Riferendoci al tragico lascito dell’8 settembre 1943, ci sono molti aspetti politici da considerare. Tuttavia ce n’è anche uno di ordine militare, altrimenti spesso trascurato. Partiamo quindi da quest’ultimo, per poi argomentare meglio anche gli altri. In quanto si parla sempre più spesso di guerre, poi di Resistenza e infine di lotta di Liberazione senza tenere in conto che si tratta di tre fenomeni al medesimo tempo politicamente distinti così come anche, al riscontro dei fatti, uniti dal prevalere della contrapposizione armata. A oggi, simuliamo tutti una falsa concordia sulla necessità di fare a meno del conflitto bellico, dichiarandoci aprioristicamente contrari a ogni ricorso alla violenza fisica. Ma nella storia recente, se non nel nostro stesso presente, quest’ultima rimane ineludibile dinanzi alla capacità che riesce a esercitare nel piegare l’altrui volontà. Anche per questa ragione, quindi per capire il significato dell’8 settembre, è necessario definirne la reale portata, ovvero i suoi effetti di lungo periodo che, come tali, giungono fino a oggi. Comprendere implica pertanto conoscere. Veniamo quindi al dunque e al concatenarsi dei processi.
La gravissima crisi della tarda estate del 1943, con la trasformazione dell’Italia in un teatro di guerra (10 luglio), la caduta del regime fascista (25 luglio), il tracollo delle Forze armate e la divisione in due del territorio nazionale, fu abbondantemente annunciata dagli eventi accaduti dall’autunno dell’anno precedente in poi. La perdita dell’Africa settentrionale, poi del residuo controllo nel Mediterraneo, la sconfitta in Russia, la compartecipazione oramai esclusivamente subalterna alle operazioni tedesche, così come – più in generale – una mancanza di obiettivi autonomi a fronte del crescente malumore popolare e della ripresa delle opposizioni politiche, ancorché clandestine, decretarono il veloce declino di ciò che restava del Ventennio fascista. La guerra continuava comunque a oltranza poiché non c’erano alternative alla resa. L’esplicita intransigenza degli anglo-americani non concedeva scorciatoie o mediazioni di sorta. La dissociazione tra le responsabilità di Mussolini e dei gruppi dirigenti dei centri di potere non fascisti avviò quindi le procedure di un divorzio che risultava comunque oneroso. A pagare i costi sarebbe stata, ancora una volta, la popolazione italiana.
All’esercito, in stretto rapporto con la Corona, tra il 25 luglio e l’8 settembre, venne assegnato il ruolo di garante dell’ordine interno, come già peraltro era avvenuto nel passato. Mentre la marina e l’aeronautica rimanevano sostanzialmente sullo sfondo del dramma che si stava consumando, il generale Mario Roatta, Capo di Stato maggiore dell’esercito, e il suo collega Vittorio Ambrosio, Capo di Stato maggiore generale, gestirono insieme al sovrano il transito verso un sistema amministrativo e istituzionale a-fascista qual era quello che si generò con il colpo di mano del 25 luglio 1943.
La struttura territoriale metropolitana delle Forze Armate era ancora efficiente, quanto meno in grado di garantire il servizio interno di ordine pubblico. Le disposizioni emanate da Roatta, nei giorni immediatamente successivi all’arresto di Mussolini (sempre il 25 di luglio), testimoniavano chiaramente che alla base del processo di transizione vi era la netta determinazione a fare in modo che la situazione interna non sfuggisse al controllo sistematico dell’Esercito, anche a rischio di violente repressioni nei confronti delle manifestazioni popolari. Con nitida perentorietà, a partire da un linguaggio durissimo, non a caso si definiva il nuovo ruolo della truppa metropolitana: reprimere i “perturbatori” passandoli per le armi poiché davanti alle proteste “non è ammesso il tiro in aria; si tira sempre a colpire come in combattimento”.
L’8 settembre del 1943, all’atto dell’ufficializzazione dell’armistizio, firmato riservatamente cinque giorni prima con le forze Alleate, quel che restava dell’Italia in guerra crollò. Con essa si sfasciò anche buona parte del circuito amministrativo ed istituzionale del Paese. Se il 25 luglio il regime mussoliniano era stato liquidato tuttavia la permanenza nel conflitto, così come l’alleanza con Berlino, non erano state fino ad allora messe in discussione. Quanto meno non ufficialmente, la situazione sul campo delle forze armate italiane era peraltro difficilissima. Gli anglo-americani erano sbarcati in Sicilia il 10 luglio, dopo essersi assicurati il pieno controllo del Mediterraneo. Avevano quindi iniziato a risalire la Penisola. A opporvisi erano perlopiù le truppe tedesche, meglio armate e organizzate. Il Terzo Reich, andando già da tempo presagendo la possibilità di un “tradimento” italiano, aveva infatti fortemente rafforzato il suo presidio armato nella Penisola, affidando ad esso la duplice funzione di contrapporsi all’invasione nemica e di assumere il controllo dei nodi strategici del territorio appartenente al pencolante alleato.
La catastrofe dell’8 settembre, tanto repentina nel suo svolgersi quanto generata dal lungo sommarsi di elementi che stavano congiurando contro la tenuta del Paese nel suo insieme, coinvolse quindi tutta la società italiana. Fu enfatizzata, nei suoi drammatici effetti, dalla grandissima dispersione delle Forze armate, dalla sostanziale inefficienza dei reparti come dalla scarsità cronica di armamenti, di mezzi di trasporto e di comunicazione.
Su tutto, però, dominava la mancanza totale di una strategia politica, e quindi militare, che indicasse il da farsi dinanzi al violento mutamento di scenario. Dal 1940 circa quattro milioni e mezzo di uomini erano stati chiamati alle armi. Nella tarda estate del 1943 gli effettivi ammontavano a tre milioni e mezzo, comprendendovi anche la milizia fascista così come i feriti, i prigionieri, gli invalidi, i dispersi. Sul territorio peninsulare stazionavano due milioni di fanti, avieri e marinai mentre 650mila erano dislocati nei Balcani e circa 200mila tra la Francia meridionale e la Corsica. Di questo elevato numero di militari, perlopiù posti a presidio permanente delle aree metropolitane e di quelle occupate (quindi non in ruoli di guerra di movimento), la forza operativa, in grado di combattere, non riusciva a superare le dieci divisioni, pari a circa il 3-4% del totale degli incorporati in una qualche formazione armata. Si trattava comunque di reparti molto al di sotto degli standard tedeschi. Il resto era distribuito o relegato nelle innumerevoli funzioni amministrative, burocratiche, logistiche che accompagnavano un esercito elefantiaco, qual era quello italiano, ma privo di risorse e autonomia.
Ne derivò che l’Italia non fosse in grado di difendersi, ancor meno dall’oramai ex alleato. Il quale, nell’agosto del 1943, avevano di fatto già silenziosamente provveduto a occupare la Penisola, dando corso all’operazione Achse (Asse). Mentre otto divisioni germaniche erano impegnate a combattere direttamente contro gli anglo-americani nel Sud d’Italia, altre otto venivano invece attestate nelle regioni centro-settentrionali. Nell’Egeo le forze italiane, nel mentre, erano state integrate, e poste sotto indiretto controllo, da reparti tedeschi.
L’8 settembre, dopo l’annuncio alle 17,30 da parte del generale Eisenhower, a Radio Algeri, della firma dell’armistizio e la successiva, riluttante e tentennante dichiarazione del maresciallo Badoglio, l’allora capo di governo, dove si confermava la cessazione dell’ “impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria”, il castello di carte crollò impietosamente. Alle truppe italiane fu detto, con linguaggio contorto e anodino, che esse avrebbero dovuto reagire “a eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza”. Ogni reparto rispose, in assenza di comunicazioni superiori e – soprattutto – di chiare direttive, così come poteva. La maggior parte dei soldati italiani stanziati nella nostra penisola sbandò quasi da subito, a fronte dell’immediata defezione degli alti comandi.
Fuori dall’Italia si trovavano ben quattro armate. Incorporati tra queste c’erano 674.400 uomini disseminati nei Balcani. Superiori di numero ai tedeschi ma di molto inferiori di mezzi e, soprattutto, difettanti di indicazioni operative, nonché di mediocre preparazione, si trovarono quindi a subire il peso più eclatante della risposta nazista. Ognuno dovette scegliere alla cieca, confidando, laddove possibile, sulla parola dei diretti superiori. Spesso mancò anche quest’ultima. La vicinanza alle truppe tedesche fu per molti decisiva, poiché queste, già preparate alle circostanze, provvidero da subito a disarmare e a concentrare gli italiani. Laddove vi fu Resistenza, come a Cefalonia e nell’Egeo, la rappresaglia fu immediata e implacabile.
Nel volgere di poco meno di una settimana 1.006.780 uomini furono fatti prigionieri dall’ex alleato, dei due milioni che risultavano effettivamente incorporati nei diversi reparti delle Forze armate italiane. Ad essere colpita fu soprattutto quella che doveva costituire la forza combattente, come tale attestata nei punti nevralgici. Si calcola che 196mila militari, una volta imprigionati, riuscissero comunque a sfuggire alla deportazione. Della parte restante (ovvero 430mila prigionieri dai Balcani, perlopiù componenti delle II, X e XI armata, 321mila dall’Italia e 58mila dalla Provenza francese, dove stazionava la IV armata), 13.300 di essi persero la vita mentre circa 90mila, tra i quali i membri della milizia volontaria per la sicurezza nazionale, scelsero di restare a fianco dei tedeschi.
Rimaneva quindi una cospicua massa residua di uomini, ora in mano alla Germania. Di questi, 710mila furono deportati nel Terzo Reich e nella Polonia occupata con lo status di “Italienische Militär-Internierte” (poi conosciuti con l’acronimo di Imi) e 20mila con quello di “prigionieri di guerra”, tali poiché catturati in quanto già combattenti contro i tedeschi. Le disposizioni tedesche sul trattamento dei militari italiani, come anche della stessa milizia fascista, nel caso di un’uscita del Paese dalla guerra, datavano peraltro, con calcolabile preveggenza, al 28 luglio 1943. Esse prevedevano il disarmo sistematico e l’imprigionamento collettivo dei nostri militari. L’8 settembre, mentre la tragedia si consumava, il Comando supremo dell’esercito tedesco, statuiva, nell’ambito del “disposto dissolvimento” del Regio esercito, l’internamento a tempo indeterminato dei suoi componenti. Nei giorni successivi, in una serie di direttive di chiarificazione, i tedeschi stabilirono che «i soldati italiani che non siano disposti a continuare la lotta al fianco dei tedeschi devono essere disarmati e considerati quali prigionieri di guerra». Il 20 settembre Hitler in persona dispose che tali prigionieri militari dovessero essere denominati come “Internati militari italiani”. Per capirci: lo status di “internato militare” era riconosciuto dal diritto internazionale, ma non era incorporato nella Convenzione di Ginevra del 1929, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra. Era quindi valido solo se applicato ai militari e ai civili di uno Stato combattente trattenuti e privati della loro libertà in un Paese neutrale. Oppure, se applicato a quei cittadini di uno Stato neutrale rispetto a quello belligerante che, come tali, avessero nel mentre assunto comportamenti ostili.
Con la violazione delle norme che regolavano la condotta nei confronti dei prigionieri, si privavano gli italiani delle tutele previste dalle leggi internazionali sottoscritte dagli stessi tedeschi. Ne derivò da subito che gli Imi non fossero tutelati dagli accordi internazionali sui prigionieri di guerra, divenendo così “massa grigia” a disposizione delle autorità germaniche. Lo statuto giuridico e, di riflesso, la condizione materiale degli internati militari italiani fu quindi immediatamente contrassegnata da una profonda incertezza giuridica, ponendoli di fatto alla mercé dei loro secondini. L’arbitrio divenne così la regola.
I militari italiani che rifiutarono di continuare a combattere una guerra feroce, disperata e criminale a fianco dei tedeschi furono tra i 600mila e i 650mila. Lo fecero per più motivazioni, per nulla riassumibili dietro ad un qualche esclusivo paravento ideologico, Non erano “fascisti”, nel mentre opportunisticamente sarebbero divenuti invece “antifascisti”. Semmai, costituivano una sorta di avanguardia del disincanto che, dopo vent’anni di regime, cercava da sé, a modo suo proprio, un percorso di sopravvivenza. Altri 103mila, entro la metà del 1944 (dopo un durissimo inverno di prigionia, vissuto nel freddo e tra gli stenti), si dichiararono invece disposti a svolgere servizio armato o ad assumere un ruolo ausiliario, in qualità soprattutto di lavoratori, nelle fila della Repubblica sociale italiana quindi per la Germania. Per la gran massa dei «refrattari», ritenuti e trattati di fatto oramai alla stregua di nemici, si erano invece già aperte le porte dei campi di prigionia in Germania e nei territori occupati. Per i soldati e i sottufficiali si trattava degli Stammlager (Stalag); per gli ufficiali gli Offizierslager (Oflag); per i più “pericolosi” gli Straflager, i campi di punizione, quelli di rieducazione al lavoro e gli insediamenti dipendenti dai campi di concentramento, le Konzentrationszone. A essi si aggiungevano le singole dipendenze operative degli Stalag, gli Arbeitskommando. Una ramificazione di strutture concentrazionarie, che si affiancava, sia pure con funzioni del tutto a sé stanti, ai campi di concentramento e di sterminio per i politici, gli ebrei e i “nemici del Reich” hitleriano.
In che cosa consistesse la prigionia dei militari italiani è presto detto. Se il dichiarato obiettivo tedesco era quello di liberarsi dall’impedimento – altrimenti rigorosamente sancito dai codici internazionali – di potere costringere i prigionieri di guerra a prestare collaborazione alla potenza nemica, soprattutto con il proprio lavoro, di fatto ciò si tradusse in un regime di internamento durissimo e nell’obbligo all’impiego coatto. Molti Imi furono utilizzati senza risparmio nel gigantesco circuito economico, di natura bellica, della Germania nazista. La vita quotidiana nei luoghi di prigionia era peraltro ai limiti dell’insostenibilità. Alle gratuite vessazioni dei secondini si sommavano la fame persistente e ossessiva, causata da un’alimentazione spesso volutamente al di sotto della soglia minima della sopravvivenza, l’isolamento e le continue punizioni, la difficoltà di riscaldarsi nei mesi freddi. In altre parole, la conseguente debilitazione fisica e la demoralizzazione che accompagnava la prigionia dei tanti. Su tutti i prigionieri pesavano poi fattori molteplici: la distanza dalla madrepatria, la quasi impossibilità di comunicare con i propri congiunti, la mancata protezione delle autorità della Repubblica sociale italiana (il primo treno di aiuti partì da Milano solo nel giugno 1944), l’impossibilità per la Croce rossa di intervenire a loro favore, l’indifferenza internazionale, la perdita di status morale e civile che si accompagnava all’internamento non come prigionieri militari bensì come “traditori”, che avrebbero rivelato il loro vero volto con il voltafaccia dell’armistizio.
L’esperienza dell’internamento dei militari italiani era condizionata anche dal fatto che essi costituissero uomini di uno Stato, sia pure a sovranità limitata, che era ancora alleato del Terzo Reich, ossia la Repubblica di Salò. Nel medesimo tempo, dinanzi alla possibilità di optare per il prosieguo della guerra a fianco di Berlino, il fatto che avessero detto chiaramente di no alla cobelligeranza costituiva un atto di lesa maestà nei confronti del generoso “camerata germanico”. Anche da ciò derivò quindi quel sovrappiù di ferocia, la sistematica e gratuita violenza, il trattamento deliberatamente disumano che dovevano quindi subire. Il regime nazista li obbligò così al lavoro coatto e punì duramente quanti si rifiutavano di adempiere alle corvée degradanti. Gli ufficiali furono separati dai sottufficiali e dalla truppa. I primi vennero bersagliati dalla propaganda dell’esangue Repubblica sociale italiana, nella speranza, mal riposta, che aderissero al suo “fraterno richiamo”. Dinanzi al persistere del diniego, fu adottato il sistema dello sfiancamento per fame, stenti, inedia, freddo e privazione delle restanti vestigia di ruolo. Una dolorosa e sofferta inattività avrebbe dovuto piegarli, questo almeno nelle intenzioni dei carcerieri.
I soldati – invece – vennero impiegati per il lavoro bruto, dentro e fuori i luoghi di prigionia. Il disprezzo ideologico tedesco si tramutava spesso in avversione razzista contro i “porci badogliani”, i “macaroni” da schiacciare con la sferza dello sfruttamento dissennato. Il campo di prigionia, allora, diventava il luogo dove si riparava di sera, dopo un’insopportabile giornata di lavoro, a lenire la fatica e ad addomesticare la fame. Almeno 50mila Imi perirono nell’universo concentrazionario, uccisi perlopiù dalle malattie, dalla denutrizione, dalle violenze, per via delle sevizie ma anche dalle armi dei carcerieri. Sul destino di questi “refrattari”, doppiamente guardati con sospetto dai tedeschi, poiché prima traditori dell’Asse e poi ingrati, non disposti a tornare a combattere, il Terzo Reich fece quindi diversi calcoli di interesse, trattandosi di manodopera comunque appetibile. Nella tarda estate del 1944, dopo tergiversazioni diplomatiche (la Rsi chiedeva il mutamento di status degli Imi in “lavoratori civili”), fu pertanto stabilito dal comando dell’esercito tedesco che tutti i militari italiani, con l’eccezione degli ufficiali di carriera e dei prigionieri politicamente inaffidabili, fossero “liberati” dai campi, per diventare lavoratori civili, anche in assenza della loro disponibilità in tal senso. Non si trattava di un atto di benevolenza ma di una calcolata manovra per meglio proseguirne nello sfruttamento dissennato, mentre la Germania si stava avviando al crollo.
Con il gennaio del 1945, infine, anche agli ufficiali venne imposto il vincolo forzoso di tramutarsi in manodopera civile. Non era una concessione affettuosa: semmai, nell’implacabile codice nazionalsocialista, corrispondeva ad una degradazione ulteriore di ciò che umanamente restava del vecchio e anacronistico Regio Esercito, i cui inaffidabili (poiché poco o nulla fascisti) elementi erano ricondotti, al pari degli “slavi” e dei cosiddetti “popoli inferiori” (ad eccezione degli ebrei, altrimenti destinati a essere completamente annientati), alla condizione di perenne schiavitù.
La quasi totalità degli Imi non nutriva peraltro una precisa coscienza politica. Ufficiali, sottufficiali e soldati, perlopiù giovani, erano infatti cresciuti sotto il fascismo, di cui avevano spesso fatto propri i moventi culturali e ideologici, con maggiore o minore convinzione a seconda delle singole persone. In questo erano cittadini del loro tempo. Il contatto con la guerra, tuttavia, aveva già alimentato, almeno in alcuni di loro, il dubbio sulla liceità morale della violenza e, quindi, sull’accettabilità politica del fascismo stesso. Lo sfascio seguito all’8 settembre e l’unico, vero tradimento che si era consumato in quei tragici giorni, quello delle élite e delle istituzioni, monarchiche e non, solo verso la collettività popolare, si accompagnò quindi al dramma della prigionia. Da ciò, dal confronto individuale e collettivo con la miseria della condizione in cui erano stati precipitati e poi abbandonati, ma anche dallo scambio di idee con i propri pari, germinò il rifiuto di accettare le condizioni dettate dai nazisti e dal fascismo repubblicano. Il diniego di molti ufficiali fu tanto più importante nella misura in cui influenzò (e legittimò) la riottosità dei soldati verso le richieste tedesche.
Claudio Vercelli, storico, Università cattolica del Sacro Cuore, Istituto di studi storici Salvemini (Fine prima parte. L’articolo prende spunto tra le altre fonti dal volume del medesimo autore intitolato Soldati. Storia dell’esercito italiano, Laterza, Roma-Bari 2019.)
Pubblicato domenica 3 Settembre 2023
Stampato il 14/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/longform/quel-che-resta-dell8-settembre-ottanta-anni-dopo/