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A Radio Popolare, la radio che ascolto quando sono in casa, hanno chiesto agli ascoltatori quale canzone rappresentasse meglio il 1995. Uno ha risposto Bella ciao. Ma non per la partigianeria, la montagna, la Resistenza. Così, più morbida: “Ciao bella, come stai? Beh ciao, mi ha fatto piacere rivederti, teniamoci in contatto”. È bella ciao in fondo, mica bella addio. Enrico Deaglio, Bella ciao: diario di un anno che poteva anche andare peggio

 

Che Bella ciao sia la canzone simbolo della Resistenza e dell’antifascismo, si sa. Come si sa che venne intonata ancora in occasione di lotte e proteste sociali, come quelle operaie e studentesche negli anni dell’autunno caldo e del ’68. Che sia stata tradotta in tutte le lingue esistenti tanto da diventare un universale inno alla libertà. Ma resta sempre il dubbio, il sospetto, che ci si dimentichi di che cosa rappresenti davvero Bella ciao. Che cosa racconti, da dove venga e a chi si rivolga, rischiano di perdersi per strada. Occorre, dunque, rievocarne la memoria perché ne resti vivo il messaggio e si rafforzi il senso del suo peregrinare per il mondo.

Certo, quel titolo e quel ritornello, vogliono dire tante cose: bella può essere riferito alla giovinezza che sfiorisce, oppure a una donna che si deve lasciare perché si è costretti a partire. Alla libertà che si perde quando si incontra un tiranno invasore.

La canzone, con le sue parole e le sua musica, infatti, ha raccontato esperienze diverse nell’arco dei suoi viaggi, non a caso ha un’origine che si perde nella notte dei tempi. In tanti ci si sono incaponiti per capire fin dove sprofondasse il buio di quella notte e dove intravedere un’alba. Storici, etnomusicologi, etnografi, musicisti hanno dedicato infinite ricerche per dare a questo canto errante le debite generalità, una data di nascita, una residenza. Nomi importanti, che a metterli in fila si fa la storia del canto sociale, degli studi sul folclore che sono l’orgoglio del nostro Paese. Da Roberto Leydi a Gianni Bosio, Cesare Bermani, Stefano Pivato, Antonio Virgilio Savona, Michele Straniero, Gianni Borgna.

Perché qui in gioco c’è tutta la tradizione del canto popolare e sociale, delle sue pratiche creative e di trasmissione principalmente orale. Ecco che infatti, come confermano Gioachino Lanotte (“Cantalo Forte”) e Gianni Borgna (“Storia della canzone italiana”), l’alba di Bella ciao risale addirittura a una ballata del Cinquecento francese, giunta in Italia dal Piemonte dove diventerà la tradizionale La darè d’cola montagna

Questo motivo si sarebbe poi propagato in tutto il nord trasformandosi in Trentino ne Il fiore di Teresina (conosciuta anche come Fior di tomba o Il fior della Rosina) e in Veneto nel canto Stamattina mi son alzata. Alzata, perché nell’infinito girovagare di questa canzone pare esserci anche una lunga sosta tra le risaie dove le mondine, mentre si spezzavano la schiena, lamentavano, cantando, il duro lavoro, la fatica dello stare lontane da casa, dalle madri a cui, bambine, rivolgevano la loro preghiera.

La versione di Giovanna Marini, incisa anche nell’album “Il fischio del vapore” di Francesco De Gregori (2003), nella cadenza del tipico stile di canto popolare esprime, come una litania, tutta la sofferenza delle mondariso:

Alla mattina appena alzata,

O bella ciao, bella ciao

Bella ciao ciao ciao,

Alla mattina appena alzata,

In risaia mi tocca andar

O mamma mia o che tormento

O bella ciao, bella ciao,

Bella ciao ciao ciao

O mamma mia o che tormento

Io ti invoco ogni doman.

Ma non tutti sono concordi. Come spiega Nanni Svampa (“La mia morosa cara”) alcuni studiosi ritengono la versione delle mondine precedente a quella partigiana (Stefano Pivato la fa risalire addirittura al repertorio delle mondine d’inizio Novecento, vedi “Bella ciao, canto e politica nella storia d’Italia”), mentre per altri, come Roberto Leydi e Cesare Bermani, essa sarebbe nata nel dopoguerra dalle parole del mondino Vasco Scansani di Gualtieri di Reggio Emilia.

E poi c’è il ritornello che, invece, secondo Cesare Bermani sarebbe di origine bergamasca. Per non dire, poi, come racconta La Repubblica, di una possibile derivazione yiddish, connessa al ritrovamento di una melodia tradizionale (canzone “Koilen”) registrata da un fisarmonicista Kletzmer di origini ucraine, Mishka Tziganoff, nel 1919 a New York.

Insomma, non se ne viene a capo. Bella ciao è come un vento che arriva, raccoglie un’eco e la porta altrove. Ma questo non fa che avvalorare l’idea che dentro questo canto ci sia una storia di transiti, di trasmissioni, intersezioni profonde e stratificate. Che sia come un albero che cresce rigoglioso e nel suo tronco racconti le condizioni, i climi, gli eventi traumatici o felici che gli hanno dato forma, vita e sostanza.

Perché dopo i lamenti delle mondine il canto passerà a dar voce alle speranze partigiane, dignitose e tenaci, di chi non vuole soccombere al nemico invasore. Di chi è disposto a morire per la libertà. E la voce femminile lascerà il posto a quella maschile.

Gli storici della canzone italiana Antonio Virgilio Savona e Michele Straniero sono convinti nel dire che Bella ciao fu poco cantata durante la guerra partigiana, e venne diffusa nell’immediato dopoguerra. La sua popolarità ebbe inizio nell’estate 1947, a Praga, al Primo Festival Mondiale della Gioventù, dove fu eseguita, e tradotta in tutte le lingue del mondo, con tipico battimani, da un gruppo di giovani partigiani italiani (“Canti della Resistenza italiana”). Gualtiero Bertelli, invece, ne individua la prima esibizione durante il Festival della Gioventù di Berlino, nel 1948, cantata da un gruppo di studenti capitati lì non si sa come.

Non è dato sapere, dunque, se sia stata cantata durante le lotte partigiane, nel modenese e attorno a Bologna come dicono alcuni, (Pivato la circoscrive alle zone di Montefiorino, nel Reggiano, nell’alto bolognese e nelle zone delle Alpi Apuane), oppure dopo, a memoria, a celebrazione. E poi? Negli anni Quaranta e Cinquanta, la canzone circolerà in varie regioni italiane grazie alle esecuzioni delle corali socialiste e comuniste durante raduni e festival. Da qui, prenderà il volo verso l’estero.

Ma chi l’ha scritta? Chi ha trovato le parole per testimoniare questo destino consapevole di una imminente morte a salvaguardia della libertà? Nomi, cognomi, non ce ne sono, si dice solo che gli autori potrebbero essere partigiani della zona emiliana.

Una cosa, però, è certa: un canto anonimo, di fatto, è cosa pubblica, patrimonio di tutti. E questo è un pregio di poche canzoni. Come Per i morti di Reggio Emilia di Fausto Amodei, assunta a canto di lotta dal movimento del Sessantotto, ma diffusa come creazione di “autore anonimo”. Una cosa di cui andare orgoglioso, dirà Amodei, ovvero “di essere immeritatamente divenuto voce del popolo”.

Bella ciao, voce del popolo lo è senz’altro, anche per il fatto di essere un canto contro “l’invasore”, un generico nemico che ciascun popolo può connotare a suo modo, sulla base della lotta che sta combattendo. Non a caso il vero inno dei partigiani sarà Fischia il vento, canzone in cui, invece, ben presenti sono i riferimenti di parte, come il “sol dell’avvenire” e la “rossa bandiera”. «Fischia il vento – scrive, infatti, Franco Fabbri – ha il “difetto” di essere basata su una melodia russa, di contenere espliciti riferimenti socialcomunisti, di essere stata cantata soprattutto dai garibaldini. Bella ciao è più “corretta”, politicamente e perfino culturalmente». Bella ciao, allora, è di chi la canta.

La versione di Sandra Mantovani è tra le prime a unire quella mondina a quella partigiana. Questo passaggio avviene nel 1964 quando il Nuovo Canzoniere Italiano presenta a Spoleto il memorabile spettacolo dal titolo “Bella Ciao” dove la canzone delle mondariso apre il recital e quella dei partigiani lo chiude.

Da questo momento la canzone riscontra un successo senza eguali. Gli anni Sessanta sono il periodo che precede o va di pari passo con l’affermarsi dei primi governi di centro-sinistra e il canto, più di ogni altro, legittima l’immagine che la guerra partigiana sia stata una battaglia di tutti.

Si resta sorpresi al pensiero che, nata da soldati semplici, gente comune, tra le montagne e nel fango di una trincea (come molti studiosi rilevano), la canzone compaia in questi anni nei repertori di grandi autori, spesso politicamente impegnati, ma anche, poi, nei circuiti commerciali.

La canta Yves Montand nel 1963,

la canta Giorgio Gaber nel 1965 dalla Milano post boom economico.

Un Gaber che ha da poco indossato i panni dell’enigmatica figura del “Signor G.”, simbolo del cittadino mediocre pronto a cambiare casacca all’occorrenza, inadeguato e continuamente animato da sensi di colpa e frustrazioni. Un’ambiguità che esprime i reali problemi del Paese in quegli anni: i dubbi e le inquietudini di un’intera generazione alle prese con una crisi economica e di valori. Valori che Gaber sente di affermare cantando proprio Bella ciao. Nel 1971, alla trasmissione Canzonissima di Rai Uno, Milva interpreta la versione delle mondariso, e la catapulta nelle case degli italiani, ormai fedele pubblico televisivo.

Nel 1975 la canta perfino Claudio Villa, ma in una versione swing un po’ troppo scanzonata che rischia di oscurarne la natura di canto di lotta.

È il segno, però, che la canzone ormai è davvero sulla bocca di tutti. Le interpretazioni, infatti, si rincorrono. Nel 1978 le dà voce la musicista greca Maria Farantouri, interprete del sentimento di lotta alle dittature di tutto il mondo e con lei Bella ciao diventa l’emblema di ogni Resistenza.

Gli anni Ottanta sembrano un po’ dimenticarsi di questa canzone, delle battaglie partigiane, del passato. Solo Francesco De Gregori, in un frammento di “La storia” dall’album “Scacchi e Tarocchi” (1985) ci ricorda che “La Storia siamo noi, siamo noi padri e figli, siamo noi Bella ciao che partiamo. La Storia non ha nascondigli, la Storia non passa la mano, la Storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano”. La Storia è l’identità di un popolo, come le lotte che lo hanno segnato.

Ma negli anni Ottanta si guarda avanti. Lo scenario culturale, sociale e politico del Paese, del resto, è tutto un fermento. Il 1982 segna l’inizio di un nuovo boom per l’Italia: “Il secondo miracolo economico italiano è già cominciato – commentava Giuseppe Turani nel 1986 –. Da un po’, forse anche da un anno. Ed è quasi sicuro che andrà avanti a lungo. Probabilmente non meno di dieci anni, fino al 1995”. La corsa ai consumi assume i ritmi degli anni Sessanta, con la differenza che ora l’acquisto di un prodotto diventa l’affermazione di uno status symbol, l’appartenenza a una cerchia di individui o l’innalzamento rispetto a un’altra, la preferenza a una determinata moda o tendenza e in questo una manifestazione identitaria. Un consumo “vistoso” accresciuto dalle nuove e più pervasive forme della comunicazione pubblicitaria, veicolate attraverso i canali delle televisioni commerciali che in questi anni iniziano a trasmettere, insieme ai loro programmi, anche i nuovi modelli sociali cui ispirarsi, nel modo di essere e agire, nell’abbigliamento, nell’arredamento, nello stile di vita. E ancora: “Sgomenta – scriveva Fortini nel 1982 – il peso delle questioni che la nozione di memoria (storica e personale) porta alla luce. Ad esempio, sono bastati gli ultimi sei o sette anni di terrorismo, di politica della unità nazionale e di inflazione e di scandali […] perché interi blocchi di problemi venissero rimossi e considerati inesistenti non pochi sperimentati principi di interpretazione […]. Ecco perché è assolutamente impossibile, oggi, trasmettere a chi ha diciotto anni una qualche verità non convenzionale su quello che da loro dista appena un decennio […], quando i loro padri, oggi smarriti o rassegnati quarantenni, li issavano sulle spalle nelle manifestazioni per il Vietnam” (“Non solo oggi”).

Bisogna aspettare gli anni Novanta perché questo stato di “dormienza” (Franco Fortini) svanisca e si torni a guardare alla realtà: la crisi d’identità dei partiti, gli scandali, Tangentopoli, Mani Pulite. Occorre che la gente torni a impegnarsi, occorre risvegliare valori e identità dimenticate, è necessario riaccendere la fiamma di un passato di lotta alle ingiustizie e a ogni forma di sudditanza.

E allora Bella ciao ricompare, nelle forme più roboanti, rock, hard rock, metal, punk, folk possibili, e a volte anche molto arrabbiate. I romani Banda Bassotti nel 1993 la reinventano secondo lo stile ska e il ritmo, la modernità di cui la rivestono ne fanno un veicolo che parla a tutti, agli adulti che hanno smarrito la memoria, ai giovani che non sanno e vogliono conoscere.

Ma sono soprattutto i Modena City Ramblers i paladini di questa rinascita. Con le loro esaltanti versioni, eseguite in numerose incisioni o in eventi live, trovano il fulcro identitario della loro poetica oltre che un successo clamoroso. Sono gli anni del “combat folk”, strumento sonoro e di battaglia politica, dirà Felice Liperi (“Storia della canzone italiana”). Capace di raccogliere l’eredità della canzone politica riconsegnandola a una forma nuova, in cui il retaggio popolare viene tradotto in sound dirompenti e di forte impatto emotivo.

Nella prima incisione del 1994, dall’album “Riportando tutto a casa” (e questo revival spiega forse l’iniziale citazione), le parole di Bella ciao si sposano magnificamente con l’arrangiamento irish folk, cifra espressiva del gruppo modenese.

La canzone, adesso, si canta a squarciagola e si balla. Si salta al ritmo di un reel irlandese tutti insieme, giovani soprattutto, che in massa partecipano ai concerti negli stadi e nelle piazze, a quelli del Primo Maggio in Piazza San Giovanni a Roma, dai primi anni 2000 in avanti, fino al 2014.[

Ma la grande esplosione c’era già stata: quella della esuberante versione del 31 dicembre 1999 a Modena con l’orchestra di Goran Bregović, incisa poi in “Appunti partigiani” (2005), importante omaggio alla storia partigiana e alla storia canora della Liberazione.

Nello stesso anno le interpretazioni si rincorrono, e la incideranno anche i piemontesi Yo Yo Mundi, nell’album “Resistenza” .

Per l’artista serbo, invece, la canzone diventerà stabilmente parte del repertorio, tantissime sono le occasioni in cui verrà cantata e suonata dalla sua Wedding e Funeral Orchestra, come nell’entusiasmante live di Parigi del 2013 https://www.youtube.com/watch?v=OyMA84-mowI  e

Stessa atmosfera si respira all’ascolto della versione del regista serbo Emir Kusturica con la No smoking Orchestra fondata dopo la guerra in Bosnia ed Erzegovina.

La musica si fa trascinante e la canzone parla dal cuore dell’Europa, luogo di transito e di incontro di tante culture, quella serba, croata, musulmana. Bella ciao diventa un misto di sonorità tradizionali balcaniche e sembra parlare la lingua di tanti popoli, diversi ma ugualmente accomunati da un destino di lotta contro le dittature (la Croazia ottiene l’indipendenza nel 1995), da un doloroso percorso di ricostruzione.

Così negli anni Novanta il canto porta con sé questo messaggio in giro per il mondo: la incide il cantante e compositore franco-spagnolo Lény Escudero (Album “Chante la Liberté”).

Unica ed emozionante è la versione a cappella che l’ottetto vocale Swinger Singer incide nell’album “Around the world, Folk songs” nel 1991.

La canta il Coro dell’Armata Rossa (“The Best of the Red Army Choir: the Definitive Collection”);

i Boikot la interpretano in spagnolo in una delle versioni più punk e hard rock mai sentite, a cui mescolano il grido di “No pasaràn”, il celebre messaggio di Dolores Ibárruri ai soldati al fronte, durante la guerra civile spagnola, per incitarli a combattere contro le truppe del generale Franco.

Segno che quando la canzone arriva chi la prende ci mette qualcosa di suo. La cantano con questa foga anche gli italiani patchanka-ska-punk Talco.

E i bretoni Les Ramoneurs de Menhirs non scherzano neanche loro con un suono di puro punk rock metallico.

Come a dire: come abbiamo fatto a dimenticarci di Bella ciao, del suo patrimonio di significati, del suo monito a combattere per la libertà?

La band anarchica britannica Chumbawamba la traduce in inglese e ne fa una sua versione dal gusto pop rock più sofisticato. E intanto, così, nella lingua più diffusa al mondo, la comprendono proprio tutti.

Non può mancare una versione tedesca: una tra tante è quella folk di Konstantin Wecker & Hannes Wader.

Negli Stati Uniti, invece Bella ciao si canta in un mix di afro funky beat con gli Underground System.

Manu Chau ne dà una personale declinazione reggae e latina,

mentre la cantora popular Mercedes Sosa, portandola in Argentina, la terra dei golpe militari, della violenza politica, delle dittature e delle rivolte soppresse nel sangue, ne fa una bandiera della lotta per la pace e i diritti civili.

Bella ciao in questi nuovi arrangiamenti non è più solo la canzone malinconica di chi va a morire e si sacrifica, è la canzone di una vittoria, una liberazione che si celebra nell’euforia di un ritmo incalzante e di un canto libero e fuori dagli schemi. Una vittoria che è una festa corale, a cui si partecipa cantando con la voce più forte che si può.

Non deve meravigliare, allora, che questo treno in corsa che è Bella ciao a un certo punto si fermi per far salire frotte di gente, per poi, subito, ripartire. Gli anni 2000 la consacrano come la canzone di tutti i popoli in lotta, di tutte le etnie, le culture, le razze, le religioni, le patrie. Di chi, nel mondo, crede nel valore della pace e della libertà.

Ed è bello che la canzone, dopo le registrazioni d’autore, dopo i palcoscenici prestigiosi, ritorni alla gente, che la intona nelle piazze, al battito delle mani, allo strimpellare di una chitarra, che la canta stonata, gridata, non importa. Ognuno, con Bella ciao, proclama la propria battaglia.

C’è quella degli Indignados di ogni angolo di mondo che la cantano per affermare diritti di uguaglianza, partecipazione, annullamento del potere delle banche e delle multinazionali.

C’è quella che si canta in chiesa, dopo la santa messa di Natale celebrata da Don Gallo, nel 2012,

o appena fuori, sul sagrato, per salutare Franca Rame nel giorno del suo funerale.

C’è quella del giugno 2011, dei giovani del sit-in Gençler Meydana che cantavano la loro Bella ciao in turco in Taksim Meydanı a Istanbul.

Una protesta che cominciava e che continuerà nelle manifestazioni contro il premier turco Erdoğan, nella Piazza Taksim, a ricordo delle vittime del Parco Gezi uccise da un governo che, con un uso sproporzionato della forza, reprimeva un movimento pacifico.

Da qui il dissenso esploderà oltre i confini nazionali, con manifestazioni contro Erdoğan nei paesi di tutto il mondo. Il 12 luglio 2013, una sera, a Istanbul nella piazza di Taksim, con l’accompagnamento di un pianoforte, ancora si canta Bella ciao.

C’è quella del popolo greco che si emoziona dopo la vittoria, nel gennaio 2015, di Alexis Tsipras e del movimento di sinistra Syriza: la canta e la balla al ritmo della versione irlandese dei Modena City Ramblers perché la musica, proprio, non ha confini.

C’è quella dell’attore Christophe Aleveque che, invocando la lotta a ogni forma di terrorismo, politico o religioso, la canta durante le commemorazioni funebri delle vittime della strage avvenuta nel settimanale satirico francese Charlie Hebdo.

E poi, chissà quanti altri nel mondo stanno dando voce alle loro battaglie attraverso le parole di Bella ciao. A distanza di un’infinità di anni, di una storia sprofondata nel passato di un mondo arcaico e popolare, ci racconta di oggi, di cosa succede nel mondo del terzo millennio. Di come il canto rappresenti ancora, fortemente, uno strumento potentissimo di espressione collettiva e di partecipazione alla vita sociale e politica. Ci esorta a essere tutti partigiani, ognuno a sostenere una causa, personale o comunitaria. Una causa che stia dalla parte della libertà, della democrazia, della solidarietà, della lotta a ogni dittatura. Pronta a rinnovarsi nel futuro. Perché Bella ciao di cose da dire ne avrà ancora sicuramente tante.

Che la si canti, quindi. Intonati o stonati, in coro o da soli, con accompagnamento musicale oppure no, non importa. Ciò che conta è farlo. E così, dunque, anche chi scrive.

Chiara Ferrari, coautrice del documentario Cantacronache, 1958-1962. Politica e protesta in musica, autrice di Politica e protesta in musica. Da Cantacronache a Ivano Fossati, edizioni Unicopli