È comunque opportuno fare il punto su questa materia, per capire come hanno funzionato fino ad oggi i buoni lavoro e quali problemi si siano aperti in ragione del loro utilizzo. (G.P.)
Il primo dei referendum proposti dalla Cgil e ammessi dalla Corte costituzionale prevede, com’è noto, l’abrogazione completa di tutta la normativa relativa ai cosiddetti buoni lavoro o voucher, attualmente contenuta negli artt. 48, 49 e 50 del d. lgs. n.81/2015. Istituiti con il d. lgs. n. 276/03, attuativo della c.d. riforma Biagi del mercato del lavoro, essi consistono in buoni, del valore di 10 euro ciascuno, acquistati dal datore di lavoro e utilizzati come mezzo di pagamento dei lavoratori. Dei 10 euro corrispondenti al loro valore e costo, 7,50 vengono riscossi dal lavoratore, 1,30 è versato all’Inps a titolo di contributi previdenziali, 0,70 all’Inail per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e il restante 0,50 costituisce tassa di esazione. L’istituto in origine ha una diffusione limitata, sia in ragione delle difficoltà di reperimento dei buoni, che potevano essere ritirati solo presso le sedi Inps, sia perché ne era previsto per legge l’utilizzo solo per lavori di carattere occasionale e limitato ad alcune specifiche attività, quali ad esempio i lavori di giardinaggio, le ripetizioni e i piccoli lavori domestici. Era (ed è tuttora) stabilito anche un limito massimo di buoni che può essere percepito da ciascun lavoratore. Anche dal punto di vista soggettivo vi erano forti limitazioni: potevano essere assunte e retribuite mediante i buoni lavoro solo alcune categorie di persone, peraltro considerate in ragione del loro particolare status (in origine solo disoccupati, casalinghe, disabili ed extracomunitari), con rilevanti dubbi di legittimità costituzionale, in quanto si riservava questa forma di lavoro a gruppi di persone protetti dal divieto di discriminazioni.
Negli anni successivi numerosissimi interventi legislativi modificano la regolamentazione, prevedendo più ampie e comode forme di distribuzione dei buoni (presso le Poste, le banche e le tabaccherie e da ultimo in via telematica) e soprattutto ampliando considerevolmente sia le attività che possono essere retribuite mediante i buoni, sia le categorie di soggetti che li possono incassare in quanto lavoratori. Sostanzialmente tra il 2008 e il 2015 la possibilità di retribuire i lavoratori mediante i buoni è estesa a tutte le imprese e a tutte le categorie di prestatori, con il limite massimo per ciascun percettore di 7.000 euro di reddito all’anno e di 2.000 euro per ciascun datore di lavoro (elevati a 3.000 nel caso in cui il lavoratore sia un destinatario di ammortizzatori sociali). Nel corso del 2016, secondo i dati dell’Inps, i voucher sono stati utilizzati per retribuire circa 133 milioni di ore di lavoro; nel 2015 hanno coinvolto circa 1.380 mila lavoratori, con un’età media di 35,9 anni, con una media di 63,8 buoni per ciascun percettore; corrispondenti a una percentuale pari a circa l’8% della forza lavoro (v. i dati in https://www.inps.it/docallegati/DatiEBilanci/lavoro%20accessorio/Documents/VOUCHER_Presentazione.pdf). Il loro impiego è stato effettuato da oltre 473 mila imprese nel 2015, in prevalenza nei settori alberghiero, della ristorazione, dei servizi alle imprese e alle persone.
Anche dal punto di vista fiscale l’istituto appare discutibile, in quanto si tratta di redditi che si trovano comunque al di sotto del limite minimo di tassazione (e che quindi sarebbero altrimenti esentasse), ma che sono soggetti alla tassa di esazione pari al 5% del loro valore. È opportuno precisare che, come ha osservato anche la Corte costituzionale nel giudizio di ammissibilità del referendum, il buono è solo una modalità di lavoro alternativa alle altre, ma non necessaria, nel senso che la sua mancanza non renderebbe affatto impossibile lo svolgimento di quelle attività lavorative oggi retribuite con i buoni: più semplicemente le renderebbe soggette alle regole e alle tutele previste per la generalità dei lavoratori. Il carattere occasionale della prestazione inoltre potrebbe giustificare il ricorso ad altri tipi di contratti estremamente flessibili, come il contratto a termine, il part-time per solo alcuni giorni della settimana o del mese, o il lavoro a chiamata. Tra l’altro, per i lavori di carattere domestico svolti in ambito familiare, gli oneri di comunicazione dell’assunzione e il costo previdenziale del lavoro sarebbero anche minori.
Olivia Bonardi, docente all’Università Statale di Milano, Dipartimento di scienze sociali e politiche
Pubblicato martedì 21 Marzo 2017
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