L’idea del titolo l’Unità per la testata del giornale nacque nel febbraio di cento anni fa a Vienna, dove Gramsci era in attesa della possibilità di tornare legalmente in Italia, dopo essere stato a lungo presso l’Internazionale comunista di cui il Partito Comunista allora era una sezione. L’anno prima l’Internazionale aveva avuto uno scontro con la segreteria del Partito comunista, allora ancora diretto da Amadeo Bordiga, sulla questione del rapporto con i socialisti. L’Internazionale premeva sul giovane piccolo Partito per una riunificazione con i socialisti terzinternazionalisti, diretti da Serrati, verso cui però c’era stata una polemica molto aspra.
Gramsci condivideva la linea unitaria, mentre Bordiga e la frazione di cui era capo si opponevano. Quando la Internazionale decise (era il 1923) che il Partito Comunista d’Italia si dovesse dotare di un quotidiano Gramsci pensò a questo titolo, l’Unità, che alludeva all’unità degli operai e dei contadini, secondo la tradizione rivoluzionaria appresa dalla Rivoluzione d’ottobre, e contemporaneamente alludeva all’unità tra i comunisti e i socialisti. Questo titolo fu di buon augurio per la fusione con i serratiani che avverrà nell’annata, ma il giornale potrà vivere legalmente poco tempo perché già due anni dopo, nel ’26 verranno le leggi liberticide mussoliniane che gettano nella illegalità tutti i partiti politici meno, ovviamente quello fascista. Iniziava il regime dittatoriale con il potere di un partito e di un uomo soli.
Erano stati due anni di battaglia per il giornale. Prima le elezioni del ’24 che avevano visto una modesta affermazione del PCdI, ma con l’elezione di Gramsci. La incerta legalità offrì qualche possibilità di diffusione in Italia seppure con la persecuzione dei fascisti. Subito dopo le elezioni c’era stato il rapimento e l’assassinio di Giacomo Matteotti, delitto di cui Mussolini rivendica la responsabilità.
La risposta fu l’improvvido ritiro sul colle Aventino di tutti partiti politici democratici dall’aula di Montecitorio compresi i comunisti nella speranza assurda nell’intervento regio contro Mussolini, cui seguì il ritorno solitario del PCdI alla Camera dopo il rifiuto degli aventiniani di proclamarsi l’unica Camera legale. In quei due anni l’Unità si tempra come giornale di lotta. Nel ’26, Gramsci, nonostante fosse deputato, viene arrestato, l’Unità diventa un organo clandestino.
C’è qui tutta una prima eroica fase della vita dell’Unità che seguiva le battaglie interne al partito e naturalmente quelle che segneranno le tragedie della prima metà del Novecento: la guerra fascista per la conquista della Etiopia con orrendi massacri, guerra dei fascisti in Spagna contro la Repubblica, il sorgere e l’affermarsi del movimento nazionalsocialista in Germania, l’inizio della Guerra mondiale. L’Unità sempre esce clandestinamente in qualche modo, in Italia, dove viene diffusa nei pochi nuclei che resistono, innanzitutto in un certo numero di fabbriche, soprattutto nel Nord.
Io ho conosciuto l’Unità nel 1943, nel luglio, quando cadde il fascismo. Mi ritrovai nelle mani questo foglietto durante una delle manifestazioni milanesi antifasciste alle quali partecipavo come studente. Avevo appena terminato in quell’anno gli studi liceali. Scoprii questo foglio durante un corteo di esultanza. Tra l’altro era un corteo “rischioso” perché mentre passavamo dalla Galleria di Milano vennero buttati giù un paio di busti di Mussolini e diversi quadri con la sua faccia in fotografia. Qualcuno rischiò di farsi male. In tutto quel periodo che va dal 25 luglio all’8 settembre, poco più di un mese, l’Unità ebbe nel nord una prima uscita semi legale curata a Milano dal giovane Pietro Ingrao venuto da Roma con un nucleo di compagni del centro del partito (che conobbi allora) tra cui Giorgio Amendola, il siciliano Momo Li Causi e altri.
Dopo, nei venti mesi della Resistenza, il giornale come il partito visse in una situazione molto singolare. Nell’Italia già liberata fino a Roma e oltre Roma fino alla linea Gotica – sfondata solo all’inizio del ’45 – l’Unità è un organo legale, nuovamente diretto da Ottavio Pastore che ne era stato il primo direttore nel 1924, un compagno torinese di origine operaia del primo nucleo gramsciano. Al contrario nel Nord era un giornale illegale, stampato clandestinamente e diffuso a rischio della vita.
Io fui arrestato a Milano ed evasi dal carcere ospedaliero e fui mandato a Genova da Eugenio Curiel poi assassinato da fascisti. E a Genova lo stampatore clandestino dell’Unità venne preso e assassinato dai fascisti. Ma non fu il solo a pagare con la vita il lavoro per l’Unità e la stampa comunista.
Vivevamo questa opposta realtà che riguardava il partito e il suo giornale: in parte del Centro e nel Sud dell’Italia, il Partito comunista era un partito non soltanto di governo, cioè capace di esprimere una linea di governo, ma era un partito al governo dopo la svolta compiuta giustamente da Togliatti rispetto alla pregiudiziale antimonarchica (con l’esilio del fellone e fascista re Vittorio Emanuele III e il passaggio di consegne al figlio Umberto) e la formazione di un governo che sarà del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale), cioè di tutti i partiti antifascisti che ritornavano nella legalità.
Nel Nord invece con l’appartenenza al CLN e alle sue formazioni partigiane di città e di montagna nella lotta armata contro i tedeschi e contro i fascisti per la liberazione del Paese si rischiava la vita. Molti compagni comunisti, molti antifascisti, socialisti, democristiani, azionisti, liberali vengono assassinati dai fascisti e dai nazisti in una guerra aperta.
La situazione muta radicalmente con la Liberazione. Il giorno stesso o il giorno dopo il 25 aprile escono tre edizioni dell’Unità nel Nord, più quella di Roma che era già legale, a Milano, Torino e Genova, il triangolo industriale, dove la classe operaia era molto più numerosa che altrove, perché i trasporti erano molto difficili, praticamente nulli, non si poteva spedire il giornale come si potrà fare molti anni dopo (e la possibilità di trasmetterlo non era neanche immaginata). Io partecipai alla fondazione, il giorno prima della Liberazione, quando mi accingevo a dirigere l’organizzazione del Fronte della Gioventù (che avevo rifondato nell’inverno del ‘44 a Genova) per partecipare all’insurrezione, e invece venni destinato all’Unità dal mio partito (ero a capo di una formazione clandestina unitaria ma ero anche un comunista), in quanto studente universitario.
A Genova i pochi universitari comunisti o erano stati fucilati, o erano stati mandati nei campi di concentramento. Queste tre edizioni dell’Unità si riunificheranno dieci anni dopo la Liberazione, nel 1957, perché a quel punto i trasporti consentivano di inviare il giornale (allora non c’erano ancora le teletrasmissioni). C’era soltanto la possibilità di spedire con camion, treni e aerei il giornale nelle varie regioni dove si diffondeva: l’edizione di Milano arrivava in Piemonte, in Liguria, in Emilia, nel Veneto e, ovviamente in Lombardia. Ne diventerò direttore, dopo essere stato condirettore dell’edizione di Genova, dal 1958 al ’62. Ingrao era stato fino al ’58 direttore centrale con condirettori, poi i direttori furono due: io a Milano, a Roma Reichlin.
Questa Unità è un giornale di battaglia, ma contemporaneamente – per indicazione e suggerimento di Togliatti – è un grande giornale di informazione, non tanto per il numero di pagine (all’inizio erano appena due paginette che diverranno poi otto e poi dodici ecc) quanto per la sua ambizione: la parola d’ordine adottata, voluta appunto da Togliatti, era che l’Unità avrebbe dovuto essere il Corriere della Sera delle forze della sinistra. Un giornale quindi largamente di informazione e contemporaneamente di battaglia.
Anche di battaglie dure: ad esempio, al tempo in cui vi erano stati eccidi, particolarmente contro i contadini nell’Italia meridionale per l’occupazione delle terre, utilizzai una manchette fissa vicino alla testata con scritto: “Via il governo degli assassini”. Fui condannato due volte a sei mesi di carcere per una legge che proibiva il “vilipendio” del governo, (carcere mai scontato perché tra un ricorso e l’altro arrivammo fino all’abolizione del reato). L’Unità era quindi un giornale che dava un notiziario completo ma da un punto di vista diverso da quello di tutti gli altri, e, al tempo stesso, sosteneva tutte le lotte operaie, bracciantili, contadine. E ne diventava il portavoce e lo strumento. Come fu per la ripartenza delle lotte operaie nel’60 con lo sciopero degli elettromeccanici che iniziò a rompere una stasi iniziata nel ’54 con la sconfitta alla Fiat di una lotta aziendale.
L’Unità di Milano non solo appoggiò quella ripresa ma ne fu protagonista partecipando, ad esempio, alla organizzazione di un famoso “Natale in piazza” (del Duomo) e non solo ad esso. Così come divenne la prima e polemica interprete della rivolta operaia e popolare di Genova – che sorprese anche la direzione del Pci – per la sfida del Msi (il partito neofascista) che voleva tenere il suo congresso in un teatro a fianco del sacrario dei partigiani caduti. Una rivolta che fu seguita da un moto giovanile di tutta l’Italia e originò la caduta del primo governo sostenuto dai neofascisti. Era il 1960 il tempo detto del “miracolo economico” italiano e dunque della crescita del numero degli operai dovuto agli investimenti per il basso costo della manodopera contro cui riprendeva, finalmente, la lotta.
Delle due edizioni dell’Unità, quella di Milano aveva una tiratura molto grande per la sua zona di diffusione, quella di Roma una tiratura minore perché andava in zone dove il Partito Comunista era meno forte. Tra l’una e l’altra si superavano le 250mila copie quotidiane e le 800mila la domenica con la diffusione volontaria di casa in casa fino a punte di un milione il primo maggio. Era un giornale di informazione, ma anche di sostegno, oserei dire di incitamento alle lotte operaie, contadine e popolari. In questo periodo si succedono i giovani direttori dell’Unità. Ingrao era stato il primo direttore centrale dopo i compagni della generazione dei fondatori. Dopo di lui viene il tempo dei due direttori autonomi. Ritorna il tempo del direttore unico con Mario Alicata, colpito da precoce infarto mortale proprio per l’impegno strenuo della funzione. Io sarei stato successivamente direttore centrale nel 1970 dopo la strage di Piazza Fontana del ’69 di cui avevamo subito individuato – partito lombardo e giornale – la matrice fascista.
Un giornale combattivo ma ricco di informazione politica, sindacale, economica, di cronaca ma anche di una sezione culturale, di una degli spettacoli e di una ottima parte sportiva. Un giornale che soprattutto al nord si diversificava in molte edizioni con cronache per le maggiori citta e per le differenti regioni. Così l’Unità divenne nella diffusione il secondo giornale in Italia, subito dopo il Corriere della Sera. Fino al 1975, anno in cui io cessai di essere direttore, avevamo una tiratura di circa 250mila copie al giorno che arrivavano anche a 800mila alla domenica in cui c’era la diffusione militante porta a porta. E toccammo un milione di copie nei giorni più solenni come il 25 aprile o il Primo Maggio, soprattutto nei momenti della più aspra battaglia politica come il referendum sul divorzio nel 1974. L’Unità si giovava del fatto di essere il maggiore e il più completo quotidiano di sinistra. Altri come l’Avanti! anche se ben fatti erano poco completi in quanto giornali d’informazione, oltre alla diversità tra gli aderenti e i votanti dei due partiti di riferimento
L’uscita a inizio 1976 di un nuovo giornale, la Repubblica, con un orientamento di sinistra moderata ma polemica e combattiva, segnò l’inizio del declino nella vendita de l’Unità. La redazione del nuovo quotidiano fondato da Eugenio Scalfari e da Carlo Caracciolo, che era stato partigiano socialista, era composta dal nucleo originariamente liberal-radicale de l’Espresso, settimanale allora molto diffuso e impegnato in importanti battaglie civili. E assunse immediatamente anche alcune delle firme più note de l’Unità. Si presentò con un formato nuovo e una spregiudicatezza attraente.
L’Unità rappresenta un caso unico nella storia del giornalismo non solo italiano perché non si hanno altri casi di giornali di partito che abbiamo avuto una diffusione da vero grande giornale in regime di libertà di stampa. Si può trovare qualcosa di simile in Giappone, dove però il giornale era diffuso quotidianamente dagli stessi iscritti, che avevano proprio questo compito. Partecipai come rappresentante del Pci a un congresso di quel partito, molto vicino al Partito comunista e alla sua linea politica divenuta critica verso il modello sovietico. Ognuno degli interventi iniziava con la notizia del numero di copie venduto e degli iscritti fatti dalla propria organizzazione. Quel quotidiano comunista giapponese vendeva tutti i giorni come noi la domenica. Esempio encomiabile, ma diverso dalla vendita quotidiana in edicola.
L’Unità in quanto fenomeno originale, molto raro nell’editoria dei quotidiani a livello mondiale, fu uno strumento fondamentale per l’affermazione del Partito Comunista e in alcuni casi fu anche all’avanguardia del partito stesso. Il giornale per sua natura deve reagire subito alle notizie del giorno. Ho ricordato il caso dell’insorgenza genovese del 1960 e quello della lotta degli elettromeccanici. Ma altri ve ne furono. Ho altre volte citato il caso del referendum abrogativo voluto dai cattolici di destra contro la legge sul divorzio approvato dal Parlamento nel 1970 (anche con voti clandestini di alcuni elementi del fronte conservatore). Sul referendum, cui si arrivava quattro anni dopo, il Partito Comunista, anche per timore di una rottura definitiva con il mondo cattolico, aveva cercato un rinvio prima e poi un superamento attraverso un’opera legislativa di modificazione del testo da ottenersi con una trattativa addirittura con il Vaticano. Ma la trattativa si era prolungata fino ad arrivare a ridosso della data del referendum.
L’Unità da me diretta a un certo punto scelse la strada di uscire con la sua propaganda sul referendum contro la posizione del cattolicesimo di destra, anche senza una decisione del partito e mentre la trattativa continuava. Comunicai questa decisione al segretario del Partito, Enrico Berlinguer, il quale in questi casi non approvava né disapprovava, il che significava nei fatti un sì.
Quello fu un caso in cui l’Unità giovò molto non solo al proprio partito. La trattativa infinita si interruppe. Il Pci decise di partecipare in massa al referendum e ciò fu decisivo per respingere il tentativo di abrogazione, giovò all’incivilimento del paese, e allo stesso Pci che vide allargarsi la sua influenza fino ai successi abbastanza travolgenti nel 1975 nelle elezioni amministrative durante le quali vennero conquistati molti Comuni dalle liste comuniste e di sinistra. E fino ai successi del 1976, con i due vincitori, con il Partito Comunista che fece un balzo in avanti di sette punti, arrivando quasi al 34%, mentre la Democrazia Cristiana mantenne la sua forza superando di poco il Partito Comunista. Ma l’accesso al governo venne sbarrato dalla convenzione internazionale per escludere il Pci dal governo e Moro fu assassinato.
La funzione autonoma di questo giornale fu molto grande soprattutto nei momenti in cui le opinioni diverse entro la direzione del Pci impedivano sollecite decisioni (e perciò ho fatto l’esempio del ’60 e quello del ’74, ma altri episodi potrebbero essere ricordati da altri direttori) e si mantenne a lungo seppure su una strada di declino della diffusione fino a quando tra il 1989 e il 1991 fu presa la decisione di scioglimento del partito (alla quale io, insieme ad altri, mi opposi).
Lo scioglimento del partito e la nascita di una nuova formazione di sinistra non cancellò l’esistenza dell’Unità. Ma la rottura (cui non partecipai) che vi era stata anche all’interno del partito e ancor prima la repentina decisione di sconfessare il proprio stesso passato (non privo di errori, ma anche pieno di meriti) non poteva non mettere in crisi la diffusione del giornale che era già in difficoltà. Si succedettero numerosi direttori, alcuni tratti dal mondo giornalistico, altri dirigenti del nuovo partito dai nomi cangianti. Quale che fossero le capacità di tutti loro, e taluno ne era ben provvisto, la diffusione venne via via calando fino alla scelta, secondo me molto infelice, di mettere la testata sul mercato. Cosicché l’Unità pian piano scomparve e a tratti risorse acquistata da questo o quell’imprenditore – in genere di media levatura – ognuno dei quali, com’è ovvio, aveva da pensare ai propri interessi.
La vita originale, autorevole e talora eroica di questo quotidiano, l’Unità, pur continuando in altre forme, alcune anche nobili, si concluse in realtà con la scomparsa dello stesso Partito Comunista italiano poiché quel rapporto partito-giornale non era riproducibile. Era fatto di convinzioni comuni, non del comando dell’uno sull’altro, come spesso si sente dire. E non era soltanto un rapporto di vertice. La diffusione volontaria, le feste dell’Unità, l’associazione di amicizia stabilivano un rapporto diretto con quello che veniva chiamato “il popolo comunista”. Un rapporto politico e affettivo difficile da descrivere e analizzare. Certamente diverso da quello che pure lega un quotidiano “normale” ai suoi lettori. Simile, forse, a quello che da tanti anni lega il Manifesto ai suoi abbonati e lettori. Sebbene questo legame affettivo riguardi una compagine scelta e quella dell’Unità un sentimento popolare.
Oggi, ricordando i cento anni dalla nascita di questo nostro quotidiano, dobbiamo trarne insegnamento. Esperienze minoritarie, seppure rilevanti e utili, acquistano peso se poi riescono a trasformarsi in movimento di massa. Il Partito Comunista italiano fu un partito all’origine del tutto minoritario e talora addirittura settario ma seppe poi conquistare un consenso assai ampio, con milioni di iscritti. L’Unità, tra i quotidiani, era un giornale diffuso a centinaia di migliaia di copie, letto e discusso anche collettivamente nelle zone in cui non c’era ancora un’alfabetizzazione compiuta. Fu uno strumento di formazione e informazione per grandissime masse di italiani innanzitutto dei ceti oppressi, e non soltanto perché intorno al giornale si raccolse una numerosa intellettualità. Anche se il mondo e quello della comunicazione in particolare è totalmente cambiato e quasi opposto a quello successivo alla seconda guerra mondiale, credo che l’opera dell’Unità debba essere ricordata come un fatto positivo non soltanto per il Partito comunista italiano e per la sinistra italiana, ma perché fu una particolarità che fece onore alla storia di tutto il Paese.
Aldo Tortorella
Pubblicato mercoledì 13 Marzo 2024
Stampato il 11/10/2024 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/anniversari/lunita-un-titolo-che-era-tutto-un-programma/