La “questione giovanile” oggi, sulla quale, nella recente assise di Acqui Terme, ha sollecitato, con accorato giudizio, il massimo di attenzione la presidente Carla Nespolo ha, nel nostro attuale Occidente, una dimensione critica altrettanto enorme della “questione senile” che va diventando sempre più evidente in conseguenza di quanto sta accadendo con la decrescita delle nascite e con il vistoso innalzamento dell’età media dei viventi e con il contestuale fenomeno di invecchiamento delle società; un fenomeno solo parzialmente compensato dall’afflusso di giovani e di famiglie prolifiche sull’onda delle continue migrazioni da Paesi ad alto tasso di crescita demografica.
Entrambe le questioni sono parti integranti (e rischiano sempre più di diventare parti conflittuali) della grande rivoluzione strutturale che è in corso per lo meno dagli anni Ottanta del secolo scorso, segnata da un’alleanza organica tra la tecnologia e il capitalismo globalizzato, rivoluzione di cui si tarda ancora ad avere chiara e distinta consapevolezza.
Le generazioni anziane (direi tutte in vario grado, quali che siano i loro riferimenti culturali e politici) che sopravvivono intrecciandosi con quelle emergenti del nuovo millennio lamentano, rilevandola talvolta come insuperabile o soltanto superabile in modo superficiale ed inefficace, la difficoltà di trasmettere ai giovani il loro patrimonio di valori civili, le loro consolidate e vissute idealità. Hanno da prendere atto, talvolta con struggente amarezza, del fenomeno incalzante di una rottura dei tradizionali meccanismi di trasmissione generazionale dei valori, una trasmissione che avveniva sul filo di una cultura condivisa capace di dar senso e prospettive al presente riconoscendone e valorizzandone l’attualità in un organico rapporto di continuità con il passato ovvero assumendone e perpetuandone l’eredità storico-civile (tanto per intenderci, l’eredità di cui è alta testimonianza il carme foscoliano sui Sepolcri di Santa Croce; ma anche quella, “attiva” nella coscienza e nell’azione, di cui si ritenevano ancora depositari i giovani degli anni Sessanta – fin dalla mobilitazione di massa contro il tentativo autoritario del governo Tambroni e poco dopo nel movimento sessantottino – nei confronti dei padri e dei fratelli maggiori che in un recente passato avevano fatto la Resistenza e combattuto la guerra di Liberazione).
Ora, se è vero che tutte le interpretazioni possibili circa i processi storico-sociali che sono all’origine dell’interruzione della suddetta trasmissione generazionale sono temi che appartengono soprattutto alla riflessione elitaria degli “intellettuali” (in specie di storici, filosofi e sociologi), è pur vero che gli effetti negativi di tali processi, sempre più vistosamente in atto, sono ormai percepiti ai più diversi livelli della società; persino da ogni comune cittadino che si trovi a valutare il rapporto tra i suoi figli e la comune tradizione familiare: un rapporto che è spesso un non-rapporto, un estraniamento, se non un rifiuto almeno un distanziamento quasi esibito; un atteggiamento ben diverso da quello dei giovani sessantottini che magari “contestavano” i padri, ma accusandoli di non essere stati all’altezza dei loro stessi valori (la laicità del pensiero democratico-antifascista, le virtù liberatorie dei diritti civili ancora da conquistare, la giustizia sociale, la parità di genere, ecc.) e di averli elusi o traditi.
In condizioni del genere, oggi avanza la sensazione di non aver più una qualche eredità da trasmettere. Ed è una sensazione particolarmente drammatica per le sopravviventi componenti delle generazioni formatesi con maggiore o minore consapevolezza e capacità militante nella cultura repubblicana dell’antifascismo dinanzi al fenomeno inatteso di masse giovanili – in Polonia, in Ucraina, in Ungheria, ma anche in Germania, in Italia e in varie altre parti d’Europa – che con gesti, parole, immagini, divise e truci simboli riesumati da una barbarie nazifascista di cui non hanno adeguata conoscenza storica, e neanche una qualche autentica e stabile consapevolezza ideologica, vocianti e irruente manifestano, si potrebbe dire, nient’altro che il loro vuoto di valori e di ideali, il loro stesso sradicamento che li sollecita ad un indeterminato impeto di rivolta contro tutti gli establishment, ad una generica rabbia sociale, senza strategie, di cui approfittano i demagoghi del momento. Nel complesso, la confusa fenomenologia comprende una molteplicità di spinte emozionali ad una sorta di bullismo parapolitico che tende ad inventarsi i suoi “nemici” e, non avendone altri più credibili a disposizione, li individua soprattutto negli immigrati e nei “diversi” per religione o colore della pelle, riesumando il razzismo e, non ultimo, persino l’antisemitismo.
Questa, appena delineata, è la parte più angosciante del quadro descrittivo di quanto sta accadendo nell’orizzonte delle generazioni emergenti, in uno con quel globale fenomeno di disgregazione dei nessi sociali e delle lealtà morali che Zigmunt Bauman, in fortunati saggi, ha riassunto nel concetto di “società liquida”. E poco ancora soccorre ai fini di un superamento dell’angoscia avvertita soprattutto dagli anziani il fatto che nel medesimo quadro siano inscrivibili taluni positivi fenomeni di massa di segno opposto, per quanto di analoga natura emozionale, di cui sono molto incerti la stabilità, l’efficacia reale e il radicamento dopo un’estemporanea e vistosa esplosione mondiale, fenomeni incoraggianti come quello per la difesa della natura e del pianeta promosso dalla piccola Greta Thunberg e come l’altro più recente delle cosiddette sardine.
Quel che, infatti, tarpa le ali ad ogni ottimismo è l’aver inquietantemente presente l’egemonia (nel senso proprio gramsciano) che il capitalismo globalizzato si è assicurato dopo il fatale 1989 e soprattutto dopo la sua vittoria nella guerra fredda con il “socialismo reale”. È parte integrante di questa egemonia, fondata sull’alleanza tra il capitale finanziario e la tecnologia, un’ideologia, quasi una “religione”, che tende ad inglobare le promesse del futuro, date sempre come già potenzialmente realizzate, in un eterno presente che non ha bisogno del passato e anzi lo rifiuta, ritenendolo ormai definitivamente superato e inservibile. In siffatte condizioni, obnubilamento della memoria e crisi e stravolgimento del senso della “democrazia” sono non proprio delle patologie, ma effetti quasi fisiologici dell’andamento sociale. Se ne produce un portato ideologico sottilmente collegato alla cultura a-dialettica e antistorica della tecnologia, che incide gravemente sulla mentalità della gran parte del mondo giovanile. E, d’altra parte, di fronte ad esso, gli anziani hanno largamente perduto credibilità ed autorevolezza per effetto dei loro errori e dei loro drammi irrisolti e soprattutto dei loro fallimenti storici nel trascorso XX secolo. Ci sarebbe anche da rilevare che, forse, almeno dagli anni Ottanta in poi, e non soltanto in Italia – nell’orizzonte dell’eudemonismo delle utilità e dei bisogni sospinti dalle suggestioni dei “mercati” – si è quasi annullata l’elaborazione di nuovi valori civili da trasmettere, mentre quelli elaborati dalle generazioni precedenti hanno subito la tendenza a cristallizzarsi, ad oscurarsi e ad esaurire la loro carica propulsiva.
Ma adesso cedere al pessimismo e prendere atto di una realtà inquietante senza porsi la questione di come superarla positivamente, sarebbe come rassegnarsi a consegnare il corso della grande rivoluzione che stiamo vivendo (che, con tutte le sue oscurità, complicazioni e contraddizioni è comunque una marcia in avanti) all’avvenire di una gigantesca catastrofe per l’umanità. Occorre, invece, che le forze consapevoli dei pericoli che incombono lottino per introdurre e vivificare proprio nei processi stessi di questa rivoluzione delle tensioni positive affinché i suoi esiti possano essere l’opposto di quelli che oggi sono sensatamente paventati: una lotta, è da sottolineare, non una semplice, difensiva resistenza. In proposito, sarebbe vano sperare nell’efficacia di una mera pedagogia delle esortazioni al mondo giovanile, di per sé pedanti e di assai facile degenerazione in un’inefficace, e un po’ grottesca, retorica moraleggiante: poco o niente serve agli anziani proporre ai giovani le Bibbie della loro nostalgia del passato.
Si tratta, piuttosto, di riattivare in un organico rapporto tra anziani e giovani, la dinamica dell’elaborazione innovativa e della trasmissione generazionale di valori civili, all’interno, non contro la rivoluzione in corso che, per sua natura deve fare comunque il suo corso, sicché sarebbe ingenuamente reazionario voler tentare di impedirne gli sviluppi. Come questo possa farsi concretamente al di là degli auspici, fronteggiando un’ostile egemonia, è una questione non risolvibile in linea teorica ma da sperimentare empiricamente navigando a vista nella pratica della lotta, orientata comunque a disgregare tale avversa egemonia. In particolare, le forze attive della cultura antifascista hanno, in questa lotta, il privilegio di poter rilanciare a tutto campo con sperabili effetti molecolari ed espansivi l’antifascismo, non tanto come testimonianza di generazioni che per motivi anagrafici sono in esaurimento, quanto piuttosto come la propulsiva utopia di un’universale liberazione dell’umanità da ogni forma di oppressione, nonché di intolleranza, di fanatismo, di odio e di violenza.
Professor Giuseppe Carlo Marino, storico, docente di Storia contemporanea all’Università di Palermo, Presidente onorario dell’Anpi Palermo
I temi affrontati nell’articolo trovano una più estesa esposizione nel libro del Prof. Giuseppe Carlo Marino, “Contro l’inverno della memoria (e della storia)”, Castelvecchi Editore, in libreria dal 28 novembre 2019. Grazie alla cortesia dell’autore, Patria offre in anteprima ai suoi lettori l’immagine della copertina e della quarta di copertina del volume.
Pubblicato mercoledì 27 Novembre 2019
Stampato il 11/12/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/longform/riflettendo-sulle-giovani-generazioni/