Il Generale Harold Alexander (da https://it.wikipedia.org/wiki/ Harold_Alexander#/media/File: Sir_Harold_Alexander_026065.jpg)

Il proclama Alexander è l’elemento chiarificatore delle intenzioni britanniche e alleate in merito alla partecipazione dell’Italia post-armistiziale alla guerra al tedesco, diretta emanazione del principio, in senso lato, che la libertà e la democrazia devono essere conquistate da un popolo con la forza delle idee, del combattimento con tributo di sangue e sacrifici perché nessuno concede libertà e democrazia gratuitamente.

L’Italia, nel 1944 si era illusa, a un anno dalla uscita dalla guerra, che la guerra si sarebbe conclusa con la vittoria alleata e che la sua adesione a essa, attraverso il movimento partigiano al nord e le unità del Regio Esercito a sud, la “Resistenza del filo Spinato”, che di fatto delegittimò agli occhi di tutti ma soprattutto dei tedeschi la Repubblica Sociale, gli avrebbero concesso un posto al tavolo della pace. L’illusione finì quando il 13 novembre 1944 dalla radio Italia combatte venne trasmesso un comunicato.

Con il comunicato passato alla storia come “Proclama Alexander” si esortavano tutti coloro che stavano combattendo al di là della linea gotica, nella valle padana e sulle Alpi a cessare ogni loro attività precedente per prepararsi alle future fasi della campagna d’Italia e dedicarsi ad attrezzarsi a superare l’imminente inverno, che peraltro si annunciava ancora più freddo e difficile di quello precedente.

In termini più concreti si stabiliva di: cessare le operazioni organizzate su larga scala; conservare le munizioni ed i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini; attendere nuove istruzioni che sarebbero date a mezzo radio Italia combatte o con mezzi speciali o con manifestini; si consigliava di non esporsi ad azioni arrischiate o azzardate o pericolose.

Da https://img2.annuncicdn.it /32/12/321249b42911bf0f24b879b18beb5f67_orig.jpg

In sintesi la parola d’ordine era: stare in guardia, stare in difesa, stare fermi.

L’interpretazione data sul momento dai partigiani a tutti i livelli era quella di lasciare la lotta e conservare le armi, di mettersi sulla difensiva, di non disturbare né fascisti né nazisti, di comprendere l’opportunità di non continuare la guerriglia e le azioni di sabotaggio, in pratica del “Proclama Alexander” l’interpretazione generale era quella di “tornare a casa”.

Era stato scelto il modo più infelice per dare una indicazione strategica. Avere usato la radio significava comunicare con tutti i partigiani ma anche con il nemico che apprendeva che il movimento “ribellistico” si metteva sulla difensiva, non attaccava e “ritornava a casa”. È stato proprio un caso, o anche questo era in linea con lo scopo recondito del proclama?

Il proclama giungeva, inoltre, nel momento della controffensiva tedesca invernale che proprio a metà novembre 1944 aveva assunto una virulenza devastante. Anche questo proprio un caso?

In pratica il “Proclama Alexander” dava mano libera alle forze nazifasciste di operare indisturbate verso l’intera Resistenza armata italiana. In più all’interno della stessa si alimentavano dubbi e riserve mentali non solo sull’aiuto degli Alleati ma anche sull’utilità di continuare a combattere.

Non era certo una soluzione brillante, caro Alexander, con cui trattare chi stava combattendo i tuoi nemici.

Un momento dello sbarco in Normandia (da http://bistrocharbonnier.altervista.org /wp-content/uploads/2017/02/sbarco-normandia.jpg)

Sbarcati nel giugno 1944 felicemente in Normandia, e nell’agosto altrettanto felicemente in Provenza, con l’Armata Rossa che avanzava da est, liberata Parigi, a novembre gli Alleati stavano giungendo al confine occidentale della Germania. Ormai la guerra era decisa. Sul fronte italiano, dopo aver superato Cassino, liberato Roma e Firenze, l’utilità di sostenere le forze combattenti italiane, sia quelle partigiane che quelle del Regio Esercito, politicamente stava venendo meno. Il rischio è che assumessero un peso politico, anche se utilissime sul piano militare.

Ritirate le migliori truppe combattenti statunitensi, britanniche e il Corpo di spedizione francese, il fronte italiano era tenuto da unità efficienti ma politicamente espressione di Paesi alleati di secondo o terzo piano, unità che i Romani avrebbero definito “ausiliares”. Erano la FEB, forza di spedizione brasiliana, il Corpo Polacco, le Divisioni indiane dell’esercito coloniale e unità di seconda scelta degli Stati Uniti, come la 92ª “Buffalo” di solo personale di colore e Britanniche, unità neozelandesi e altre di seconda schiera. Ma erano insufficienti a tenere tutto il fronte.

E siccome servivano soldati combattenti, il Corpo Italiano di Liberazione, espressione del Regno del Sud, reduce da Filottrano (luglio 1944) e inserito nel Corpo Polacco a livello divisionale, fu trasformato e potenziato, non più con armamento ed equipaggiamento italiano, ma con dotazioni britanniche. Il CIL diede vita a cinque Gruppi di Combattimento, con ordinamento britannico, in modo tale da integrare i Corpi d’Armata britannici e statunitensi, che nella primavera del 1945 avrebbero dovuto dare vita alla offensiva finale. I Gruppi di Combattimento erano nella sostanza vere e proprie divisioni organiche, ma non furono chiamate “divisioni” proprio per sminuire anche nei nomi e nei significati l’impegno dell’Italia.

Lo stemma del Corpo Italiano di Liberazione (CIL) (da https://it.wikipedia.org/wiki/ Corpo_Italiano_di_Liberazione# /media/File: Corpo_Italiano_di_Liberazione.jpg)

La particolarità ordinativa, ma da sottolineare con energia per il suo significato politico, era che i Gruppi di Combattimento non avrebbero avuto in organico forze corazzate e meccanizzate. Accanto alla fanteria e all’artiglieria campale, solo mezzi per il trasporto logistico e di sostegno. Questo stava a significare che i Gruppi di Combattimento non potevano condurre nessuna manovra risolutiva e conseguire una qualsiasi vittoria, ma solo di essere di supporto e sostegno alle manovre delle unità statunitensi e britanniche per il conseguimento del successo finale. Si voleva, in pratica, che l’Italia, da una parte dovesse mettere in campo le forze di fanteria, estremamente necessarie data la carenza di uomini, dall’altra non dovesse avere la possibilità di conquistare sul campo una qualsiasi vittoria propria, che, poi, al tavolo della pace sarebbe stata un pegno o un merito. La politica britannica in questo senso era chiarissima: l’Italia aveva perso la guerra, al tavolo della pace doveva solo sottoscrivere le condizioni dettate, non poteva vantare vittorie o altro. La partecipazione alla guerra era solo un riscatto di quello che aveva fatto dal 1940 al 1943. E questo fu, dal punto di vista britannico.

I Gruppi di Combattimento svolsero sempre azioni tattiche subordinate al disegno alleato. Il CIL partecipò alla battaglia di Ancona (1-18 luglio 1944) dando copertura ai polacchi, ma Ancona fu liberata da truppe polacche; Bologna, il 21 aprile 1945, fu liberata sempre dai polacchi, con il concorso dei Gruppi di Combattimento “Friuli” e “Legnano”. Non si ha nessuna vittoria “italiana”.

L’impiego subordinato a Comandi statunitensi e britannici delle truppe dei Gruppi di Combattimento, l’impiego – misconosciuto – delle oltre dieci divisioni Ausiliarie (oltre 200mila uomini al servizio degli alleati) doveva solo essere una partecipazione, utilissima sul piano militare, ma non doveva avere nessuna rilevanza sul piano politico.

La stessa cosa doveva essere per la Resistenza: azioni militari sì, ma peso politico nessuno. Siccome si profilava per la campagna finale, un impegno della Resistenza su larghissima scala militare che si sarebbe tramutato in un pegno politico rilevante, ecco il preventivo “Proclama Alexander” che invita i partigiani a ritornare a casa.

La politica britannica non ammetteva deroghe. I conservatori inglesi stavano già pensando al dopoguerra e agivano di conseguenza.

Nel novembre del 1944 la Resistenza dovette affrontare anche questa prova. Oltre all’azione destabilizzante, si aggiunse l’azione del nemico.

I tedeschi, soprattutto in Emilia e in Liguria, all’indomani del “Proclama Alexander” diedero vita a una delle più violente reazioni aggressive di tutta la guerra. Dal 14 al 21 novembre 1944 “non vi era più un angolo dell’Italia partigiana che non era sconvolto, messo a ferro e fuoco dai rastrellamenti: almeno la metà delle forze tedesche e tutte le forze repubblichine furono impegnate contemporaneamente e in tutti i settori per schiacciare la Resistenza”.

Esiste quindi una coerenza nella politica Alleata, soprattutto britannica, verso l’Italia combattente, quell’Italia che voleva un futuro diverso e migliore. Chi combatteva per questo ideale, era abbandonato a se stesso in nome di interessi britannici del dopoguerra, chi era “dall’altra parte” e combatteva per una Italia come era stata, ne approfittò per sconfiggere e spazzar via definitivamente i propri nemici.

Emerge il dato inconfutabile: libertà e democrazia si conquistano, (oggi dobbiamo anche dire si devono difendere) nessuno le regala.

Il proclama Alexander, al di là di tutte le interpretazioni e sfumature, ha questo preciso significato. L’averlo ignorato e disatteso a tutto tondo è una delle più grandi vittorie della Resistenza.

Massimo Coltrinari, Generale, Direttore Centro Studi sul Valor Militare, Istituto del Nastro Azzurro

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Per approfondire: Battaglia R., Storia delle Resistenza italiana. 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945, Torino, Einaudi, 1964, pgg. 435