Da http://www.rosannafilippin.it/wp-content/uploads/2014/02/Renzi-e-la-fiducia-al-Senato-Diretta_h_partb.jpg
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“Andiamo a vedere da che parte sta il popolo; se stanno con chi scommette sul fallimento o con chi crede nel futuro dell’Italia”. Il 20 gennaio, parlando nell’aula del Senato prima dell’ultimo voto di palazzo Madama sulla riforma che cambia la natura della seconda Camera, il premier Matteo Renzi usa toni enfatici. Dice che questa riforma che cancella il Senato eletto dal popolo “rimarrà nella storia”. Il termine appare fuori luogo. Come – d’altronde – è una forzatura il voler legare la vita dell’esecutivo all’esito del referendum. “Se perdo mi dimetto” ripete Renzi ormai da settimane. Rischio probabilmente calcolato il suo. Perché vi si legge la tentazione di trasformare il referendum in un plebiscito sulla sua persona.

Da che parte sta il popolo – e cosa sia oggi – è una questione complessa. Che non chiama però in causa l’ingegneria costituzionale e il dibattito su come si possa articolare la democrazia nei tempi presenti. E meno che mai ha qualche parentela con la questione, sollevata già in Costituente, sull’opportunità o meno di costruire la Repubblica sul bicameralismo perfetto. Insomma Meuccio Ruini o Costantino Mortati, solo per citare due padri della Repubblica c’entrano poco o nulla. Il popolo che “sta da una parte” fa pensare piuttosto ai fantasmi dell’antipolitica manovrati – come spesso è accaduto nella storia italiana – dalla politica medesima. Trastullandosi con il fuoco dell’antipolitica si potrebbe perfino sostenere che quel popolo potrebbe addirittura vedere con favore non solo la cancellazione del Senato eletto dal popolo, ma pure – visto che ci siamo – della Camera dei Deputati. E poi giù per li rami.

È risuonata durante il dibattito in Senato la parola “democrazia governante”. Come vi fosse stata finora in Italia una democrazia inconcludente! O, meglio, che la farraginosità della democrazia italiana debba essere imputata proprio al suo essere democrazia parlamentare. La verità è che la democrazia parlamentare pare definizione buona solo per i manuali di diritto costituzionale. Perché nei fatti, e da diversi anni, il potere si è andato trasferendo sempre più sui governi, lasciando alle Camere una funzione poco più che ancillare.

Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède e di Montesquieu, noto solo come Montesquieu
Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède e di Montesquieu, noto solo come Montesquieu

Insomma se si volesse davvero riportare i tre poteri – legislativo, esecutivo, giudiziario, per stare a Montesquieu e al suo Spirito delle leggi – nel loro giusto equilibrio ed evitare la prevaricazione dell’uno sull’altro, bisognerebbe restituire ruolo e forza alle assemblee rappresentative. A dirlo sono i numeri di un articolato dossier – provocatoriamente, ma nemmeno tanto, intitolato “Premierato all’italiana” – pubblicato qualche settimana fa da Openpolis, la piattaforma web che fa dell’accesso alle informazioni pubbliche la sua mission. Ebbene quel che emerge – e che in realtà già si sapeva – è che il governo piglia tutto. Di legislatura in legislatura anche la funzione principe del parlamento, quella legislativa, è diventata “appannaggio quasi esclusivo del governo”. Dei circa 183 disegni di legge che vengono presentati al mese, solamente 6 diventano legge. Di questi 6 che riescono a completare l’iter, nell’80% delle occasioni parliamo di proposte avanzate dal governo. Le probabilità che iniziative di origine governativa abbiano successo sono incommensurabilmente più alte di quelle dei deputati e senatori: di quest’ultime solo un misero 0,87% diventa legge contro il 32% delle proposte del governo. Delle oltre 565 leggi approvate nelle ultime due legislature, ben 440 sono state presentate dai vari esecutivi che si sono succeduti. Fra i governi presi in considerazione, l’apice è stato raggiunto con il governo di Enrico Letta, periodo in cui il parlamento aveva presentato solamente l’11% delle leggi approvate.

Da http://www.lapresse.it/polopoly_fs/1.808867.1449827160!/image/image.JPG
Da http://www.lapresse.it/polopoly_fs/1.808867.1449827160!/image/image.JPG

Il dossier toglie anche il velo alla presunta lentezza dei processi legislativi che sarebbe determinata dal bicameralismo perfetto. Niente di più falso. I tempi per portare a casa una legge non c’entrano granché con le questioni istituzionali, ma sono determinati semmai da ragioni politiche. La prova? Per ratificare il trattato sul fondo di risoluzione unica, quello sul risanamento bancario e salvataggio interno, il cosiddetto bail in, che scarica sui risparmiatori i crac bancari, ci sono volute nemmeno due settimane. 13 giorni per l’esattezza. Che sono schizzati a 871 per l’approvazione della legge, di iniziativa parlamentare, sull’Agricoltura sociale, a 851 per la legge sull’assistenza e cura delle persone con autismo. 796 i giorni, invece, per approvare la legge anti-corruzione. Casi limite, ma rimane che in media un provvedimento di iniziativa parlamentare necessita del triplo del tempo di uno di iniziativa governativa (dal momento della presentazione a quello dell’approvazione finale), una proposta del governo – nello specifico il dato si riferisce ai governi Letta e Renzi – ci mette 151 giorni a trasformare una proposta in legge . Che diventano 375 se a presentale sono deputati e senatori. Vere e proprie leggi “tartaruga” quelle che portano la firma dei nostri parlamentari.

Altro elemento di forte squilibrio istituzionale è il ricorso allo strumento della fiducia. In media, nelle ultime due legislature, “il 27% delle leggi approvate ha necessitato di un voto di fiducia, con picchi massimi raggiunti dal governo Monti prima (45,13%) e Renzi poi (34,06%). Più “moderati” nell’utilizzo dello strumento i governi Berlusconi (16,42%) e Letta (27,78%)”.

Per finire torniamo un attimo sul popolo chiamato in causa dal premier in vista del prossimo referendum. Ebbene, nelle ultime due legislature solamente un ddl di iniziativa popolare è diventato legge!

In Riflessioni e pensieri inediti Montesquieu scolpisce in poche parole il suo giudizio critico verso chi, preso dalla furia del cambiamento, smonta pezzo a pezzo le leggi di un Paese. Dice il filosofo francese che “non bisogna fare con le leggi quello che si può fare coi costumi”. Un monito per i nuovisti “ad ogni costo”.

Giampiero Cazzato, giornalista professionista, ha lavorato a Liberazione e alla Rinascita della Sinistra; oggi collabora col Venerdì di Repubblica