Il cielo era coperto quel 25 marzo 1957, e Roma aveva accolto gli ospiti internazionali con qualche scroscio di pioggia. Konrad Adenauer, Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, ha annunciato la sua presenza solo all’ultimo momento, non ci sono invece il Presidente della Repubblica francese ed i Primi Ministri di Belgio e Lussemburgo, rappresentati dai rispettivi Ministri degli Esteri. La sobria cerimonia di firma del Trattato che istituisce la Comunità Economica Europea e l’Euratom si tiene nella sala degli Orazi e Curiazi e un osservatore attento potrebbe notare che quell’entità che avrebbe cambiato la storia del mondo – garantendo tra l’altro una pace duratura – nasce con un piccolo ed innocente trucco, come spiega l’Ambasciatore Fagiolo al Sole 24 Ore.

In questi ultimi sessant’anni, la funzionalità ha spesso sostituito le strette regole del protocollo e la riunione nella capitale italiana ne è forse il primissimo esempio: la Germania chiede che, in deroga alle normali regole del diritto internazionale, faccia fede per l’interpretazione del Trattato non solo la versione nella lingua originale – in questo caso il francese – ma anche quella in tedesco. Il testo è lungo e dettagliato, non c’è tempo per la complessa procedura di traduzione e rilettura dei giuristi linguisti e l’escamotage viene ideato in fretta. Il Cancelliere Adenauer appone la sua firma accanto a quelle degli altri Presidenti e Capi di Governo, ma il documento ha soltanto la prima e l’ultima pagina in tedesco…

Scomparso da qualche anno il trentino De Gasperi, considerato uno dei padri della CEE assieme al francese di Lorena Schuman ed al tedesco di Renania Adenauer, sono il primo ministro Antonio Segni ed il ministro degli Esteri Gaetano Martino a rappresentare l’Italia, assieme al lussemburghese Joseph Bech, il francese Christian Pineau, Paul-Henri Spaak per il Regno del Belgio e Joseph Luns per i Paesi Bassi.

 

È una Roma assolata che accoglie invece i rappresentanti degli ormai 27 Stati membri (più 1 assente, il Regno Unito) per celebrare i sessant’anni del Trattato. Capitale blindata per timore di attentati, scrivono i media; che ospita contemporaneamente una manifestazione pro-Europa ed una contro e che vede il Presidente della Commissione Europea Junker firmare la “Dichiarazione di Roma 2017” con la penna usata da Joseph Bech nel ’57 e sporcarsi le dita d’inchiostro.

Il Presidente della Commissione Europea Junker firma la “Dichiarazione di Roma 2017” con la penna usata da Joseph Bech nel ’57 (da http://images2.roma.corriereobjects.it/methode_image/ 2017/03/25/Roma/Foto%20Roma/LAPR1275_BC.jpg?v=201703252008)

Se l’aspetto pragmatico degli inizi è ancora presente, si è perso, negli anni, quel formalismo che è però anche sostanza.

Il Trattato del ’57 si apre con un roboante “Sua Maestà il Re dei Belgi”, seguito da qualche Presidente della Repubblica e da “Sua Altezza Reale la Granduchessa del Lussemburgo e Sua Maestà la Regina dei Paesi Bassi”; la Dichiarazione del 2017 comincia con “Noi, i leader dei 27 Stati membri e delle istituzioni dell’UE”.

L’uso del vocabolo leader – in inglese nel testo – già indica un livello diverso, quasi a sminuire il valore del documento. Non pretendevamo certo un Trattato, ma accontentarsi di un neutro leader lascia un gusto amaro, che non è addolcito dalla fierezza della prima riga. “La costruzione dell’unità europea è un’impresa coraggiosa e lungimirante” – riconoscono “con orgoglio” i firmatari – che ha creato “una comunità di pace, libertà, democrazia, fondata sui diritti umani e lo stato di diritto”. Peccato che, subito dopo, si parli di “una grande potenza economica che può vantare livelli senza pari di protezione sociale e welfare”.

Mancano la visione e quella sottile retorica che è spesso balsamo per i cuori. L’unità europea iniziata come il sogno di pochi è diventata la speranza di molti, ma “il contesto economico” immediatamente dopo i diritti umani, è chiaramente fuori posto, soprattutto se accompagnato dall’autocelebrazione sul welfare e sulla protezione sociale, che diminuiscono giorno dopo giorno.

Un’Europa accusata da più parti d’essere strumento delle banche e dei poteri finanziari avrebbe potuto sfumare – o almeno usare con garbo – i concetti economici, cercando d’insistere sul ruolo sociale e di Pace della UE. Ma certe abitudini son dure a morire e i leader si dichiarano pronti ad offrire ai cittadini “sicurezza e nuove opportunità”.

Che la sicurezza sia una domanda esplicita degli Europei è un dato di fatto, forse sarebbe stato però preferibile che si parlasse meglio e subito di progresso comune, di migliori condizioni per i “popoli europei” – come fa il Trattato del ’57 legando sin dalla terza riga “economia e sociale”.

La dichiarazione di Roma del 25 marzo di quest’anno, a dire il vero, lascia aperta una speranza, quella di un’Unione europea “più forte e più resiliente”, attraverso un’unità e una solidarietà ancora maggiori. A parte l’abuso del termine “resiliente”, che dopo anni d’oblio pare sia tornato di moda pur di non pronunciare il sinonimo “Resistente” – che a noi ben più aggrada – l’unità tra i Paesi è finalmente vista come una necessità ed una libera scelta, pur ammettendo che si possa agire “a ritmi e con intensità diversi se necessario, ma sempre procedendo nella stessa direzione”.

Bisogna attendere il quinto paragrafo per trovare un accenno allo sviluppo culturale, ripiombando – ahimè – subito dopo nell’ossessione securitaria di un’Unione in cui le frontiere esterne siano protette, e determinata a combattere il terrorismo e la criminalità organizzata.

Una pittata di verde

E dopo qualche accenno che si direbbe di pura facciata a un continente prospero e sostenibile “che generi crescita e occupazione” con un mercato unico forte ed una moneta unica stabile, l’Unione di domani si da anche una pittata di verde, aspirando “ad un’energia sicura e conveniente e ad un ambiente pulito e protetto”. Come raggiungere l’equilibrio tra i due parametri – quello ambientale e quello energetico – non è dato sapere, limitandosi a parlare di “crescita sostenibile”, altra immagine molto alla moda.

Solo alla terza pagina i leader si ricordano delle “parti sociali”, della parità tra donne e uomini e della lotta alla disoccupazione, la discriminazione, l’esclusione sociale e la povertà e ci vogliono ben quarantacinque righe prima di leggere le parole “giovani” e “istruzione” e un ulteriore sforzo di lettura per scorgere un accenno al patrimonio e alla diversità culturale.

È una dichiarazione altalenante, che sembra mischiare con un filo poco logico aperture e risposte scontate, che non riesce a concentrarsi sui vari argomenti, succedendosi “Un’Europa più forte sulla scena mondiale” ai bisogni dei giovani; incrociando la stabilità e “la prosperità nel suo immediato vicinato a est e a sud” con un veltroniano “ma anche in Medio Oriente e in tutta l’Africa e nel mondo”.

E quando il lettore già si trova a sognare le istituzioni impegnate nella risoluzione dei conflitti viene bruscamente riportato sulla terra, perché alla prosperità è associata, nella stessa frase – con un semplice punto e virgola di separazione – “la creazione di un’industria della difesa più competitiva e integrata”.

Da http://www.lavocedinomas.org/site/wp-content/uploads/2013/07/Commercio-armi.jpg

Mentre i padri e le dimenticate madri dell’Europa del ’57 si esprimevano con parole di significato – anche simbolico – profondo, quali “Decisi, Desiderosi, Risoluti”, “Determinati a porre le fondamenta d’unione sempre più stretta tra i popoli europei” – indicando sin dal preambolo del Trattato che il popolo era al centro della loro azione – i successori del 2017 sembrano peccare di superbia, essendo “fermi nella convinzione che il futuro dell’Europa è nelle nostre mani e che l’Unione europea è il migliore strumento per conseguire i nostri obiettivi”.

Sono i capi che parlano, non i popoli; sono i “loro” obiettivi che devono esser conseguiti e prova ne è che la successiva frase recita: “Ci impegniamo a dare ascolto e risposte alle preoccupazioni espresse dai nostri cittadini e dialogheremo con i parlamenti nazionali”.

Se Roma ’57 è un insieme di principi e regole condivise e firmate dai rappresentanti delle nazioni nell’interesse dei loro cittadini, Roma ’17 è un novello Statuto Albertino, una Costituzione ottriata, che annacqua lo spirito di collaborazione d’origine con il rispetto del principio di sussidiarietà.

Attenti a non farsi dei nemici, lasciando aperta ogni porta alle derive nazionalistiche, invece di ribadire il ruolo centrale delle istituzioni europee nel progresso dei popoli d’un Europa Unita, i dichiaranti sottolineano che lasceranno “ai diversi livelli decisionali sufficiente margine di manovra”, per un’Unione grande sulle grandi questioni e piccola sulle piccole. Qualunque cosa tale formula voglia in realtà dire…

Il Trattato di Roma, quello originale, nato e ispirato dagli scritti dei Resistenti e degli Antifascisti, enuncia una serie di libertà. La Dichiarazione del 25 marzo 2017 è una specie di “lista di buoni propositi”, alcuni talmente ovvi da essere condivisibili, altri francamente fuori posto – a mio modesto avviso – in un documento che dovrebbe ridare fiducia agli Europei.

Ma il testo ha almeno il pregio di non cercare nemmeno d’apparire “vicino ai cittadini”, tanto da concludersi con un perentorio “Noi leader, lavorando insieme nell’ambito del Consiglio europeo e tra le istituzioni, faremo sì che il programma di oggi sia attuato e divenga così la realtà di domani”.

Sembra più una dichiarazione di guerra che un annuncio di pace e prosperità. Ma tant’è, i “leader” sono stati scelti dai popoli e insieme hanno scelto i responsabili europei, un Presidente del Consiglio votato da tutti salvo che dal proprio Paese, un Presidente della Commissione che da ministro delle Finanze granducale ha indefessamente operato per concedere sgravi fiscali alle multinazionali, un Presidente del Parlamento che fu portavoce di Berlusconi.

Buon compleanno Europa, ne hai passate tante, sopravvivrai anche alla Dichiarazione di Roma.

Filippo Giuffrida, giornalista, Presidente ANPI Belgio, Vicepresidente della FIR in rappresentanza dell’ANPI