Il piccolo uomo della luna, [che] non ha paura di essere visionario: il suo canto è un’affermazione integrale dei valori autentici della nostra vita.

Maurizio Corgnati, copertina del disco Cantacronache 4

Il piccolo uomo della luna, Fausto Amodei, visionario e profetico, insieme alle corde della sua chitarra, ha prodotto pietre miliari nella storia della canzone popolare e di protesta, generando una schiera di prosecutori, illustri allievi, appassionati cantautori, ispirati da un’idea di canzone per niente docile e accomodante, ma foriera di tesi invise alla cultura dominante. Illuminate da staffilate polemiche e satiriche, portatrici di istanze a difesa dei diritti civili, con esse ha contestato chi cercava di cancellare e stravolgere conquiste democratiche. Come la libertà dei popoli, la giustizia sociale, il divorzio, il diritto al lavoro, la pace, l’antifascismo. Così, in occasione dell’Ottantesimo della Liberazione dal nazifascismo, con questo scritto che ci ha inviato, ci ricorda l’importanza di continuare a “Cantare il 25 Aprile”.

“Avevamo vent’anni e oltre il ponte – oltre il ponte ch’è in mano nemica – vedevam l’altra riva, la vita; –  tutto il bene del mondo oltre il ponte”; “Dalle contese montagne, dalla ribelle pianura, con in tasca un pezzo di pane e a tracolla un vecchio moschetto, a liberarci tu sei venuto, partigiano sconosciuto”; “Forza ch’è giunta l’ora, infuria la battaglia, per conquistar la pace, per liberar l’Italia, scendiamo giù dai monti a colpi di fucile, evviva i partigiani! È festa d’Aprile!”; “Erano tredici milioni di uomini; i nazi fecero tredici milioni di grigia, grigia cenere; non lo dovete dimenticare, scolpitelo nel cuore in ogni casolare”; “O Badoglio, o Pietro Badoglio, ingrassato dal fascio littorio, col tuo degno compare Vittorio ci hai già rotto abbastanza i coglion!”; “Combatte il partigiano la sua battaglia: tedeschi e fascisti, fuori d’Italia! Gridiamo a tutta forza PIETÀ L’È MORTA!”.

“Siamo i ribelli della montagna, viviam di stenti e di patimenti, ma quella fede che ci accompagna sarà la legge dell’avvenir”, ha scritto Amodei. “O fucile, vecchio mio compagno, che mi aiuti nel combattimento, e tu vali molto più di un regno, sei la chiave della libertà”. “Lassù sulle colline del Piemonte ci stanno i partigiani a guerreggiar, guardando la pianura all’orizzonte aspettano il momento di calar. Ma un dì pure tu laggiù ritornerai, la mamma e la bella bacerai”; “E quei briganti neri mi hanno arrestato, in una cella scura mi han portato. Mamma, non devi piangere per la mia triste sorte; piuttosto di parlare vado alla morte”; “Dai monti di Sarzana un dì discenderemo, all’erta partigiani del battaglion Lucetti. Il battaglion Lucetti son libertari e nulla più, coraggio e sempre avanti, la morte e nulla più.”; “Portiamo l’Italia nel cuore, abbiamo il moschetto alla mano, a morte il tedesco invasore, ché noi vogliamo la libertà. A morte il fascio repubblican, a morte il fascio, siam partigian!”; “Fate largo che passa la Brigata Garibaldi, la più bella la più forte la più forte che ci sia. Fate largo quando passa, il nemico fugge allor, siam fieri, siam forti per cacciare l’invasor.”; “Quand ch’a j’ero a Paralup i dormìo sota ij cop e sensa paja. A’s fasìo tirè ‘l cinghin, a’s fasìo i tajarin con ël tritòlo.”; “Il bersagliere ha cento penne e l’alpino ne ha una sola, il partigiano ne ha nessuna a sta sui monti a guerreggiar…quando poi ferito cade non piangetelo dentro il cuore, perché se libero un uomo muore che cosa importa di morir!”

Il gruppo di Cantacronache. Da sinistra a destra: Sergio Liberovici, Fausto Amodei, Michele L. Straniero, Margot

“Ho celebrato il 25 Aprile – dice Amodei – sempre cantando queste canzoni, o su un palcoscenico, o in un’osteria, all’inizio assieme ai compagni di Cantacronache, Michele Straniero, Sergio Liberovici, Margot e più tardi con tutta la compagnia del Nuovo Canzoniere Italiano, assieme a Giovanna Marini, Paolo Pietrangeli, Gualtiero Bertelli, Ivan della Mea, Paolo Ciarchi. Quest’anno e gli anni a venire le cantino le nuove generazioni, per ricordare sempre il 25 Aprile”.

Nato a Torino, classe 1934, diploma presso il Liceo Alfieri e poi laurea in architettura al Politecnico di Torino, per breve tempo è stato militante nel movimento laico di sinistra Unità Popolare, fondato da Ferruccio Parri e nel 1968 deputato del Psiup. Premio Tenco nel 1975, la commissione rilevava la natura d’avanguardia della sua canzone e di lui così scrisse: “Fu l’antesignano dei cantautori italiani, agendo all’interno del gruppo Cantacronache di cui fu l’esponente più rappresentativo, sul finire degli anni Cinquanta. Si contrappose alla produzione canzonettistica di allora attraverso la ricerca di un nuovo linguaggio e introducendo una componente contenutistica fino ad allora assente (…). Raggiunge il massimo delle sue possibilità espressive nella canzone politica e satirica, di cui rimane forse il più autorevole rappresentante italiano”.

Togliendo il “forse”, difficilmente è possibile rintracciare autori del calibro di Fausto Amodei, oggi novantenne che, come ha raccontato a chi scrive in un recente scambio di mail, incontrò la musica sin da bambino. “In famiglia – ha scritto – la musica era di casa: mia madre studiava canto da mezzosoprano, mio fratello Massimo aveva dato l’esame del quint’anno al Conservatorio, ed è stato il mio mentore nei riguardi della musica classica; mi portò al primo concerto sinfonico (naturalmente Beethoven) che avevo tredici o quattordici anni.”

Se Giovanna Marini seguì le prime lezioni di pianoforte con la madre Ida Parpagliolo, per poi proseguire su una strada alternativa, scegliendo la chitarra come strumento di studio e di lavoro, gli si domanda quale rapporto abbia avuto Amodei con i diversi strumenti che suona e che ha suonato. Ma soprattutto con la chitarra a cui ha dedicato canzoni che sono veri e propri manifesti di poetica. Come Il ratto della chitarra (Cantacronache 6, Italia Canta, 1960), dove lo strumento è metafora della natura anticonformista di Amodei: canta versi un po’ insolenti in barba alla censura, contro i padroni e i potenti. Alle volte estremista, la sua grande ambizione è di accompagnare la musica della rivoluzione.

In Canzone della mia chitarra (Cantacronache 9, Cedi, 1966) essa diventa l’amica fedele, una voce mai al servizio dei potenti, ma sempre pronta a cantare le gioie e le speranze della povera gente.

“La fisarmonica – spiega Amodei – che suonai dai sei ai dodici anni, prendendo lezioni da una signorina che era Capomanipolo delle Piccole Italiane, (io ero Figlio della Lupa) ebbe il merito di farmi digerire il solfeggio e la lettura nelle chiavi di violino e basso. Il pianoforte lo suonai dai dodici ai diciotto anni, prendendo lezioni dalla madre di un mio compagno delle scuole medie, e successivamente da un pianista professionista, amico di famiglia, e continuai a suonarlo, con molti intervalli, fino a cinque/sei anni fa, con repertorio rigidamente classico. Negli ultimi anni suonai in duo con un amico violinista. La chitarra la impugnai per l’appunto a diciotto anni, appena matricola nella facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, su istigazione di un amico di università, che aveva una madre ed uno spirito napoletani, e mi avviò ad un repertorio non classico ma popolare. La chitarra mi accompagnò durante tutti gli anni di università (caratterizzato da viaggi estivi in autostop per parecchi paesi europei, con la conoscenza, negli Alberghi della Gioventù di canzonieri popolari di ogni dove) e fu una questione privata, cioè limitata ad esecuzioni tra amici, senza esibizioni pubbliche né impulsi compositivi, fino al ’57, quando nacque Cantacronache, che mi coinvolse”.

Il poeta, saggista e critico letterario Franco Fortini

Nella Torino di fine anni Cinquanta prendeva vita l’esperienza Cantacronache, nata con un intento molto preciso: “Evadere dall’evasione” era il motto dietro cui si celava il proposito di contestare la società, la politica, la cultura di quegli anni, componendo canzoni che fossero la cronaca degli aventi tragici che sconquassavano l’Italia del dopoguerra e non innocui motivetti usa e getta. L’aspetto innovativo era anche l’aver coinvolto i grandi scrittori e poeti, da Italo Calvino a Franco Fortini, Mario Pogliotti, Gianni Rodari, Giorgio De Maria, Umberto Eco.

L’ispirazione venne a Sergio Liberovici dopo un viaggio nella Germania dell’Est. Qui entrò in contatto col Berliner Ensemble di Brecht che gli offrì lo spunto di provare a scrivere canzoni “di valore critico-contingente”, canzoni cioè che facessero da specchio alla realtà presente e che avessero una funzione di critica al sistema politico sociale e culturale. Un’esperienza che Liberovici raccontò anche nel suo diario: “Quello stesso autunno del 1957 Luigi Pestalozza, Giacomo Manzoni, Piero Santi ed io compimmo un viaggio in Germania (…). Udimmo per la prima volta i songs composti sui testi di Brecht (…). Rientrando in Italia assistemmo alla ripresa dell’Opera di Brecht-Kurt Weill al Piccolo Teatro di Milano e fu quella una ulteriore occasione di approfondimento di questi problemi, “impegno civile” dell’artista e “modalità” della sua estrinsecazione, che sentivamo di dover fare nostri” (Emio Jona, Michele L. Straniero, Cantacronache – Un’avventura politico-musicale degli anni cinquanta, pp. 14-15).

Viaggio menzionato anche dallo stesso Fausto Amodei. Raccontò, infatti, che Liberovici era stato impressionato da un fatto che gli era capitato nella Germania Est dove aveva conosciuto il Berliner Ensemble: Brecht, insieme al musicista Paul Dessau e al cantante Ernst Busch, erano andati in una fabbrica e avevano raccolto le rivendicazioni degli operai. Su due piedi Brecht aveva scritto un testo, poi musicato e cantato da Dessau e da Busch. Un certo giorno Brecht si recò a visitare una fabbrica; dopo aver chiacchierato con gli operai ed essersi informato delle condizioni di vita e di lavoro (…) tirò fuori di tasca un piccolo taccuino (…). Una canzone era nata (…). Brecht tenne un comizio e alla fine di questo Busch cantò a gran voce e con commozione la piccola canzone di lotta composta qualche istante prima. (Jona, Straniero, cit., p. 25). “Non so se questo aneddoto se lo sia inventato lui – spiegava Amodei in un’intervista raccolta da chi scrive a Reggio Emilia il 7 luglio 2010 – per trovare una ragione per spingere avanti l’esperienza del Cantacronache, ma questo è quello che si trova nei testi”. (Chiara Ferrari, Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, p.24).

Margot nel 1961

Michele Luciano Straniero, Margot,  Emilio Jona aderirono presto all’impresa a cui si aggiunse anche Amodei. “Io sono stato cooptato essenzialmente come chitarrista – ha raccontato – Liberovici suonava il pianoforte e andare in trasferta creava problemi logistici per il trasporto, così ho imparato gli accordi delle prime canzoni e poi mi hanno chiesto di cominciare a comporre le musiche. Poi mi chiesero di provare a comporre canzoni mie.” (Ferrari C., cit., p. 15).

Nonostante un periodo di tredici mesi trascorsi in Finlandia con una borsa di studio come architetto e altri diciotto di naja, la partecipazione al collettivo si è mantenuta, nei periodi di assenza, attraverso la scrittura di canzoni trasmesse ai compagni torinesi mediante incisioni su nastrini. Così nell’album Cantacronache 1 (Italia Canta, 1958) Amodei è alle prese con la composizione della musica per La zolfara su testo di Michele L. Straniero, mentre già nel Cantacronache 2 (1958) compone le musiche di Le cose vietate e di Raffaele scritto da Dario Baraldi, di cui è anche interprete.

Ma è certamente a partire dal 1959 che l’intervento di Amodei come autore è più incisivo. Nel Cantacronache 4 lo troviamo autore di numerosi brani, alcuni destinati a diventare celebri come Qualcosa da aspettare ripreso anche da Enzo Jannacci.

E poi Il giuramento, Il povero Elia, fucilato perché disertore,

La canzone del popolo algerino composta per il testo di Michele L. Straniero, a sostegno delle lotte per l’indipendenza dalla Francia. Questa è una delle tappe che segna una svolta nella poetica di Amodei. “L’elemento del testo, che per me ebbe più importanza – ha raccontato – e che tesaurizzai anche per le mie successive performances da cantautore, fu il fatto che, anziché risolversi in un’invettiva contro il colonialismo e contro le sue guerre di oppressione, riusciva a sviluppare delle riflessioni e dei giudizi meditati, allorché ad esempio rivolgendosi con aria dolente al soldato francese, mandato lontano a far la guerra, gli ricorda: Dal tuo paese un giorno, dalla Francia/ venne una luce immensa: / dicevano Uguaglianza, Fratellanza…/ Ora fermati e pensa!. Con una canzone cioè era possibile svolgere un discorso anche complesso, non solo elementare e visceralmente sentimentale, un discorso che, a naso avrebbe dovuto essere affidato di norma solo ad un saggio critico o ad un articolo di fondo. Fu un esempio che mi aiutò moltissimo a definire e sviluppare i caratteri e le possibilità della canzone militante della canzone d’intervento”. (Emilio Jona e M. Straniero, cit.).

Proseguendo, il Cantacronache 6 del 1960 è interamente dedicato alla sua produzione e vi sono incisi brani tra i più noti: Il ratto della chitarra, Una carriera, Ero un consumatore,

e su tutti, Per i morti di Reggio Emilia. Nel Cantacronache 7 (1961) è arrangiatore mentre il Cantacronache 8 (1963) è di nuovo una raccolta di sue canzoni: Lettera dalla caserma, Ballata ai dittatori,

Una vita di carta

e il capolavoro di satira anticapitalista, bignami della teoria marxista del plusvalore, Il tarlo.

Composizioni nelle quali Amodei espone i temi che saranno presenti in tutta la sua successiva produzione: dalla canzone politica all’antimilitarismo, dalla critica al capitalismo e alla società di massa, alla funzione della canzone, al contrasto alle dittature.

Il Cantacronache 3 (Cantacronache partigiano, Italia Canta, 1959) è singolare perché presenta canzoni nuove di tema resistenziale e il fatto venne ritenuto immediatamente sconcertante. “Centrale è, nell’esperienza del gruppo torinese, il recupero della memoria della Resistenza (…) contro i tentativi di restaurazione e di oblio che la cultura conservatrice degli anni Cinquanta opera nei confronti dell’esperienza partigiana”, scriveva Stefano Pivato in Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia. Ferruccio Parri, poi, sulla copertina del disco, individuava i torinesi come giovani “spiriti spregiudicati e insieme sorvegliati” mossi dal desiderio di innovare, uscire dalla norme convenzionali della scrittura musicale, “neoeroi della Resistenza” che sentivano viva alle loro spalle la lotta di liberazione e potevano cercarle una voce nuova: “L’interesse grande del loro nuovo canzoniere partigiano – scriveva Parri – nasce innanzitutto dalla dimostrazione che una lotta popolare e nazionale di liberazione è diventato fatto fondamentale della storia del popolo quando se ne impadroniscono i giovani”. I giovani Cantacronache che prendevano tra le mani una eredità importante, in un momento così difficile, negli anni della deriva a destra del governo Tambroni.

Per inquadrare il contesto, basta dire che solo dopo la caduta di quel governo nato con i voti del Msi (marzo-luglio 1960), una circolare del nuovo ministro della Pubblica istruzione, Giacinto Bosco, disponeva che l’insegnamento della storia, alle scuole superiori, non si fermasse alla prima guerra mondiale ma che giungesse fino alla Costituzione. Sempre solo dopo il 1960, lo strumento più diretto della comunicazione di massa, la televisione, si apriva a nuovi argomenti quando la Rai propose le prime trasmissioni sulla Resistenza (Guido Crainz, La Resistenza italiana nei programmi della Rai).

Nel 1965, anno del ventesimo anniversario della Liberazione, attraverso i programmi televisivi, avvenne il passaggio dalla rimozione a una ufficializzazione della Resistenza che ne banalizzava, però, i contenuti. Si passò cioè “dall’oblio alla costruzione di una ‘memoria pubblica’ astrattamente apologetica, che si sovrappone alle molteplici e differenti – talora opposte – memorie private senza riuscire a risolverle in sé, senza aiutarle a riconoscersi come parte di un processo. L’insistenza unilaterale e retorica sui temi del riscatto nazionale e del sacrificio tendeva a tradursi in sermoni pedagogici e di scarsa efficacia” (Guido Crainz). Non vi fu la volontà, nel sistema politico, di connotare questa memoria come “mito fondativo” della Repubblica, e per questo furono molteplici e diverse le memorie prodotte dalla società italiana e dalla sua cultura popolare (Gioachino Lanotte, Cantalo forte).

Era necessario trovare un sentimento unitario. Significative le riflessioni di Jona sull’approccio utilizzato da Cantacronache per raccontare la Resistenza: “Non serviva una celebrazione mitologica, ma concreta: i partigiani erano i nostri fratelli maggiori”. (Ferrari, C., p.86). Una evocazione semplice che poteva avvenire anche per mezzo della canzone, nuovo strumento della comunicazione moderna.

Su invito dell’Anpi a partecipare alla celebrazione di una celebre battaglia che fu combattuta al Montoso durante i venti mesi della Resistenza, venne composta Partigiani fratelli maggiori, testo di Michele L. Straniero e musica di Amodei (Cantacronache 3). La canzone metteva in luce il tema di una fratellanza ideale con i partigiani, un bisogno di riaffermare l’antifascismo come valore comune e di costruire un legame tra il passato e il presente. Il tema della memoria, inoltre, veniva affrontato mettendo in risalto come la cultura e il mondo politico non avessero ancora sedimentato l’esperienza resistenziale, esclusa dai programmi didattici della storia e dunque inaccessibile alle nuove generazioni: Se cerchiamo sui libri di storia/se cerchiamo tra i grossi discorsi fatti d’aria/non troviamo la vostra memoria. Da un live a Bergamo nel 2006

Nello stesso album, su testo di Emio Jona, tra le canzoni più emozionanti Amodei componeva la musica e interpretava Tredici milioni di uomini, sul tema dell’Olocausto.

Nel gruppo era già intervenuto Italo Calvino, che aveva messo in versi un ricordo della sua esperienza partigiana, musicato questa volta da Liberovici e diventato una canzone tra le più amate, Oltre il ponte, interpretata da Pietro Buttarelli.

Insieme a Franco Fortini che scrisse il testo, Amodei risulta di nuovo autore della musica della Canzone della marcia della pace. Composta, si racconta, in occasione della marcia per la pace Perugia-Assisi del 24 settembre 1961, fu poi censurata, considerata sovversiva perché invitava all’obiezione di coscienza. Il disco del 1964 Le canzoni del no dove la canzone venne incisa da Maria Monti  per I Dischi del Sole, fu sequestrato e Fortini dovette subire un processo dal quale venne poi assolto. Nel mondo di oggi, sconvolto da guerre e conflitti, non verrebbe probabilmente censurata ma il messaggio che portava potrebbe ancora disturbare, invitando i giovani a non arruolarsi, ignorare ogni sorta di chiamata alle armi.

Ai tempi di Cantacronache la contestazione era anche verso il Festival di Sanremo, spettacolo nazional popolare che proponeva canzoni insulse dalla rima facile. Canzoni che incoraggiavano a fantasticare, evadere dai problemi quotidiani di un’Italia che a fatica usciva dalla guerra.

“All’inizio – dice Amodei nell’intervista a Reggio Emilia – l’intento era solo di riuscire a fare una canzone di qualità che avesse una dignità letteraria e musicale, che non fosse il ‘parapunzipù’ delle canzoni di Sanremo. Poi ci si è trovati travolti dall’esigenza di intervenire sulla situazione politica”. (Ferrari C., cit., p.26). La canzone, per i torinesi, doveva avere una funzione pedagogica, educare le masse a guardare la realtà, prendere una posizione di fronte agli eventi, come gli scontri di piazza che avvenivano sempre più frequentemente e che il 7 luglio 1960 a Reggio Emilia lasciavano a terra le vittime di un governo filofascista.

Lauro Farioli, una delle cinque vittime della strage di Reggio Emilia

“Per i morti di Reggio Emilia – scriveva Umberto Eco – costituisce l’unica canzone di battaglia che, per forza di trascinamento, può stare alla pari con la Marsigliese. Sono due universi differenti, e mai in Italia era sonata una canzone di protesta e di incitamento alla lotta altrettanto ingenua, proterva, dogmatica, dichiaratamente retorica, senza pudori e senza infingimenti, e per questo accettabile perché vera, nata da un moto di indignazione, destinata ad essere cantata sulle barricate – che non ci sono o forse non ci saranno, ma per Amodei sono un luogo dello spirito – perché Amodei è, alla radice, anarchico e barricadero.” (Interno copertina Cantacronache 3, Albatros, 1971).

Per i morti di Reggio Emilia è diventata così diffusa e conosciuta che a un certo punto si pensò fosse nata da autore ignoto, dal popolo, da una moltitudine indistinta di persone che la intonava in ogni dove. Un fatto, ha dichiarato Amodei, di cui andare orgoglioso, ovvero quello “di essere immeritatamente divenuto voce del popolo” (Intervista a Fausto Amodei, il manifesto, 7 luglio 2010 in Cesare Bermani, Pane, rose e libertà, 2011, p. 174). Per i morti di Reggio Emilia è stata lo sconcerto per i fatti tragici di cui si è fatta cronaca, intonata nelle manifestazioni del ’68 come canto di lotta, diffusa appunto come creazione di “autore anonimo”, cantata anche nelle successive manifestazioni di protesta degli anni Settanta, ma soprattutto rimasta nella memoria collettiva come una canzone antifascista e tra le prime scritte sulla Resistenza per i tanti riferimenti alla lotta partigiana. La canzone, infatti, costruisce un legame fortissimo con il passato e con la memoria resistenziale: “Vengono idealmente congiunte le lotte degli scioperanti con quelle dei partigiani”, come rammenta Stefano Pivato, e le vittime di quel luglio ’60 diventavano anche tutte le vittime partigiane cadute nella guerra contro il fascismo: «Son morti come vecchi partigiani».

Basta l’attacco che chiama a raccolta a fare di chi ascolta, una comunità: «Compagno, cittadino, fratello partigiano/teniamoci per mano in questi giorni tristi» e le parole si fanno carico di condensare il ricordo di fatti e sentimenti, diventando nucleo simbolico per una cerchia di persone che li vivono e rivivono: «Sangue del nostro sangue/ Nervi dei nostri nervi», recita il testo. In questa appropriazione c’è tutto il senso della condivisione e della comune appartenenza (di una comunità) che fa del canto un veicolo per rinnovare nel presente il passato. Non a caso la canzone richiama consapevolmente le parole di altre canzoni partigiane, intrecciando i loro significati. C’è Fischia il vento: «Uguale la canzone che abbiamo da cantare: scarpe rotte eppur bisogna andare», mentre nel finale si cita Bandiera Rossa. “Le rivolte di piazza di quei giorni – spiegava, infatti, Fausto Amodei – erano la ripresa della guerra di Resistenza, le vittime della polizia di quei giorni erano gli eredi dei caduti partigiani, a quei tempi tristi si era arrivati perché si erano poco per volta messi in soffitta i valori della guerra antifascista” (Amodei, Per cinque ragazzi morti come partigiani in “l’Unità”, 2002, p. 8).

Per i morti di Reggio Emilia ha avuto una lunga eco ed è stata interpretata da Maria Carta,

da Milva,

dagli Stormy Six,

dai Modena City Ramblers,

dal Canzoniere delle Lame.

Dal vivo anche da Ginevra Di Marco.

Il gruppo emiliano CCCP Fedeli alla linea ha intitolato l’EP del 1985 Compagni, cittadini, fratelli, partigiani, traendo il titolo dal verso iniziale di Per i morti di Reggio Emilia.

Non solo canzoni dedicate alla Resistenza italiana, con Cantacronache Amodei ha partecipato all’incisione Canti Della Resistenza Spagnola 1939 /1961 (Italia Canta, 1961), accompagnando con la sua chitarra brani interpretati da Straniero e Margot. Sulla scia dell’interesse di Cantacronache per i popoli in lotta, successivamente, provenienti dalla ricerca sul campo nella Spagna franchista operata da Michele L. Straniero, Margot, Sergio Liberovici, uscì il volume Canti della nuova Resistenza spagnola, edito da Einaudi nel 1962 che venne travolto da censura, lancio di bombe carta alla sede dell’editore, il bando dalla Spagna, un processo (ne ha raccontato Margot https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/pentagramma/la-voce-amica-calvino-fortini/). Nel 1968, l’album Canti Della Resistenza Spagnola – Songs Of The Spanish Resistance, venne riproposto da I Dischi dello Zodiaco.

La riscoperta del patrimonio orale di tradizione ha rappresentato un altro tassello importante nel lavoro di Cantacronache e di Fausto Amodei che nell’intervista rilasciata a Reggio Emilia così spiegava: “Di ricerche sulla canzone popolare se ne stava interessando Roberto Leydi che in un primo momento si era occupato dei canti di protesta americani. Infatti, il termine canto di protesta, utilizzato anche da Cantacronache, viene da un libricino scritto da Leydi e Tullio Kezich «Ascolta Mister Bilbo!»  (Canzoni di protesta del popolo americano, Edizioni Avanti!, 1954). Poi arrivarono Cesare Bermani e il gruppo del Nuovo Canzoniere Italiano con i Dischi del Sole che lavorarono molto sulla ripresa e riproposta del canto sociale tradizionale”. (Ferrari C., cit., p. 91).

Queste ricerche contribuirono ad accrescere l’interesse di Cantacronache verso i movimenti di protesta in Italia, anche quelli del passato, avvenuti negli anni di formazione di una cultura anarchica, socialista, comunista, repubblicana. Manifestazioni che rappresentavano l’azione collettiva popolare nell’atto di emanciparsi socialmente e culturalmente: era il popolo che cantava e denunciava le ingiustizie sociali e l’esigenza di libertà. Perché la canzone politica era un inno che raccoglieva gente intorno a sé, come un volantino, uno strumento di informazione e controinformazione.

Da questo ricco materiale Cantacronache trarrà tre dischi dal titolo Canti di protesta del popolo italiano, divisi in 3 edizioni, a cura di Sergio Liberovici e di Emilio Jona, risultato di una particolare forma di scambio che avveniva tra gli autori e il loro pubblico anziano: “C’è stato una specie di baratto – spiega Fausto Amodei, sempre dall’intervista di Reggio Emilia – tra noi Cantacronache e il pubblico anziano delle Case del popolo, delle Cooperative, delle Società di mutuo soccorso dove andavamo a cantare le nostre canzoni, che erano canzoni di cronaca, di storia e di situazioni concrete. Questi anziani già lo facevano diverso tempo prima: noi cantavamo la morte di Matteotti – ci dissero – il crack delle banche di Roma del 1897, l’uccisione di Sante Caserio, lo sciopero di Parma. Per cui a un certo punto, grazie a loro, abbiamo riscoperto tutto il repertorio del canto sociale italiano, attorno a cui poi si è avviata una nuova ricerca sul campo” (Ferrari C., cit., pp. 91-92).

Tra i più suggestivi, riproposto da Fausto Amodei, si può menzionare Il crack delle banche (Canti di protesta del popolo italiano 1), il racconto dello scandalo della Banca romana di Sconto del 1893 che riguardò alcuni settori della Sinistra storica accusati di collusione negli affari illeciti (corruzione politica) della ex Banca dello Stato Pontificio, uno dei pochi istituti all’epoca con facoltà di emettere moneta circolante che andò in fallimento dopo aver contratto debiti per circa venti milioni. (Cfr. Giuseppe Vettori, Canzoni italiane di protesta, 1975, p. 342). Il testo, datato al 1896, è cantato sull’aria O patria mia dell’opèra-comique Le campane di Corneville, di Robert Planquette (Bermani, C., Pane, rose e libertà, p. XV).

Con Michele L. Straniero dopo la fine dell’esperienza Cantacronache Amodei proseguì il suo percorso nella musica approdando al Nuovo Canzoniere Italiano, movimento fervido, di riscoperta del patrimonio orale e poi di creazione di canzoni nuove, con sede a Milano.

Importante la collaborazione con Roberto Leydi, curatore dell’incisione Santi del mio paese per I Dischi del Sole nel 1963 con Amodei alla chitarra e Gaspare Lama al pianoforte e di Il povero soldato 1, raccolta di canti popolari in cui Amodei è chitarrista, arrangiatore e seconda voce nel canto Partire, Partirò, Partir Bisogna, originale di Anton Francesco Menchi, interpretato da Sandra Mantovani.

Altra raccolta è Canti di lavoro 2 in cui Amodei è coinvolto sempre come chitarrista accompagnatore in brani popolari del poeta siciliano Giuseppe Ganduscio. [https://www.patriaindipendente.it/primo-piano/sandra-mantovani-la-voce-autentica/] Diverse le incisioni per I Dischi del Sole a cui partecipa nelle vesti di arrangiatore, accompagnatore, strumentista, interprete. Tra queste Canti e inni socialisti, Canti della Resistenza italiana, Canti anarchici, Canti comunisti italiani, l’antologia della canzone comunista italiana, L’Ordine nuovo (1968) insieme a nomi come quello di Ivan Della Mea, Michele L. Straniero, Cesare Bermani.

Agli anni del Nuovo Canzoniere Italiano è attribuibile anche la canzone Il fazzoletto rosso, inserita nell’album collettivo Folk Festival 1 (I Dischi del Sole, 1965) curato da Michele Straniero, e incisa nel contesto del festival folk che si tenne a Torino nel settembre 1965. Una delle numerose occasioni in cui le figure di interpreti, autori, ma anche intellettuali e studiosi che gravitavano attorno al Nuovo Canzoniere Italiano si incontravano. Nel disco, infatti, si ascoltano le voci, tra le altre, di Roberto Leydi, di Caterina Bueno, del Gruppo padano di Piàdena, di Milly, di Paolo Ciarchi.

Ispirata da una storia vera, la canzone riportava al clima della lotta partigiana in cui un soldato italiano, mandato in Grecia dal regime fascista, dopo l’8 settembre decideva di passare dalla parte dei partigiani greci. Il dono dalla fidanzata, un fazzoletto rosso, acquistava via via un valore simbolico, per diventare infine una bandiera fatta di stracci, /come si conviene ai poveracci / che han deciso, per protesta, /colla propria testa. Che hanno deciso che il mondo è fatto di povera gente che, insieme, può lottare. Il fazzoletto, dono salvifico conduceva il giovane all’incontro con la parte giusta della Storia.

Sempre degli anni successivi a Cantacronache, nell’album del 1964 Canti partigiani per la DNG, casa discografica che prese l’eredità di Italia Canta, Amodei incideva Dongo, canto anonimo del 1945 rinvenuto da Michele Straniero e Sergio Liberovici, curatori della raccolta Canti della Resistenza Europea 1933-1963. Canto incentrato sugli ultimi momenti di vita Mussolini, dall’arresto fino alla fucilazione, così come interpretati dal sentimento popolare.

Del ’65, l’album Canzoni didascaliche (I Dischi del Sole), vedeva Amodei autore e interprete di canzoni originali, musicalmente più orchestrate, nate dal proposito di rinnovare la sua critica al sistema capitalistico. Fedele alla sua poetica, Amodei faceva ampio uso della metafora per costruire il suo trittico “didascalico-scientifico” giocato sul paradosso, sul linguaggio sarcastico e su un umorismo a tratti inquietante.  La favola Lupi e agnelli,

Il prezzo del mondo,

Ninna nanna del capitale.

Scriveva di lui Gianpietro Dell’Acqua: “Amodei, uno sviluppo coerente”. Non è mai mancato l’interesse per la canzone popolare che nel 1966 lo ha portato a incidere l’album 6 canzoni del poeta astigiano Angelo Brofferio (Edizioni Viglongo), anticonformista e anticlericale, autore di moltissime canzoni in piemontese, soprattutto legate al concetto di patria italiana e di indipendenza dallo straniero. Tra queste Mè at ëd fede.

In sintonia con le azioni dei movimenti operaisti come il Canzoniere Pisano i cui componenti, militanti di Potere Operaio di Pisa, mettevano al primo posto le problematiche del lavoro, anche Amodei, sensibile ai problemi di coloro in quegli anni manifestavano contro licenziamenti e per una condizione più dignitosa nelle fabbriche, incideva Sciopero interno

e Nei reparti della Fiat (I Dischi del Sole, 1969), due canzoni sindacali per l’autunno caldo. Portava avanti una battaglia già iniziata tempo prima a fianco dei lavoratori quando nel 1962 dava voce alle loro proteste componendo La canzone della Michelin. “Nella primavera del 1962 – raccontò – si svolsero a Torino due lunghi scioperi, uno alla Lancia che durò venticinque giorni ed uno alla Michelin che durò circa due mesi. Data l’intransigenza della parte padronale (oltretutto uno dei pezzi grossi della Michelin, che era la filiale della casa madre francese, era un ex ufficiale che aveva preso parte alla guerra d’Algeria) lo sciopero fu dichiarato ad oltranza e, da parte dei sindacati, fu chiesta ed ottenuta una larga solidarietà da parte della cittadinanza. Nel quadro di questa solidarietà fu organizzato uno spettacolo all’Alleati per raccogliere fondi a sostegno dello sciopero. Vi parteciparono gratuitamente il fior fiore di artisti e cantanti italiani (fra gli altri Dario Fo). Per l’occasione composi ed eseguii in palcoscenico questa canzone” – (Fausto Amodei in Emilio Jona, Michele L. Straniero, cit.).

Il Cantacronache 6 dedicato ad Amodei venne poi ripubblicato da Roberto Leydi per Albatros nel 1971, con l’aggiunta di altri brani successivi composti dall’autore, diventando una raccolta delle canzoni scritte nel periodo vero e proprio di Cantacronache, canzoni irriverenti, pungenti, con l’aggiunta di quelle successive scritte nel 1963, tra cui Il giorno dell’eguaglianza.

La particolarità che veniva messa in risalto era l’aspetto ironico e sarcastico presente nei testi. “Amodei, infatti – scriveva il curatore Roberto Leydi nel retro di copertina – considera essenziale la satira come mezzo per allentare le difese psicologiche di un certo pubblico e per fargli così accettare tematiche che altrimenti respingerebbe”. Aggiungeva una nota di Umberto Eco: “La canzone di Amodei è canzone politica, di satira sociale e ideologica, non di rado diventa un ‘bignami’ canoro della rivoluzione”.

Ma le canzoni di Amodei erano anche altro, secondo Leydi, che riconosceva nel cantautore torinese la grande capacità di individuare con esattezza il bersaglio contro cui rivolgere le sue contestazioni. Ne coglieva inoltre la passione politica non astratta, ma “calata in un impegno attivo che non consente (nemmeno nelle canzoni più facilmente satiriche) equivoci. Quindi niente complicità con la moda (anche perché Amodei arriva prima della moda della canzone più o meno impegnata da cabaret, e se si vuole, è lui in buona parte a determinarla – contro la sua volontà ma con la sua consapevolezza), con gli intimismi di maniera, con gli astratti furori, le rabbie che non mordono, le grida che non offendono.”

Roberto Leydi

La disamina di Leydi si soffermava anche sulla forma: “Abbiamo dei testi – scriveva – che sono dei piccoli capolavori di equilibrio fra linguaggio poetico e linguaggio quotidiano, in strutture che buttano finalmente all’aria gli schemi metrici banali, meccanici, lineari, ma senza cadere quasi mai nell’arzigogolo che rende incomprensibile il messaggio”. E si addentrava poi nell’analisi delle musiche. “Musiche che solo in qualche caso sono facili e orecchiabili, mentre per lo più inseguono una loro sapienza che si maschera di semplicità e di immediatezza ma poggia su andamenti ricercati, sia melodicamente che armonicamente.”

Ne individuava dunque la grande originalità, la vocazione a divenire egli stesso un modello a cui, infatti, diversi cantautori si sarebbero ispirati. Giudicava di grande peso riproporre il canzoniere di Amodei fino a quel momento composto, agli inizi del 1970. Individuava, Leydi, la necessità di mettere quelle canzoni a disposizione di un pubblico in quegli anni politicamente formato, interessato a una canzone che in sé, nelle forme e nei contenuti, conteneva il seme della contestazione. Necessaria nel contesto di lotta sociale e politica che si apprestava a diventare sempre più acceso. “Riproporre le canzoni di Amodei – scriveva infatti Leydi – significa quindi riproporre alcuni dei documenti di base della prima “nuova canzone italiana”. Non soltanto, però documenti per la cronaca (o magari la storia) ma voci ancora vive, pungenti, stimolanti, in alcuni casi incalzanti, anche in rapporto alla dura situazione che stiamo vivendo” (Roberto Leydi, Albatros, 1971).

I primi anni Settanta furono segnati da nuovi scontri sociali e politici e dal rinvigorirsi dei movimenti di piazza: le riforme mancate, l’instabilità economica, la precarietà si facevano sentire tra i giovani che stavano perdendo le speranze per un futuro diverso. Il clima di destabilizzazione e disfacimento degli equilibri precostituiti, negli anni della strategia della tensione, poi, faceva riemerge l’urgenza di appellarsi ai valori forti e saldi nati dalla guerra partigiana.

Nei primi anni Settanta avveniva anche il passaggio verso la carriera solista in cui Amodei portava avanti la sua poetica musicale, giungendo agli anni della canzone d’impegno con le spalle fortificate dalle precedenti esperienze di militanza nel Cantacronache e nel Nuovo Canzoniere Italiano. Restando coerente all’idea di canzone come combinazione di linguaggio anche ricercato, dal tono a volte aspro, dalla satira sempre pungente, senza però mai perdere di vista la formulazione di un messaggio, di rivolta, di ricerca della verità, da indirizzare al pubblico. Nel 1972 per I Dischi del Sole usciva l’album Se non li conoscete, che prendeva il titolo dall’omonima canzone ivi contenuta, un ritratto satirico e sprezzante allo stesso tempo dei fascisti del MSI. Invitava a riconoscerli dai loro tratti distintivi: il saluto, il marciare, il loro abuso del manganello. Citava il capobanda Almirante con il mitra e il manganello ben nascosti nel gilet, li accusava delle stragi di Stato: Se non li conoscete pensate alla lontana/Ai fatti di Milano e di Piazza Fontana/Una volta andavan solo con due bombe e in bocca un fiore/Mentre adesso col tritolo fan la fiamma tricolore.

Tra le altre spicca La Fanfaneide, satira sul governo Fanfani, cantata sulla melodia del brano fascista All’armi.

Diverse canzoni sono invece dedicate all’altro tema caro ad Amodei, lo sfruttamento del lavoro e la tragica parabola della classe operaia soverchiata dai processi di produzione tayloristici        alienanti: La taylorizzazione

e Il bastone e la carota. Al sud, invece, braccianti e contadini, oppressi dalle pretese dei padroni, non avevano altra opportunità che emigrare (Uomini e soldi). Sono invettive politiche dirette che restituiscono l’immagine di un Paese giunto a una crisi economica e sociale insanabile, vittima di un sistema fascista e preda di un capitalismo selvaggio.

Altro filone molto presente nell’opera di Amodei, quello dello sguardo sul sociale e del racconto di vite sospese tra la surrealtà e il tragicomico, è riproposto in brani come Il divorzio, Le disgrazie non vengono mai sole, La pulzella, Le tristezze di una donnina allegra.

Il Proclama Di Camilo Torres è invece la parafrasi dell’ultimo messaggio del prete e sociologo colombiano al suo popolo, considerato il suo testamento spirituale. Torres morì il 15 febbraio 1966, in uno scontro a fuoco a Santander, con le truppe dell’esercito regolare, servo dell’imperialismo nord-americano.

Ballata Autocritica, che chiude l’album, è un bilancio della sua attività di cantautore che giungeva a una amara conclusione: cantare canzoni non è servito a cambiare il mondo, a creare una società più egualitaria: Ho cantato sempre in base a una convinzione, che la cosa importante sia battere il padrone. Il padrone e con esso ogni tipo di sopraffazione, di autoritarismo e prepotenza.

Ma Amodei fortunatamente non ha rinunciato a scrivere canzoni e anzi ne ha fatto un megafono con cui dare voce a battaglie collettive. Nel 1974 ha inciso il concept album L’ultima crociata contenente Non è finita Piazza Loreto, uno dei testi più duri, vero e proprio manifesto antifascista. Il disco usciva nell’anno delle stragi neofasciste, quella di piazza della Loggia, attentato terroristico compiuto il 28 maggio 1974 a Brescia, e quella dell’Italicus, compiuto nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 sul treno Italicus, mentre transitava presso San Benedetto Val di Sambro e rendeva chiara l’accusa verso lo Stato colpevole di omicidi politici, come quello di Pinelli e di Gobetti.

Occorreva rinnovare i valori dell’antifascismo e della Resistenza. Continuare a difenderli di fronte a chi in ogni occasione tentava di metterli in discussione. Amodei interpretava il clima sociale e politico di quegli anni come il risultato di una guerra mai definitivamente vinta contro un fascismo che era come erba grama: se non estirpata alla radice finiva per intaccare tutto il terreno fino a far marcire l’intero raccolto. Dunque Piazza Loreto non aveva decretato la fine del fascismo, perché anche se Mussolini e i gerarchi rimasti a lui fedeli furono ammazzati e i loro corpi (insieme a quello di Claretta Petacci) esposti in quella piazza, il 29 aprile 1945, il fascismo ancora si macchiava di crimini, condannando a morte la vita di gente comune, uomini e donne inermi. Non bastava stare a contare /le nostre medaglie/ ricordo dei nostri morti/ caduti allora / bisogna affrontare tante/ nuove battaglie per togliere il marcio che/ ci avvelena ancora. (…) noi gli dobbiam gridare/ più forte e uniti/ che non ci può più bastare /piazza Loreto.

Il 1974 era anche l’anno del referendum sul divorzio, che in effetti è il tema portante dell’album. Ma quella sul divorzio all’epoca fu sentita anche come una battaglia politica che prese una forte connotazione antifascista. Al referendum rispondiamo No, dichiarazione netta e di parte, fu poi rivisitata nel 2006 per il No alla modifica della Parte Seconda della Costituzione voluta dal Governo Berlusconi.

Tra i brani più parodistici I quattro cavalieri dell’Apocalisse in cui Amodei prendeva di mira soggetti politici anti-divorzio, responsabili del degrado della politica e della società italiana, facendo i loro nomi e cognomi: Il democristiano Giulio Andreotti, il clericale Gabrio Lombardi, il fantasma Luigi Gedda, il fascista Giorgio Almirante.

Di nuovo I Lombardi all’ultima Crociata tornava al tema del divorzio come conquista civile da difendere contro gli interessi di poteri che trovavano facili alleanze con la destra fascista interessata a mantenere strutture politiche e sociali conservatrici.

Viva anche in questo album la contestazione alla società capitalistica in cui il consumatore subisce assurde logiche di mercato (Dal produttore al consumatore).

Mentre con La canzone della classe dirigente Amodei smascherava gli intrighi di potere che in quegli anni condannavano l’Italia a una condizione economica svilita da interessi di parte, dal magistrato al burocrate, dal cardinale all’industriale, portatori dell’ideologia malsana basata sulla “quaterna fatale” Dio-Patria-Famiglia-Proprietà.

Tenendo fede alla primaria intenzione di Cantacronache di dare voce alle popolazioni oltraggiate, invocandone l’emancipazione – basti pensare alle varie raccolte dedicate ai paesi in lotta, dall’Ungheria, all’Algeria, alla Spagna – anche qui non manca un omaggio a un popolo sottomesso, quello cileno e al suo presidente Salvador Allende. Vittima nel 1973 del colpo di Stato a opera del generale Pinochet, la sua vicenda sconvolse enormemente l’opinione pubblica. Al compagno Presidente era un incoraggiamento alla popolazione perché trovasse la forza di vendicare quella violenza istigata da manovre criminali, militariste e mosse da interessi economici.

Del 1976 è Il Partito, cantata per sei strumenti e quattro voci ispirata alle memorie politiche di Camilla Ravera e al suo Diario di trent’anni e nata dalla fascinazione di Amodei per la Santa Maria de Iquique, composizione del gruppo cileno Quilapayun, che aveva sapientemente operato una commistione tra repertori popolari e loro uso. Nel 2021 è stata orchestrata da Giovanna Marini, ed eseguita con il Coro Inni e Canti di Lotta, in occasione del centenario della nascita del partito, risultando uno degli ultimi lavori della musicista romana che ha affrontato la partitura sapendo di maneggiare una scrittura musicale complessa, come la stessa ha raccontato in un’intervista: “Sembra una scrittura che ti riporta al barocco musicale con molte modulazioni di toni, molto articolata, molto interessante e orecchiabile, ma è come fa Fausto nelle sue canzoni, che sembrano facili e poi vai a vedere e sono complicate da cantare. Hanno tutte cadenze d’inganno, uscite improvvise, cambi di toni, è un musicista, Fausto”. Nata per quattro voci è stata orchestrata per coro, piccola orchestra e voci soliste (Nota, 2023). Gli iscritti:

L’intervista a Giovanna Marini:

Dopo una lunga pausa con l’album Per fortuna c’è il Cavaliere edito da Nota, Amodei è tornato nel 2005 a raccontare l’Italia con la sua scrittura beffarda e tagliente. Il Cavaliere è naturalmente Silvio Berlusconi e l’ironia dietro la parola “fortuna” lascia intendere quale sia stata la motivazione che lo ha spinto a riprendere la parola e comporre nuove canzoni. Ne è nata quella che Gualtiero Bertelli nella presentazione ha definito “un’opera caustica ed irriverente, puntuale ed incondizionatamente di parte, dalle rime perfette fino all’ossessione, dai nessi chiari e senza sottintesi”. Silvio Berlusconi, dunque con “la sua corte di nani e ballerine” sempre citando Bertelli, è protagonista con il suo malgoverno, con la sua politica culturale degradante declinata in spot pubblicitari, quiz, trasmissioni televisive basate sulla futilità, sulla manipolazione della cronaca e della Storia, sul potere anestetizzante con cui ha invaso ogni aspetto della vita degli italiani nel lungo ventennio dalla sua discesa in campo nel 1994.

Grazie a Berlusconi, sembra dire Amodei, l’impegno anticapitalista dei vecchi “barbagianni” militanti, vivo nel cuore ma assopito nelle esternazioni, un po’ per età, un po’ per “saggezza anemica”, è tornato a essere necessario e attuale, nella riscoperta dell’invettiva e dell’incazzatura declinata in nuovi costrutti. Così, il tema dominante, la satira antiberlusconiana e lo smascheramento di una politica arrogante pronta a svilire diritti e conquiste civili, permea un vario gruppo di canzoni: da Per fortuna c’è il Cavaliere a L’educazione civica,

in cui ad avere la meglio sono coloro che evadono le tasse, legalizzando di fatto un reato, fino a I tre porcellini, ovvero Berlusconi, Bossi e Fini che sulla musica del film originale della Walt Disney mettono in atto i loro misfatti ai danni della Costituzione o della magistratura. Non manca la riflessione sullo scrivere canzoni, mestiere che appare sempre più condizionato dalle regole di un sistema economico che costringe a concepire prodotti preconfezionati (Le canzoni in scatola).

Intero album:

Un capitolo a sé non può che occuparlo la figura del gigante Georges Brassens, conosciuto musicalmente sul finire degli anni Cinquanta, costante ispirazione di Amodei lungo tutto l’arco della sua carriera.

Già l’esperienza Cantacronache si nutriva oltre che della canzone tedesca anche di quella francese. Motto dei cantautori francesi, da George Brassens a Léo Ferré, a Jacques Brel o Charles Aznavour, Boris Vian, Yves Montand, Gilbert Bécaud era épater le bourgeois, stupire il borghese usando il linguaggio dell’anticlericalismo o addirittura della blasfemia e dell’immoralità, parteggiando per i perdenti – clochard, prostitute, ladri – e fustigando bigotti e fascisti, di cui si mostrava tutto il gretto conformismo. Era una canzone che cercava lo scandalo riuscendo ad abbattere la barriera tra cultura alta e cultura bassa, grazie al seguito di un pubblico variegato composto da gente del popolo e da intellettuali in egual misura. Era una canzone spudorata e satirica che si divertiva a smascherare i vizi e le debolezze di un certo clero, dei politicanti di destra e dell’alta borghesia, mostrando tutti i colori della libertà civile e dell’orgoglio di mettere a nudo le viltà umane. Come quella di Brassens, la canzone di Amodei trovava la sua ragion d’essere nel mettere alla berlina ingiustizie e malefatte.

Così nel 2021 in occasione del centenario della nascita e del quarantennale della scomparsa del cantautore francese usciva l’album Fausto Amodei canta Georges Brassens (Nota), ventitré canzoni tradotte in italiano e piemontese da una storica registrazione del 1990, divenuta documento e testimonianza, a celebrare il dichiarato e profondo interesse di Amodei verso Brassens. Intero album:

Lo stesso interesse di Carlo Pestelli, cantautore torinese tra quanti hanno seguito le orme di Amodei. Cantautore, scrittore, autore del saggio Bella ciao, Pestelli ha recentemente inciso l’album Oiseaux de passage. Carlo Pestelli canta Georges Brassens tradotto da Fausto Amodei (Nota, 2022) in cui ha unito l’omaggio al grande maestro con l’invito del cantautore da sempre ammirato e raccoglierne il testimone e l’identica ispirazione.

“Il CD su Brassens tradotto in torinese lo considero un atto dovuto e un omaggio, al contempo – racconta a chi scrive -. Quando ho ultimato i pre mix del disco mi son detto: ‘ma perché non farlo cantare… In fondo è farina del suo sacco’, così sono andato a prenderlo a casa e l’ho trascinato in studio per fargli fare una parte, quella del menestrello, all’interno di una delle canzoni più complesse, come trama, oltre che più riuscite, come arrangiamento: La principessa e il menestrello.

Il disco – prosegue Pestelli – è il saldo a un precedente CD-acconto in cui Fausto riunisce le traduzioni delle canzoni più famose di Brassens, ma quel lavoro non era che la digitalizzazione d’un DAT del 1990 in cui Fausto, buona la prima, suonava e cantava a casa d’un amico. In realtà è proprio ciò che avvalora quel disco, la cui genuinità sta nel venga come venga e senza rifacimenti e lifting di alcun genere. Poi però, dal 1990 ad oggi, non è che Fausto ha rinunciato a tradurne altre e quindi un bel giorno, dopo la serrata, vado a cena da lui che mi allunga la mazzetta dei PDF con le traduzioni più recenti ‘Fanne qualcosa tu, io non ho più voce e l’artrite mi impedisce di suonare’. A quel punto pensavo che appena trovavo il contrabbassista giusto mi sarei buttato a registrare e avendolo trovato in Federico Bagnasco mi sono dato da fare. La soddisfazione ultima è stata questa: appassionare amici musicisti, come Federico Gambetta ieri e oggi Federico Bagnasco, all’arte di Fausto”.

Nel booklet Pestelli è anche autore di un’intervista ad Amodei al quale chiede quale sia stato il peso dell’opera del maestro di Sète. “Probabilmente avrei scritto canzoni anche senza l’influenza decisiva di Brassens – ha risposto Amodei – ma quell’influenza ha sicuramente condizionato in modo sostanziale il senso che da allora in poi ho dato all’oggetto ‘canzone’: non più comunicazione di sensazioni e sentimenti privati, ma racconto di storie; non più ‘lirica’ ma ‘epica’, anche se spesso ridanciana e irriverente. Anche nel caso di canzoni ‘impegnate’ politicamente, Brassens mi ha fatto virare sul tasto della satira, oppure della narrazione cronachistica, piuttosto che su quello del ‘proclama’” (Booklet).

Così come Brassens è stato un capostipite, anche Amodei con le sue canzoni ha influenzato una vasta schiera di musicisti e cantautori. “Per me – ha continuato Pestelli – è stato e continua a essere un punto di riferimento irrinunciabile e nei miei concerti spesso suono almeno una sua canzone (per apprendere a suonare come lui Qualcosa da aspettare mi ero barricato in casa col telefono spento). Poi negli anni mi ha sempre fatto piacere sentire ricordare da Guccini e Lolli quanto per essi la lezione di Fausto sia stata importante e più recentemente scoprire che Bollani è un suo fan, oltre che un ottimo interprete delle sue canzoni”. Da Sostiene Bollani, Il gallo di Fausto Amodei suonato da Stefano Bollani.

Dunque la scuola di Bologna e i più noti rappresentanti, Guccini e Lolli, ma anche la scuola genovese (si può immaginare De André ) gli sono debitori. Poi ci sono stati i milanesi Stormy Six che molto si sono ispirati a Cantacronache e alle composizioni di Amodei, certamente Alessio Lega, che a quindici anni ascoltò le sue canzoni e da Lecce prese un treno verso Torino per incontrarlo. Ma si potrebbero aggiungere tanti gruppi che nella poetica si sono richiamati al suo lavoro come CCCP e CSI, The Gang, Yo Yo Mundi. Stabilire il peso specifico del lavoro di Amodei appare operazione difficile, come quantificare il suo contributo alla storia della canzone italiana. Al di là di coloro che sono cresciuti con le sue canzoni e che le hanno interpretate come veicolo per andare oltre la banalità, occorrerebbe che oggi quelle stesse canzoni diventassero materia di studio per giovani che vogliano affrontare il mestiere del cantautore, ma anche per chi intenda approfondire gli ultimi settant’anni di storia italiana visti dalla parte di chi ha difeso istanze di civiltà, di chi è stato partigiano, antifascista e antimilitarista.

Con le sue canzoni graffianti, ironiche a tratti velenose, infatti, Amodei non ha mai smesso di denunciare ogni forma di dittatura, i fascismi, le intolleranze religiose, i perbenismi, le ipocrisie e le false morali, la società di massa e i suoi mali. Ha composto canzoni per mostrare gli obbrobri dell’economia capitalistica, di un sistema culturale lobotomizzante. Dalla sua penna sono usciti ritratti sempre puntualmente riconoscibili, di uomini al potere di cui fustigare le gesta e di esempi di virtù da decantare. Ha scritto anche canzoni d’amore, su tutte, Questo mio amore

E lo ha fatto a modo suo, con testi audaci, con scritti spigolosi dal punto di vista anche lessicale, usando metafore, similitudini, artifici retorici propri del linguaggio poetico colto, che richiedono attenzione all’ascolto e dunque necessariamente una partecipazione attiva. Componendo una musica complessa, coraggiosa nella scelta di arrangiamenti imprevedibili, di architetture sonore articolate. Ha scritto canzoni che resteranno per sempre memoria di fatti oltraggiosi, per dare voce alle minoranze, per denunciare logiche guerrafondaie.

Recentemente ha ricordato Michele L. Straniero partecipando all’album Domani si vive e si muore, nato da testi inediti dell’intellettuale torinese, voci e musiche di Michele Gazich e Federico Sirianni (Nota, 2024). Danzacronaca.

“Fausto Amodei ha rappresentato il rigore ad un tempo letterario, musicale ed etico che si può mettere in una canzone. Il miracolo è che queste canzoni possono essere anche divertenti”, ha detto Alessio Lega durante un nostro colloquio. Cantautore bandiera del canto sociale, in bilico fra canzone d’autore e riproposizione dei repertori storici, saggista, sua la recente raccolta La Resistenza in 100 canti (Mimesis), ad Alessio Lega abbiamo domandato cosa significhi celebrare gli Ottant’ anni della Liberazione con le canzoni di Fausto Amodei: “Sono qui costretto – ha risposto – a prendere ad esempio proprio la canzone più nota di Amodei (anche se penso che ce ne siano tante altre sue non meno belle). Per i morti di Reggio Emilia ci ricorda quel crimine di Stato, mentre tanti altri eccidi operai di quegli anni sono stati dimenticati. La canzone, tutta costruita sulla memoria partigiana (Duccio Galimberti, i Fratelli Cervi), ci ricorda anche la necessità dell’antifascismo, ieri come oggi”.

Vogliamo chiudere proponendovi una intervista a Fausto Amodei di RBE Radio & Tv.

Chiara Ferrari, autrice del libro Le donne del folk. Cantare gli ultimi. Dalle battaglie di ieri a quelle di oggi, Edizioni Interno4, 2021; coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli