Regista di film indimenticabili, come Sacco e Vanzetti e L’Agnese va a morire, Giuliano Montaldo sostiene la campagna di crowdfunding per Patria Indipendente, da pochi mesi sbarcata sul web. Lo incontriamo nella sua casa di Roma per chiedergli perché è importante questa iniziativa di raccolta fondi. E qual è il suo rapporto con Patria. “Patria è una parola bellissima. Io ho imparato cosa è la Patria nel 1945. E ho imparato la parola Patria con la parola Resistenza. Credo che siano due parole fondamentali per capire l’evoluzione del nostro Paese dal fascismo alla democrazia. Siamo noi a decidere che Patria vogliamo. Io so che Patria voglio. Una Patria che nasce dalla Resistenza, dal lavoro, dalla cultura, dal desiderio di fare. Quindi io sostegno Patria Indipendente. L’ho sostenuta sempre e oggi in questa nuova sua diffusione on line spero che abbia tanta accoglienza, tanta attenzione, tanta passione per portare nel futuro le idee di libertà e giustizia che hanno animato da sempre l’Anpi”.
Il video dell’intervista integrale a Giuliano Montaldo
Tu hai, anche se appena un ragazzo, partecipato alla Resistenza a Genova.
Ero ragazzino nel ’45, avevo 15 anni, però sono riuscito ad avere un fazzoletto rosso ed un tapum in mano strappato ad un tedesco. Genova – forse poche volte lo si ricorda – non si è liberata il 25 aprile del ’45 ma alcuni giorni prima. Quando sono entrati gli americani hanno trovato la gente in strada che li applaudiva come degli amici, ma noi genovesi ci siamo liberati da soli. Ed è, permettimelo, un motivo di orgoglio. Genova, città Medaglia d’Oro alla Resistenza non dimentica cosa ha rappresentato il fascismo.
Avevi venti anni quando Lizzani ti offrì il ruolo di commissario partigiano in Achtung! Banditi! Il film, osteggiato dai produttori e dagli ambienti di governo venne realizzato grazie ad una intuizione di Lizzani e ad una sottoscrizione di “azioni” da 500 lire degli operai genovesi.
L’ho detto e lo ripeto, solo un imbecille poteva pensare che Achtung! Banditi! fosse una pellicola pericolosa. A consentire di portare sullo schermo alcuni degli episodi della Resistenza in Liguria furono i portuali, i tranvieri, gli operai metalmeccanici riuniti nella Cooperativa spettatori produttori cinematografici. Lavorare in quel film è stata una esperienza unica. La sera, dopo le riprese, dormivano in una baracca nel cortile dell’ANPI di Pontedecimo attrezzata con letti a castello. Nell’entroterra ligure la Resistenza fu dura e difficile. Basti ricordare la strage della Benedicta, avvenuta nell’aprile del ’44, con l’esecuzione sommaria di 75 partigiani delle formazioni Garibaldi compiuta dai nazifascisti.
Nel 1976 firmi come regista L’Agnese va a morire. Che ricordi hai di quel film?
Quello è stato un momento bellissimo. Non è un mio film. È un film della gente di Romagna. Perché il film non si doveva fare. “Ma come, una pellicola sulla Resistenza? Siamo negli anni 70! A chi interessa?”; questo era quello che molti dicevano o facevano intendere. E infatti quando andai a parlare con Renata Viganò, l’autrice del libro, mi disse: “Giuliano, è meglio che ti faccia un piatto di agnolotti o tortellini, perché sarà difficile fare il film”. Io sono riuscito anche grazie al meraviglioso contributo di tanti attori che sono venuti praticamente gratis: erano giovani, ricordo per tutti Stefano Satta Flores, Flavio Bucci, Ron, Ninetto Davoli. Sono venuti perché volevano partecipare a questa impresa. La gente del luogo ci ha ospitati e incoraggiati. Sono venuti anche come comparse, gratuitamente. Volevano questo film, volevano che si raccontasse – per la prima volta nel cinema – il contributo enorme che avevano dato le donne alla Resistenza. Soprattutto in quella zona: le valli di Comacchio, assolutamente piatte, con argini e acqua. Lo stesso comandante Bulow, Arrigo Boldrini, che veniva ogni tanto a trovarci, ci raccontava cose straordinarie. Sarebbe stato impossibile – spiegava – riuscire a sopravvivere in quelle zone e combattere contro i nazifascisti se non ci fosse stato il lavoro duro e difficile delle staffette partigiane. Ingrid Thulin, la protagonista, da grande attrice qual era, ha voluto stare sui luoghi delle riprese un mese prima proprio per stare con quelle donne meravigliose, per capire ed entrare bene nella parte. Durante le riprese pedalava guardinga lungo gli argini. Era molto stancante; capitava anche di dovere ripetere la scena. E la gente gli diceva, “forza Agnese, non mollare!”. Era bellissimo. Si sentiva la voglia di veder realizzato il loro film. Io l’ho firmato, ma dico sempre che questo film è della gente delle valli, della gente di Comacchio, di Ravenna, di Lugo. Senza di loro non si sarebbe mai fatto.
Altro film cult è Sacco e Vanzetti del 1971. Anche questo è un film che hai faticato non poco a realizzare.
Ci ho messo tre anni e col cappello in mano. Poi finalmente ho trovato un produttore che, quando gli ho nominato Vanzetti, ha fatto un sobbalzo. Era Arrigo Colombo. Nel 1928, lui ebreo scappato in America, aveva studiato la lingua inglese con le lettere di Vanzetti. Insieme, con grande fatica, siamo riusciti a farlo. E sono fiero di aver contribuito alla riabilitazione storica di Sacco e Vanzetti.
Cosa pensi dell’industria culturale oggi?
Oggi c’è una produzione che aspetta l’offerta più televisiva che cinematografica. Siamo di fronte ad un mutamento che può essere ricco di opportunità, ma che, se non si riesce a coniugare con la parola cultura, rischia di portare ad un impoverimento del Paese. Per dirla diversamente, il consumo va bene, ma per quale uso? Per fare della cultura o per fare delle immagini senza immaginazione?
Giampiero Cazzato, giornalista professionista, ha lavorato a Liberazione e alla Rinascita della Sinistra; oggi collabora col Venerdì di Repubblica
Pubblicato venerdì 15 Gennaio 2016
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