Da http://www.protezionecivile.fvg.it/ProtCiv/GetDoc.aspx/1133/01.jpg
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Era il 7 maggio 1976, il giorno dopo il terremoto, quando sono arrivato da Roma in Friuli con la troupe del Tg2: operatore, fonico, autista. La sera del 6, le prime notizie mi avevano raggiunto dalla radio mentre stavo tornando a casa dalla redazione di via Teulada, dopo il telegiornale della sera.

Era successo nella mia terra d’origine, dove ho passato i primi 15 anni della vita.

Morte e distruzioni proprio intorno a Gemona, il paese di mia madre, Luisa Celotti, e della sua famiglia che, con una successione di notai e di medici, aveva vissuto per secoli in quel paese. Gli archivi riportano notizie dei Zelòt fin dal 1500.

Al mio direttore, Andrea Barbato, ho chiesto di partire subito: “Conosco bene luoghi e persone, gli ho detto, so come si arriva per le strade sterrate fino ai piccoli borghi di montagna”. All’alba ero in viaggio. La mia idea fu subito quella di raggiungere per primi i paesi più lontani e sperduti, dei quali non si sapeva ancora quasi nulla. Le notizie erano già chiare dalla pianura sulle rive del Tagliamento: da Gemona, Maiano, Osoppo. Quando arrivai in macchina vidi che gli aiuti si stavano concentrando lì, dove stava andando anche il mio collega del Tg2 Giuseppe Marrazzo, detto Joe, con un’altra troupe. La maggior parte delle vittime erano lì e si scavava già tra le macerie per salvare i superstiti.

In quei primi giorni dopo il terremoto il dramma era ovunque, morti in ogni strada, in ogni casa sventrata dalle scosse, muri crollati ridotti a cumuli di pietre. Mi sono avviato in macchina per salire verso le montagne vicine mentre erano arrivati subito i soldati dalle caserme intorno: allora ce n’erano tante in tutto il Friuli. Primi a mettersi al lavoro, i vigili del fuoco e poi i volontari da tutta Italia.

Per me, che venivo da lontano e mi portavo dentro le immagini di un Friuli bellissimo, intatto, vissuto da ragazzo, entrare in quella tragedia è stato uno shock. Mentre filmavo l’arrivo dei soccorsi, le prime tende sistemate in pianura ai piedi di Gemona, lungo la strada statale che porta in Austria, pensavo al lavoro.

Non sapevo ancora che Anna Grando, la tata dolcissima della mia infanzia, era già morta a Gemona in quella notte del 6 giugno, travolta dalla sua casa crollata.


Friuli 1976, il terremoto del 6 maggio (dall’archivio fotografico di Patria Indipendente)

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Noi della troupe tv dovevamo tornare a Udine ogni sera: il camion attrezzato per lo sviluppo e il montaggio dei servizi per il tg era parcheggiato in città. Sviluppo e montaggio richiedevano tempo, usavamo ancora cinepresa e pellicola 16 mm. Non erano ancora disponibili le telecamere portatili. I servizi venivano poi trasmessi a Roma con un ponte radio. Così facevamo la spola dai luoghi del terremoto alla città e viceversa, su strade ancora insicure, sbarrate o chiuse dai militari. Si dormiva a Udine e si ripartiva all’alba, alla ricerca di strade transitabili, tra paesi ormai irriconoscibili.

Della bellezza semplice di quei luoghi che amavo, dei centri storici, delle case con i grandi balconi in legno sui quali prima restavano a seccare pannocchie e cipolle, dei tipici muri a secco, merlati per sostenere viti, era rimasto ben poco.

Quella volta sono rimasto in Friuli una decina di giorni. Ho ancora negli occhi le macerie di Lusevera, una frazione di montagna, pastori e contadini, dove tutti erano al lavoro con pale e picconi per liberare la strada, per recuperare qualcosa dalle case crollate. Mi ha commosso una madre con due bambini piccoli, accucciata a bordo strada: ha insistito che accettassimo un po’ di polenta arrosto.

Dopo quarant’anni i volti sono confusi, ma l’emozione di quelle devastazioni resta intatta nel ricordo. La più forte, in quel mio vagare di disastro in disastro è dell’8 maggio, a Montenars, un piccolo paese in alto, vicino a Gemona, sotto il monte Cuarnan, frazioni sparse sul pendio con vista sulla piana del Tagliamento. Strada bloccata: arrivammo a piedi. Su uno spiazzo, alcune bare di legno grezzo dove la gente, in silenzio, stava mettendo i suoi morti, recuperati dalle case crollate. A Montenars le vittime furono 35. Ci venne incontro un uomo in tuta, mani sporche, viso stravolto dalla polvere e dalla fatica. Era un prete, Checo Placereani, che ci gridò tutta la sua rabbia, la sua indignazione. Dopo 48 ore gli aiuti non erano arrivati. Niente esercito, niente ruspe: stavano scavando ancora con le mani Prè Checo, così lo chiamavano tutti, ce l’aveva anche con noi, con la nostra inutile cinepresa. Ho inserito le sue dure parole registrate nel mio servizio e così sono andate in onda quella sera al Tg2. Il mio mandato era filmare, documentare, mostrare a tutti la gravità della tragedia, l’efficienza dei soccorsi e quando non funzionavano andava detto.

A quel tempo la Rai aveva ancora il monopolio della informazione, non esistevano tv private. Da poco c’erano però due reti, quella del vecchio Tg1 e la nostra del Tg2, appena nato dalla riforma Rai del marzo 1976, tre mesi prima del terremoto. L’esclusiva del controllo governativo sulla Rai sembrava finita. La nuova rete, con grandi nomi del giornalismo, metteva in crisi l’informazione paludata, ossequiosa e troppo spesso censoria del Tg1. Il Tg2 voleva diventare l’alternativa, la voce dell’opposizione. Era ancora vivo e avvilente il ricordo della censura della Rai sulle cause e sulle responsabilità dei 2000 morti della tragedia del Vajont nel 1963.

Così, quello del terremoto è stato un periodo importante anche per la libertà di stampa e per la mia esperienza professionale e umana.

Intanto si stava dimostrando nel mio Friuli che era possibile ricostruire, dopo una catastrofe devastante, in modo onesto e condiviso dalla gente. Ha funzionato e il “Modello Friuli” resta un esempio, purtroppo non sempre applicato.

Edek Osser, giornalista, inviato speciale per Tv7, uno dei primi reporter a recarsi in Friuli Venezia Giulia dopo il terremoto. Realizza diversi servizi per il Tg2, pur continuando a fare inchiesta in Italia e all’estero. Torna a fine anni 80 al Tg2 come caporedattore centrale e cura la rubrica Dossier. Dai primi anni 2000 collabora con Il Giornale dell’Arte, e realizza documentari d’arte. Ha realizzato vari reportage sul terremoto del 1976 e sulla ricostruzione