L’inchiesta svolta da Patria Indipendente sulla presenza del neo fascismo sul web ha messo in luce, tra l’altro, la pervasività del fenomeno, alimentata non soltanto dalla logica moltiplicativa del social network ma anche dalla permeabilità che di fronte ad esso mostrano alcuni specifici settori della società civile. Più che la dimensione attuale del variegato arcipelago neofascista e neonazista, dunque, deve esserne attentamente considerato il potenziale di crescita sia in termini quantitativi (di cui è una spia il trend elettorale favorevole delle formazioni più dichiaratamente populiste e nazionaliste in molti Paesi d’Europa) sia nei termini della capacità di spingere alla radicalizzazione la destra più tradizionale, rappresentata dai partiti conservatori europei, costringendo quest’ultima a una pericolosa rincorsa sui temi più cari all’estremismo, in particolare per quel che riguarda l’accentuazione dei toni xenofobi e la chiusura nei confronti dell’immigrazione. La recente esperienza olandese è una palese riprova di questo meccanismo: il partito conservatore VVD del premier uscente Mark Rutte ha ottenuto una risicata vittoria anche in virtù della scelta di calcare i toni polemici nella contesa diplomatica con la Turchia di Erdogan e di riprendere, nell’ultima fase della campagna elettorale, le posizioni antislamiche predicate dal PVV, la formazione populista ed euroscettica di Gert Wilders.
Del resto, la possibilità che la destra più estrema possa fungere da “suggeritore” anche nei confronti del conservatorismo nostrano trova ampi riscontri nell’inclusione di eletti nelle liste di CasaPound e di altre sigle estremiste nelle maggioranze di centro destra, alla guida di non pochi comuni: non si tratta, come qualcuno più o meno disinteressatamente afferma, di un’apprezzabile manifestazione della forza inclusiva della democrazia, in grado di assorbire le spinte più estremiste nel dialogo istituzionale, ma di un processo suscettibile di andare nella direzione opposta, in quanto gli elementi costitutivi dell’ideologia neofascista, dal populismo al comunitarismo identitario, dal razzismo al sessismo e all’omofobia, si insinuano non soltanto nel senso comune ma anche nelle scelte degli organi di governo locale, traducendosi in comportamenti ispirati a un sostanziale rigetto dei valori democratici e in atti mirati a escludere i soggetti più deboli dalla fruizione di prestazioni sociali fondamentali, come la salute, l’istruzione e l’abitazione, secondo un aberrante principio “risarcitorio” nei confronti di ipotetiche usurpazioni perpetrate ai danni dei diritti dei “nativi”.
Sotto questo profilo, quanto avviene nelle realtà locali trova non pochi riscontri a livello nazionale ed europeo: non crediamo infatti di dire nulla di originale, affermando che l’articolato quadro delle formazioni neofasciste del XXI secolo non può essere compreso e spiegato se non alla luce della dimensione globale di una crisi che si protrae ormai da dieci anni e che ha prodotto effetti economici e sociali di grave impatto sull’Unione europea, la cui sopravvivenza è oggi messa in dubbio da non pochi osservatori. C’è, da questo punto di vista, un’evoluzione di strategie e parole d’ordine che sembra trascinare la destra europea e transatlantica verso una radicalizzazione apparentemente irreversibile: il quasi trentennio a cavallo di due secoli è stato caratterizzato dall’ondata neoliberista e dallo smantellamento sistematico dello stato sociale e delle reti legali di tutela dei diritti dei lavoratori, assecondati da una sinistra fiduciosa nel potenziale di crescita implicito nell’economia globalizzata e ansiosa di dimostrare di avere abbandonato lo statalismo di matrice sia socialdemocratica che stalinista; oggi la destra più conservatrice e oltranzista si presenta con un volto protezionista e nazionalista, predicando, come ha affermato Donald Trump durante la vittoriosa campagna elettorale, una demagogica difesa degli “esclusi” dalla globalizzazione, attestata su un’intransigente affermazione di sovranità e sulla discriminazione degli elementi “estranei” alla comunità nazionale (salvo poi salvaguardare l’impianto neo liberista mettendo a capo della nuova amministrazione gli esponenti più intransigenti dei diritti delle multinazionali e della finanza).
Il successo di Trump, peraltro, è stato annunciato da quanto stava avvenendo sull’altra sponda dell’Atlantico: proprio in quanto rappresenta, ad oggi, il punto più alto di una rivendicazione dei diritti della sovranità statale contro l’invadenza di Bruxelles, la Brexit ha espresso una tendenza che sembra rafforzarsi in numerosi paesi d’Europa. Ciò è potuto avvenire, in quanto l’Unione europea, contrariamente a quanto si legge nelle brochures prodotte in occasione del sessantesimo dei Trattati di Roma, non appare alla maggior parte dei suoi cittadini come il soggetto garante della crescita e di un’equilibrata estensione dei diritti fondamentali di cittadinanza, ma come l’occhiuto custode di politiche di austerità che hanno alimentato l’area dell’incertezza, della precarietà, delle paure per il futuro, estendendola dalle fasce socialmente più marginali a consistenti settori del ceto medio, che avvertono come un pericolo irreversibile l’erosione di reddito e di status a cui sono sottoposti e sono sempre più propensi a riporre un’illusoria fiducia nelle potenzialità taumaturgiche del ritorno alla piena sovranità dello Stato nazionale.
A fronte di queste tensioni, il neofascismo, in tutte le sue declinazioni europee, offre ricette e soluzioni che possono esercitare una fascinazione non trascurabile sui settori sociali maggiormente sensibili al rischio di marginalizzazione: la riproposizione di atteggiamenti sciovinisti, alimentati sia da sentimenti diffusi come i timori generati dal flusso migratorio, sia dalle tensioni antieuropee incoraggia, tra l’altro, l’adesione allo schema amico/nemico come chiave interpretativa della realtà, che legittima l’adozione di modelli di comportamento politico basati sullo sdoganamento e la rilegittimazione della violenza come manifestazione di legittima difesa sociale. Un elemento portante di questo approccio (la cui forza comunicativa risiede proprio nell’estrema semplificazione di una realtà complessa) consiste nella convinzione, diffusa soprattutto nelle giovani generazioni, che una comunità chiusa e rigidamente gerarchica possa realizzare un modello di convivenza preferibile a quello rappresentato da una società aperta e democratica.
Per comprendere la portata ed entità di questo fenomeno, occorre rifarsi al discorso sopra accennato, relativamente alla crisi dell’Unione europea e a una consolidata lettura di essa che indica nella carente legittimazione democratica del modello comunitario di governance una delle cause primarie del suo declino. È un punto di partenza necessario, ma non sufficiente: occorre infatti estendere la riflessione oltre il confine delle istituzioni europee, e riconsiderare in tutta la sua portata il fenomeno della caduta di credibilità delle istituzioni dello Stato democratico – di cui la crisi della rappresentanza politica è parte costitutiva – conseguente a decenni di smantellamento politico e culturale non soltanto delle strutture del Welfare, ma anche di tutte le funzioni di carattere generale per le quali la presenza della mano pubblica si giustifica in ragione del ruolo che essa assolve nel garantire e promuovere il benessere materiale e morale della società. In altri termini, il ridimensionamento delle prestazioni sociali e il progressivo ritrarsi della presenza del potere pubblico da importanti settori di intervento (si pensi soltanto al tema della salvaguardia del territorio e della tutela dei beni culturali) appare nella duplice prospettiva di perdita di legittimazione e motivazione, da parte di chi è stato a suo tempo investito di funzioni che si sono andate via via atrofizzando, e di perdita di efficienza e, in ultima analisi, di utilità delle azioni pubbliche di cui la collettività è destinataria.
Il contrasto della condizione fin qui sommariamente descritta in termini di crescente degrado urbano e ambientale e di abbassamento dei livelli minimi di tutela dei diritti fondamentali pone, nella realtà, le premesse per una riflessione e un rilancio dei grandi temi della questione democratica, che investe i nodi della cittadinanza attiva, della partecipazione, della rappresentanza, nonché della responsabilità e della trasparenza dell’azione pubblica. In assenza di una forte iniziativa su questi temi, tuttavia, non si può escludere che il disagio sociale possa diventare bersaglio di semplici manipolazioni ideologiche, orientate in una direzione del tutto opposta, ovvero nella rivendicazione dei diritti di un’autorità svincolata dalle pastoie della burocrazia contro un establishment corrotto e inconcludente, e del primato della decisione sul libero confronto e sulla pluralità delle interlocuzioni: un sistema autoritario in grado, appunto, di rivendicare i diritti dei “nativi” insidiati da vecchie e nuove forme di marginalità sociale e di contendere con successo la presunta usurpazione di beni e servizi da parte di altri emarginati e dei nuovi venuti (immigrati e rifugiati).
Di conseguenza, le piccole comunità chiuse, regolate da gerarchie e comportamenti codificati, e caratterizzate da un tasso di inclusività interna direttamente proporzionale all’ostilità che si riversa nei confronti di chi è estraneo o peggio in conflitto con esse, appaiono come l’unico rimedio efficace nei confronti di una mondializzazione e finanziarizzazione dell’economia responsabile della moltiplicazione del disagio e dell’emarginazione sociale. La contrapposizione tra un mondo “grande” e globalizzato e le piccole comunità tenute insieme da vincoli di solidarietà basati sui simboli di un’appartenenza naturalisticamente legata alla stirpe e alla terra, può in effetti rappresentare un quadro semplificato e rassicurante soprattutto per quanti si sentono direttamente minacciati nella loro sopravvivenza fisica e mentale, per effetto di trasformazioni che non sono minimamente in grado di controllare.
Può sorprendere che un’utopia reazionaria rozza e ingenua possa suscitare interesse o peggio consenso, ma non bisogna dimenticare, come accennato all’inizio, che questo tipo di oltranzismo può filtrare nelle proposte politiche delle forze conservatrici e reazionarie in tutta Europa, oggi più che mai interessate a smarcarsi dalle responsabilità che pure in passato hanno condiviso con altri soggetti politici nella promozione e gestione dei processi di integrazione europea. Questa potenziale “Santa Alleanza” della destra europea aumenta la pericolosità del fenomeno neofascista e richiede un impegno di contrasto che va al di là della dimensione puramente repressiva, pur indispensabile per colpire senza tentennamenti manifestazioni di violenza e intolleranza sempre più frequenti, per intervenire sui gangli più delicati e complessi della formazione del consenso, e per fare in modo che le crepe sempre più vistose delle democrazie europee non degenerino in una irreversibile crisi di sistema.
Pubblicato mercoledì 5 Aprile 2017
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