Mentre corre l’anno del centenario della sua nascita, la figura e l’opera di Aldo Moro attendono ancora di essere collocate al giusto posto nell’iconografia della Repubblica. Soprattutto la sua fine tragica, per mano delle brigate rosse, lascia aperta la ferita.
Moro esplorava un percorso improbo per la democrazia italiana: quello della ripresa della collaborazione tra le grandi forze popolari allora in campo dopo gli anni della rottura e della rissa. Una navigazione difficile di cui neppure colui che aveva tracciato la rotta poteva prevedere l’approdo. Ma quell’operazione preoccupava in troppe direzioni; ed è logico argomentare che vi fosse una convergenza oggettiva di interessi nel sopprimere il timoniere.
Guardando ai fatti, si deve del resto constatare che, eliminato Moro, la tendenza generale è stata quella di ricomporre gli equilibri precedenti, riattivando da un lato le spente energie dell’anticomunismo, sia pure con una leadership socialista e, dall’altro, rilanciando una linea di alternativa che contraddiceva l’affermazione berlingueriana per cui in Italia non si governa col 51%. Va anche significativamente notato che, dopo Moro, nessuno nella Democrazia Cristiana ne ha rivendicato l’eredità strategica.
L’impronta costituente
Questa premessa rende legittime le domande che bisogna affrontare per comprendere Moro e in qualche caso per decifrarlo. È quel che ultimamente ha tentato di fare lo storico Guido Formigoni (Aldo Moro: Lo statista e il suo dramma. Il Mulino, 2016) con una biografia accurata ed evocatrice di tanti momenti della vita pubblica italiana. A partire dalla formazione cattolica – più precisamente “fucina” – negli anni del fascismo e poi dall’ingresso in politica dalla porta della Costituente. A leggerne i resoconti ci si imbatte in un trentenne che… disputa coi “dottori” munito di una cultura giuridica e di una sensibilità sociale che sorprendevano gli interlocutori, tanto che non disdegnavano di chiedere il suo parere.
Non so se Lelio Basso lo abbia ricordato altrove, ma a me ha raccontato che, discutendosi il tema dell’uguaglianza per elaborare quello che sarebbe diventato l’art. 3 della Costituzione, egli – il socialista Lelio Basso – volle richiedere riservatamente l’opinione di Moro. E lo avvertì che la formula abbozzata (quella che impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli economici e sociali che impacciano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini) corrispondeva, per lui, alle coordinate del socialismo. Sempre secondo Basso, Moro prese tempo per riflettere ma alla fine manifestò il suo pensiero: “Voi chiamatelo come volete – ebbe a dire – ma io sono d’accordo sul contenuto e sulla forma”.
Giovanni Galloni ha messo in luce l’influenza dell’esperienza costituente sull’impianto a tutto campo del modo di far politica di Moro, una caratteristica che Leopoldo Elia, ultimamente ripreso da Sergio Mattarella ha definito come quella di “integratore della democrazia”. Si sarebbe detto che egli giocava sempre con tutte le carte del mazzo, anche quelle che erano nelle mani degli avversari. E se tale attitudine si traduceva in un impegno costante di mediazione, talora di conciliazione degli opposti, il risultato perseguito non era mai un assemblaggio di ingredienti, un compromesso al ribasso, ma una sintesi sempre orientata al compimento di un progetto, o almeno non in contraddizione con esso.
Nei “tempi nuovi”
A me accadde, negli anni Sessanta, di definire come “bradisismica” questa modalità di comportamento politico, altri parlarono di piccoli passi. Ma fu un esperto del ramo come Andreotti a constatare che, al dunque, il centrosinistra di Moro era più avanzato, e dunque per lui più pericoloso, di quello di Fanfani. Quanto all’utilizzo di tutte le carte del mazzo basterà ricordare che Moro scelse proprio la figura più distante dal suo progetto, ossia lo stesso Andreotti, per guidare i governi della solidarietà nazionale. Ma i tempi del bipolarismo esclusivo non si erano ancora riprodotti.
Moro era attento ai movimenti della società anche se veniva criticato perché cercava di ricondurli agli obbiettivi del partito, inteso come riferimento principale anche se non unico. Tutti ricordano l’attenzione con cui si pose davanti ai “tempi nuovi”, non solo quelli del sommovimento sociale degli anni ’60 ma anche quelli della chiesa del post-Concilio. Al convegno di Lucca del 1967 mostrò di vedere più lontano di molti colleghi e intellettuali. Là dove, ad esempio, il segretario della Dc, Mariano Rumor, identificava nell’anticomunismo la ragione storica che giustificava ancora l’unità politica dei cattolici, Moro affermò che, oltre la pace e la giustizia, l’azione unitaria dei cattolici trovava fondamento nell’esigenza di concorrere al “compimento della democrazia”.
Vale a dire, in sostanza, al recupero delle opposizioni, in primis il Pci, nell’impresa comune di costruzione ed espansione della democrazia.
Un discorso dirompente
Accusato di immobilismo, alla verifica storica Moro risulta essere uno dei leader più attivi nell’assecondare e patrocinare il movimento delle cose politiche, fino al punto di mettere in discussione la funzione stessa del suo partito. “Non so se il futuro ci apparterrà”, ebbe a dire una volta; e tuttavia per impedire che la Dc diventasse un mero aggregato di potere si batté con una energia che sorprese gli osservatori e sconvolse molti progetti.
A me fu dato di assistere nel 1969 al discorso “di opposizione” di Moro contro gli antichi sodali dorotei, arroccati nel fortilizio del potere e insensibili alle spinte del Paese. Mi fece pensare che certi presunti “moderati” è meglio averli amici che avversari…
Ma quel discorso ebbe anche un risvolto strategico nell’area cattolica dove da tempo ci si stava attrezzando tra esponenti della Cisl, delle Acli (Livio Labor) e della sinistra democristiana, per dar vita ad una formazione politica progressista autonoma dalla Dc.
L’atteggiamento di Moro ebbe l’effetto di rinfrescare in quest’area i motivi di adesione a una Dc rinnovata nei programmi e negli uomini, con il conseguente abbandono al suo destino di Livio Labor e dei pochi che lo seguirono nelle elezioni del 1972, anticipate per il timore del referendum sul divorzio. A proposito del quale Moro manifestò la sua contrarietà ritenendo che questioni così delicate non dovessero diventare oggetto di contesa politica (e religiosa) ma piuttosto terreno di maturazione etico-civile delle coscienze.
L’atto finale di Helsinki
Una conferma dell’attitudine inclusiva di Moro la si può trovare anche nel suo operato in politica estera, specie nella Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE) che ebbe il suo culmine nell’Atto Finale di Helsinki del 1975, sottoscritto da tutte le potenze dell’Est e dell’Ovest. Accanto ai tre fondamentali “panieri” del disarmo, della cooperazione e dei diritti umani, Moro volle che il documento contenesse un capitolo sul Mediterraneo in vista dell’effettuazione di una specifica Conferenza sui problemi dell’area con tutti i soggetti coinvolti, a partire da israeliani e palestinesi.
I tentativi succedutisi nel tempo di dar vita all’iniziativa sono tutti falliti, ma ciò non comporta che l’idea vada archiviata. I decenni trascorsi e le tragedie in atto consigliano anzi di riportare in primo piano, attualizzandoli, i propositi di integrazione e di collaborazione in cui Moro indicò i presupposti di una pace durevole anche in questa tormentata parte del mondo.
Un’ultima nota tra le tante possibili. Moro fu criticato per una presunta insensibilità ai programmi rispetto alla predilezione per i rapporti tra le forze politiche. Ebbene, proprio sotto il consolato di Moro, il centrosinistra degli anni 60 fu approvato dal Parlamento il più vasto e incisivo “Programma economico nazionale”: un testo ovviamente sorpassato ma che varrebbe la pena di rileggere oggi per la sua organicità ed anche per un inventario di ciò che non s’è fatto, vuoi per avversità congiunturali vuoi, soprattutto, per il cambio di direzione dei venti della politica economica.
Domenico Rosati, già Presidente delle Acli e Senatore della Democrazia Cristiana
Pubblicato giovedì 13 Ottobre 2016
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