paese”, mandando un messaggio forte ai compagni di merende di Visegrad: “Sin che continuate a voler giocare con regole vostre… scordatevi la chiave di una delle stanze dei bottoni!”

A proposito di merende. L’amico del “Ministro al selfie col cibo”, quello che lo ha portato sulla torretta a giocare col binocolo e ha malgrado tutto ottenuto quasi il 53% dei suffragi, occupa oggi un caldo posticino nel Ppe. Benché attualmente “sospeso” dal Gruppo dei popolari, Orban resta saldamente alla guida di Fidesz, movimento che (in attesa dei risultati definitivi) è il quarto partito del Ppe in termini numerici. Il che vuol dire bei soldini per organizzare eventi, le sale più belle al Parlamento europeo, maggiori possibilità di occuparsi di rapporti legislativi di peso e tutta una serie di piccoli vantaggi veniali che non sono trascurabili per chi interpreta la politica con una visione econometrica (no, non senso nobile della scienza economica, nel senso di uno che misura al centimetro i benefici economici). Una delle questioni che pare ora definitivamente chiusa – ma “mai dire mai” in epoca di trattative – riguarda proprio il futuro di Orban.

Cederà al canto della sirena salviniana e raggiungerà il sodale tra i duri del gruppo “Europa delle Nazioni e della Libertà” o resterà, come annunciato, tra i popolari? Dilemma corneliano invero, perché alla bellezza di “andare a casa” tra i sovranisti, si contrappone il fatto che ogni seggio sottratto al Ppe fa aumentare il peso dei socialisti, che l’Enl conta “come il due di coppe quando la briscola è di bastoni” – essendo il terzultimo gruppo dell’Assemblea europea se non si contano i non iscritti – e che di “omo de panza” i nazionalisti libertari ne hanno già uno. Che non dovrebbe mai farsi vedere dalle parti dell’Emiciclo (visto che negli ultimi 15 anni è apparso per farsi dare del “fannullone” dal deputato italo-belga Marc Tarabella in plenaria e per firmare qualche foglietto per i gettoni di presenza), ma che resterebbe un peso importante. E chi sognerebbe di dover vivere sotto il peso di Salvini? Lasciando perdere la sindrome di Di Maio, ovviamente.

Abbandonando Orban nel Ppe quindi, la Lega nell’Enl a far compagnia al Kaczyński rimasto e alla bionda Le Pen, i Conservatori nel loro club esclusivo in cui hanno dichiarato non voler estremisti come l’Afd tedesco e i 5stelle, al momento ancora nel gruppo de l’Europa della Libertà e della Democrazia diretta, abbiamo fatto il giro della destra della Plenaria.

Riassumendo in pochi caratteri due elementi importanti del risultato elettorale.

Sì, Marine Le Pen ha vinto in Francia, sì il partito di destra PiS ha vinto in Polonia, sì Fidesz ha fatto la stessa cosa in Ungheria. Come il Vlaams Belang – erede del disciolto Block, razzista, antisemita e xenofobo – ha trionfato nelle Fiandre e Hdz – partito di destra croato – lo ha fatto in una nazione in cui si ricomincia ad esaltare il ruolo degli ùstascia. E ovviamente la Lega si è portata a casa un 34% di peso.

Una pubblicità di chiara impronta discriminatoria del Vlaams Belang

Ma il Fronte antifascista ha tenuto. Mai affluenza fu più alta negli ultimi 20 anni – Italia esclusa – e gli europei hanno scritto, nel complesso, che continuavano ad avere fiducia in un Europa unita.

Da cambiare, da rendere più verde, meno attenta alla protezione della finanza e più a quella del cittadino, ma unita. La somma dei seggi di tutti i gruppi di destra – volendo addirittura includere il Movimento 5stelle nel novero, forzatura statistica perché i dati mostrano che nella scorsa legislatura i pentastellati hanno votato il 68% delle volte come i socialisti – è di 175 seggi. Un 23% che nemmeno sommato alla folle ipotesi di popolari che decidano di spostarsi a destra consentirebbe loro di governare il Parlamento europeo. Neanche un quarto dell’Emiciclo, troppo per un’Europa che tanto ha già pagato grazie all’affermarsi di idee nazionaliste, sovraniste, egoiste, ma certo non un risultato che consenta a chiunque si affacci ad un balcone di pensare seriamente che “ora le cosa cambieranno come diciamo noi”.

Anche perché quel “noi” si dissolve in rigagnoli identitari inconciliabili. Se per gli austriaci dell’Fpö vengono per primi, appunto, gli austriaci e per Fidesz l’importante è mettere sul podio gli ungheresi, o la destra inventa un nuovo accrocchio in cui riescano a stare tutti sul gradino più alto – e saremmo curiosi di vederlo – o, come già dimostrato proprio a scapito dei conti italiani, ognuno coltiva il proprio orticello. E martedì 9 luglio, il concetto rischia di essere ribadito con forza. Quel giorno s’incontrano a Bruxelles i ministri economici dell’UE (la famosa riunione Ecofin) e poiché alla storia dei burocrati cattivi ci crede solo chi vuole, saranno proprio i ministri a pronunciarsi, tra l’altro, sulle scelte economiche del governo italiano. Ovvero l’allegra combriccola dei nazionalisti del “prima gli” sarà chiamata a decidere se le proposte di un membro del club siano accettabili o meno. E temiamo di conoscere già la risposta.

Proprio la “considerazione” dell’Italia è il secondo elemento del post-elezioni.

V’era un tempo in cui si ricordava il nostro Paese come uno dei sei fondatori. Poi vennero le corna, le battute sui kapò, le ripetute assenze dei nostri ministri alle riunioni di Consiglio perché troppo impegnati nella campagna per le primarie di un partito o nella campagna elettorale di qualche comune. Vennero i “me ne frego” agli impegni assunti dai governi precedenti, l’incapacità di prendere una posizione su un argomento qualsiasi e di mantenerla per 12 minuti di seguito, i pugni sul tavolo e i riccattini del 40% per imporsi ed ottenere un incarico tanto nobile quando tristemente inutile come quello dell’Alta Rappresentante per la politica estera comune, che ha fatto un lavoro di gran livello ma d’utilità marginale prossima allo zero.

Arrivò chi decise di cambiare ambasciatore presso la UE ogni tre mesi – alla faccia della continuità e della costruzione di relazioni stabili – e poi chi o non veniva proprio o se veniva saltava addirittura le tradizionali conferenze stampa del dopo Consiglio. Mettendosi in un angolo della foto di gruppo, morettianamente intento a domandarsi se lo si notava di più se veniva e se ne stava in disparte o se non veniva per niente. Insomma, cominciò un periodo in cui l’Europa non era più solo il tradizionale capro espiatorio per ogni malefatta, ma veniva derisa, offesa, trascurata. E tra i tanti, tantissimi difetti di cui soffre l’Unione europea, il masochismo e la sindrome di Stoccolma non compaiono.

Il governo italiano (foto Imagoeconomica)

Quindi no, pensare d’aver insultato Bruxelles, chi lì lavora, i partner europei e poi pensare che con un rispettabilissimo 4,7% (tanto ha preso la Lega in termini europei, secondo i dati disponibili) si detti legge, diciamo – per usare un eufemismo – pare una sciocchezzuola.

Pur non conoscendo i candidati che il governo italiano porterà ai vari tavoli di negoziato, l’ipotesi che anche uno solo dei tre posti su cinque che occupiamo oggi sia riassegnato a un connazionale pare realmente remota. Partivamo con il vantaggio del campo, siamo uno dei fondatori, uno dei più grandi. Usando la metafora iniziale, di quel puzzle noi conoscevamo non solo un gran pezzo dell’immagine da riprodurre, ma avevamo anche importanti indizi empirici per saper riconoscere le cinque tessere tra le migliaia sul tavolo. Ma all’assemblaggio stiamo partecipando con una benda sugli occhi, una mano legata dietro la schiena e l’altra in un guanto da cucina, seduti su una sedia girevole a cui ogni nostro concorrente da un colpetto di tanto in tanto. E probabilmente, a un certo punto, ci allontaneranno proprio dal tavolo, come ha appena fatto il Ppe, che ha eletto il suo capogruppo e i 10 vice. Come previsto, nessun Italiano. E come sta facendo S&D, gruppo di cui gli Italiani erano una delle delegazioni più numerose, tanto da esprimerne il Presidente, Gianni Pittella, sino al suo ritorno in Italia come senatore. In queste ore i Socialdemocratici decidono il prossimo capogruppo scegliendo tra due candidati, una Spagnola ed un Tedesco. Gli Italiani? Non pervenuti.

La Lega è all’opposizione e il Movimento 5 Stelle pare non aver nemmeno ancora trovato una famiglia politica europea, perché quasi tutti i partiti che componevano il gruppo de l’Europa delle Libertà e della Democrazia Diretta (Efdd) non sono neppure riusciti a entrare in Parlamento. Sono rimaste a casa le due liste dei gilet gialli francesi, i nazionalisti polacchi di Kukiz, gli alleati finlandesi di Liike Nyt ed il partito “agricolo” greco. Il Movimento potrebbe cercare l’alleanza con i croati anti-establishment di Živi Zid (Scudo Umano), che partendo da un onorevole 15% sono precipitati al 5,66 e con Nigel Farage, leader del nuovo Brexit Party. Rimangono però due problemini: l’indipendentista Nigel ha in tasca un biglietto di ritorno per Londra, che potrebbe usare già il 31 ottobre – data probabile della Brexit – e mancherebbero comunque altri cinque partiti da raccattare fra i Non iscritti e gli indipendenti.

Insomma, le cinque tessere restano al momento ai bordi del tavolo ed è ormai certo che nessuna di esse reca il Tricolore sul retro.

Filippo Giuffrida, presidente Anpi Belgio e vicepresidente Fir