L’Anpi provinciale di Verona ha promosso un’iniziativa per ricordare il 79° anniversario dell’eccidio dei fratelli Cervi, fucilati insieme a Quarto Camurri alle 6.30 del 28 dicembre 1943, al poligono di tiro di Reggio Emilia.

La città di Verona e altri undici Comuni della provincia hanno aderito, ciascuno col proprio patrocinio, alla proposta del presidente Anpi, Andrea Castagna: tra il 28 e il 29 dicembre prossimi deporranno una corona di fiori sulle targhe delle vie dei loro territori dedicate ai sette fratelli di Campegine. Si vuole anche così ricordare e rinverdire i fatti della lotta di Liberazione che, dopo venti mesi di immani sacrifici, ci hanno portato alla Costituzione repubblicana.

I Comuni aderenti sono Verona, Cerea, Isola della Scala, San Bonifacio, San Giovanni Lupatoto, San Pietro in Cariano, Soave, Sona, Belfiore, Castel d’Azzano, Sant’Ambrogio di Valpolicella, San Martino Buon Albergo.

Abbiamo chiesto ad Andrea Castagna cosa rappresentano ancora i Cervi e la loro morte e quale messaggio è in grado di lanciare ancora la loro commemorazione.

Ricordare il sacrificio dei fratelli Cervi rimane un dovere per tutti, innanzitutto per le Istituzioni, comprese quelle locali che hanno vie loro intitolate, ma serve soprattutto per non dimenticare che ci sono stati donne e uomini che non si sono voltati dall’altra parte, non sono stati indifferenti, hanno messo a disposizione energie e la loro stessa vita contro la barbarie che si stava consumando.

Il presidente provinciale Anpi Verona, Andrea Castagna

Come nasce questa iniziativa? 

La scelta di commemorare i fratelli Cervi nasce dall’esigenza di coinvolgere la cittadinanza attraverso le Amministrazioni comunali per celebrare non solo le ricorrenze “storiche” legate alla Resistenza e alla guerra partigiana, ma anche le figure di chi si è sacrificato per la libertà e che, anche così, va fatto vivere costantemente nella memoria collettiva.

Come è stata accolta dalle amministrazioni comunali che vi hanno aderito?

Abbiamo avuto consensi ma anche indisponibilità ad accogliere il nostro invito. Ciò dimostra quanto sia necessario perseverare e, contemporaneamente, “ricostruire” la memoria collettiva e la storia del nostro Paese. La lotta di Liberazione e la Resistenza hanno saputo coniugare, nell’unico obiettivo di sconfiggere il nazifascismo, sensibilità ideologiche e politiche diverse tra loro e che potevano essere anche idealmente in contrasto, ma che sono state in grado di trovare unità di intenti e di azioni. Anche questa capacità di far fronte comune davanti alle difficoltà andrebbe rivalutata e fatta risaltare. A chi considera le nostre iniziative “divisive”, si risponde con le parole di Smuraglia: “È divisivo chi sceglie di non partecipare, non chi invita tutti a farlo”. Tant’è vero che per ricordare l’eccidio dei Fratelli Cervi abbiamo invitato non solo le istituzioni locali, ma anche associazioni e organizzazioni sindacali che come l’Anpi vogliono mantenere la memoria di ciò che è stato il fascismo, e conservare vivo lo spirito che ha animato l’antifascismo, come quello dei sette fratelli. L’Anpi di Verona è partita dalla volontà di far memoria della tragica morte dei Cervi quest’anno come nei futuri e vorremmo individuare ciascun comune della nostra provincia che ha della toponomastica a loro dedicata. Ma vorremmo anche individuare e valorizzare il ricordo, la storia, le azioni di altri donne e uomini meno celebri eppure ricordati nella toponomastica.

Scrisse Alcide Cervi nel libro “I miei sette figli”: «Dopo che avevo saputo, mi venne un grande rimorso. Non avevo capito niente, niente, e li avevo salutati con la mano, l’ultima volta, speranzoso, che andavano al processo e gliel’avrebbero fatta ai fascisti, loro così in gamba e pieni di stratagemmi. E invece andavano a morire. Loro sapevano, ma hanno voluto lasciarmi l’illusione, e mi hanno salutato sorridendo: con quel sorriso mi davano l’ultimo addio. Figli, perché avete avuto pietà della vecchiezza mia, perché non mi avete detto che andavate alla fucilazione? Avrei urlato ai fascisti, come ho fatto sempre, e forse non sareste morti. Adesso che mi hanno detto tutto, e i vostri compagni di carcere mi hanno ripetuto le frasi vostre, il rimorso mio è grande». 

Le donne e i bambini della famiglia Cervi. Al centro, papà Alcide, unico uomo adulto sopravvissuto alla strage fascista. Le donne di casa Cervi, nonostante la morte dei sette fratelli, continuarono a dare rifugio a partigiani e militari alleati

Rileggere quella testimonianza è sempre una grande emozione.

«Quando la guardia fascista ci disse: andate a dormire, sarà per domattina, tu Gelindo rispondesti: – Cosa volete che andiamo a dormire, è tanto che dormiamo e andiamo verso il sonno eterno. – Ma quella frase io non la sentii, ché altrimenti avrei capito. E quando tu Ettore, il più piccolo e il più caro, lasciasti il tuo maglione bianco a Codeluppi, io ti chiesi: – Perché lo lasci? A Parma farà freddo. – E tu mi sorridesti, senza rispondermi. Ma ora ho saputo che a Codeluppi avevi detto: – Perché farlo bucare? È nuovo e tienilo per tuo figlio, almeno servirà a qualcosa. – Perché avete fatto così figli miei? È colpa mia se ho sempre creduto in voi, che nessuno l’avrebbe vinta su di voi? Non è sempre stato così, quando eravamo insieme e tornavate vincitori dai processi, dai carceri, dalle lotte coi fascisti, dai colpi partigiani? Ma alla morte, alla morte non ci avevo mai pensato. Ben meritato è il rimorso, per me superbioso, che vi credevo intoccabili dalla morte. E se anche in carcere lo dicevo, che potevate essere morti, il sangue non ci credeva, e si ribellava. Ma i padri e le madri sono fatti così, adesso lo capisco. Pensano che loro moriranno, che anche il mondo morirà, ma che i loro figli non li lasceranno mai, nemmeno dopo la morte, e che staranno sempre a scherzare coi loro bambini, che hanno cresciuto per tanti anni, e la morte è un’estranea. Che sa la morte dei nostri sacrifici, dei baci che voi mi avete dati fino a grandi, delle veglie che ho fatto io sui vostri letti, sette figli, che prendono tutta una vita!».

Pagine capaci di restituire un dolore che attraverso generazioni si rinnova anno dopo anno.

Il muro del poligono di tiro di Reggio Emilia dove vennero fucilati i sette fratelli Cervi e il loro compagno Quarto Camurri

«E tu Gelindo, che eri sempre pronto alla risposta, ora non mi conosci più e non mi rispondi? E tu Ettore, che nell’erba alta dicevi: non ci sono più. Ora l’erba alta ti ha coperto tutto, e non ci sei più. E tu, Aldo, tu così forte e più astuto della vita, tu ti sei fatto vincere dalla morte? Maledetta la pietà e maledetto chi dal cielo mi ha chiuso le orecchie e velati gli occhi, perché io non capissi, e restassi vivo, al vostro posto! Niente di voi sappiamo più, negli ultimi momenti, né una frase, né uno sguardo, né un pensiero. Eravate tutti e sette insieme, anche davanti alla morte, e so che vi siete abbracciati, vi siete baciati, e Gelindo prima del fuoco ha urlato: – Voi ci uccidete, ma noi non morremo mai! È vero, figli miei, vostro padre aveva ragione, il sangue diceva giusto, voi non potete morire».

Alcide Cervi

Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore. È bello, quasi un rito, ripetere e ricordare tutti insieme i loro nomi. I nomi dei figli di Alcide Cervi e di Genoveffa Cocconi. Lei morta poco dopo di crepacuore sapendo che a sera non sarebbero più tornati, lui che fin dal 1945 smette di essere Alcide Cervi per diventare semplicemente “papà Cervi”.

Ha scritto Mirco Zanoni, responsabile coordinamento dell’Istituto Cervi: «Forse nessuno gli ha mai chiesto che ne pensasse di questo cambio d’anagrafe pubblico. Ma lo viveva con la stessa dignità e la consapevolezza che gli consentiva di stare eretto davanti al dolore. La vita di papà Cervi era iniziata a 70 anni. Quando nell’ottobre del ‘45 la storia della sua famiglia varcò per sempre la soglia dei Campirossi per diventare patrimonio pubblico. Fu un altro funerale, a far nascere papà Cervi: la consegna delle spoglie dei suoi sette figli alla loro terra, a Campegine. Nel luogo dove sono ora, a fianco del padre, della madre, delle mogli. Papà Cervi nasce vecchio, con il cappello e i baffi grigi, con le rughe di vita e di fatica che ne fanno un’icona perfetta per l’Italia che cerca specchi non infranti, tra le macerie della ricostruzione»

E di specchi simili per guardarsi e riconoscersi, un Paese ne ha sempre bisogno.