Che Angela Merkel abbia un fiuto politico particolare non è una novità. Non sarebbe dove e chi è senza quella capacità di adattamento che ha portato la figlia di un Pastore della DDR ad incarnare il mito della lady di ferro del nuovo millennio. Accanto all’abilità, al guizzo creativo però, vive e prospera un innato senso della “realpolitik”, il saper scegliere non solo il male minore, ma l’essere in grado di plasmare le posizioni tedesche tenendo conto degli interessi economici e sociali del Paese.
In questo primo postulato si ritrovano parte delle ragioni che hanno portato la Germania ed il capo del governo tedesco in prima persona, a prendere una posizione aperta verso i rifugiati, i profughi, i richiedenti asilo – questioni di semantica non solo giuridica – annunciando l’apertura delle frontiere all’immigrazione, quella siriana in particolare. Diciamolo tuttavia con franchezza: la Germania non poteva permettersi altro. Innanzitutto per ragioni d’immagine, sia della Cancelliera sia della nazione. Dopo il ruolo del cattivo interpretato con maestria nella crisi greca e la caduta di stile dell’intervista con la giovane Palestinese, Angela Merkel aveva bisogno di un’azione di comunicazione positiva. La Grande Germania evoca tuttora spettri del passato con cui è difficile convivere e tirare troppo la corda sarebbe pericoloso. Sta passando quasi inosservato un dato di estremo interesse nella stessa linea: la posizione della Serbia. Mentre il governo macedone stende il filo spinato – peraltro con scarsi risultati – per arginare i flussi, i “cattivi” della guerra jugoslava allestiscono con i pochi mezzi economici disponibili ben quattro centri di accoglienza, mostrano disponibilità e favoriscono come possono il passaggio dei migranti. Un’operazione di “Comm”, come si dice nel gergo burocratico brussellese per indicare la comunicazione, perfettamente riuscita.
A ciò si aggiunge la necessità di mostrare al mondo – non soltanto all’Europa – che il governo federale non si lascia intimidire dai rigurgiti neonazisti che hanno caratterizzato gli ultimi mesi; in Germania comanda la Merkel, non il Ppd – il Partito Nazionaldemocratico – né Pegida – odioso acronimo che sta per “Patrioti europei contro l’islamizzazione dell’Occidente.”
È il cosiddetto approccio tolleranza zero, ben riassunto nella recente dichiarazione della Signora Merkel: “Ci deve essere tolleranza zero per odio e xenofobia. Non sarebbe la Germania che sogno e fortunatamente non è neanche quella della stragrande maggioranza dei tedeschi”.
Parole pesanti, che lette in filigrana danno l’idea della prima lezione all’Europa ed in particolare ad Ungheria, Slovacchia o Repubblica Ceca, che hanno trattato i profughi in maniera astiosa e inquisitoria. Il neofascista Orban, a capo del governo ungherese, tenta da un paio di anni di riscrivere la storia, insinuando che gli ungheresi furono soltanto vittime dell’invasione nazista e che furono i tedeschi a colpire gli ebrei. L’attuale esempio tedesco serve anche a ricordare a quei Paesi le pagine oscure della loro storia, come quei 300mila ungheresi che passarono la frontiera in un non lontano inverno del 1956.
Il messaggio inviato a Bruxelles – o meglio ai governi degli Stati membri dell’Unione Europea – è altrettanto chiaro: la politica di asilo europeo non funziona. La Germania, da sempre motore dell’Europa Unita, s’impegna con il ruolo di protagonista per far sì che tutti i governi europei ricordino quei valori di umanità e di accoglienza che sono propri alla Ue. Tutta l’Europa è chiamata in causa, attraverso un’equa ripartizione di compiti ed obblighi; lo status quo, in cui pochi Stati accolgono da soli la maggior parte dei profughi, è la sconfitta dei valori fondanti dell’Europa.
La Germania resta il leader incontrastato: mentre il governo britannico annuncia numeri ridicoli, la Francia è combattuta tra le sue responsabilità nella crisi siriana e le tradizioni di “fraternité”, l’Italia e la Grecia cercano disperatamente di far fronte ai problemi legati all’arrivo dei migranti, ben sapendo di non essere terra di destinazione finale, la Germania impartisce lezioni e suggerisce soluzioni.
E la realpolitik in tutto questo? La costatazione giunge come un’illuminazione: in Germania arriva essenzialmente la middle-class siriana, gente istruita, piccola borghesia con abilità e capacità, cultura e voglia di riscatto. Famiglie che fuggono guerra e distruzione – primo lato della medaglia – forza lavoro pronta a sopperire ai bisogni tedeschi – altro lato un po’ più in ombra.
Secondo uno studio pubblicato a maggio dalla società di revisione dei conti Bdo e l’Istituto economico mondiale Hwwi di Amburgo, la Germania è diventato il Paese con la più bassa natalità al mondo, scendendo a 8,3 nuovi nati ogni 1.000 abitanti. Con una speranza di vita media alla nascita di 80,44 anni, che risale quasi ad 84 per le donne, è evidente che i tedeschi hanno disperatamente bisogno di due cose: qualcuno che paghi le loro pensioni e che, al contempo, si occupi del numero crescente di anziani. Gli italiani, i portoghesi, i polacchi, perfino i turchi ormai hanno acquisito la nazionalità tedesca e non sono più i gastarbeiter che ricoprivano quel ruolo. Chi meglio di una manodopera qualificata e di buon livello potrebbe farlo?
Analisi cinica, certo, ma un altro elemento da tenere in considerazione per comprendere la scelta di Angela. Incidentalmente gli stessi parametri, o quasi, si applicano ad un altro Paese di grande accoglienza, la Svezia. Ovvio che tali criteri non si applichino ad altre realtà europee. Con un tasso di disoccupazione del 7.3% l’Ungheria è confrontata a ben altri problemi e lo stesso può dirsi per la Repubblica Ceca, con il suo 5,8%, o il 18% della Croazia.
Basta tutto questo a comprendere le posizioni così diverse dei Paesi europei nei confronti di una crisi che ricorda, con gli ovvi limiti di un paragone astorico, la dissoluzione della Federazione jugoslava?
Forse non completamente, ma certo l’impatto che la decisione tedesca ha avuto sul modo di gestire l’emergenza è percepibile nel “Discorso sullo Stato dell’Unione” pronunciato dal Presidente della Commissione Europea Junker il 9 settembre a Strasburgo.
La proposta della Commissione per reagire all’emergenza è direttamente influenzata dalle sensibilità mostrate dagli Stati membri. La priorità assoluta per l’Europa, sostiene l’ex premier lussemburghese, è rispondere alla crisi dei rifugiati. E’ innanzitutto una questione di umanità e di dignità umana e di giustizia nei confronti della storia. “Stiamo battendoci contro lo stato islamico; perché non siamo pronti ad accogliere chi fugge?” ha retoricamente chiesto il presidente della Commissione europea. “Tutti noi dobbiamo ricordare che l’Europa è un continente in cui siamo stati tutti, in un qualche momento della storia, dei rifugiati” ha proseguito Junker.
La Commissione propone quindi un’agenda comune, che prevede la ridistribuzione dei profughi, blocca ogni tentazione di rinegoziare la libera circolazione prevista dal Trattato di Schengen ma al contempo prevede di rafforzare i confini esterni dell’Unione e lo strumento di Frontex, con una guardia costiera di confine efficace e la creazione di canali di immigrazione legali contro la tratta degli esseri umani.
Manca un punto essenziale, ovvero una comune politica sul diritto d’asilo ed una proposta su come si gestirà il rientro dei profughi al termine della crisi.
Filippo Giuffrida, giornalista, Presidente ANPI Belgio, membro del Comitato Esecutivo della FIR in rappresentanza dell’ANPI
Pubblicato lunedì 14 Settembre 2015
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