Paolo Leon, nato a Venezia il 26 aprile 1935, è scomparso a Roma l’11 giugno. Economista molto apprezzato, ha pubblicato fra l’altro L’economia della domanda effettiva (Feltrinelli), Stato, Mercato e Collettività (Giappichelli), Il capitalismo e lo Stato (Castelvecchi).
Una quarantina d’anni fa ad Ansedonia, che amava moltissimo: tra un bagnetto e l’altro sulla spiaggia libera, sotto l’ombrellone di Paolo Leon (era quasi una tenda), s’immaginavano leggi sui Beni culturali, che non sarebbero mai divenute realtà. Ne pensavamo addirittura l’articolato. Con lui, alcuni suoi amici: Giuliano Amato; talora Sabino Cassese; Carlo Pinzani, funzionario al Senato; qualche allievo o collaboratore che erano economisti in erba. Fino a quel momento, in Italia, il patrimonio storico-artistico era stato sempre coniugato solo sotto il profilo estetico, o educativo: è stato il primo a parlare di economia della cultura. Ricordo un progetto, per trasformare Villa Borghese nella “Valle dei musei”: è rimasto tale. E un altro, che recuperava l’Albergo dei Poveri di Ferdinando Fuga a Napoli, l’edificio più grande costruito in Europa nel Settecento, oltre centomila metri quadrati: prevedeva le destinazioni d’uso, calcolava i possibili redditi, in modo tale che si mantenesse; l’edificio è ancora poco più che un rudere. Perché Paolo Leon (1935 – 11 giugno 2016) era un economista che guardava lontano. Con qualche suo progetto realizzato in più, forse il mondo sarebbe migliore.
Quando dovevo svolgere un’inchiesta (allora si usava) in qualche parte d’Italia a me poco nota, spesso mi rivolgevo a lui: ne ricavavo sempre ottimi consigli, idee, spunti, indirizzi; regionalista convinto ante litteram, poi assai critico come molti per l’occasione mancata, aveva lavorato parecchio con gli enti locali, anche dirigendo o creando importanti studi di ricerca: Arpes, Crel e Cles (dal 1982), ora condotto dal figlio Alessandro; buon sangue non mente: poco dopo la morte di Paolo, la figlia Francesca, che si è occupata dell’innovativo abbonamento ai musei in Piemonte e in Lombardia, è divenuta l’assessore (assessora?) alla Cultura di Torino. «La cultura non è un settore, è un modo di essere», diceva lui; «senza cultura non c’è futuro, non c’è consapevolezza, non c’è giudizio»; «ciò che arricchisce il capitalismo è la cultura che è capace di produrre».
Paolo era assai poco accademico. Sereno, gioviale, ironico, amava sorridere e ridere. Si gustava le storielle: specie quelle ebraiche, anche per ragioni di genealogia. Delle vicende e delle cose, scopriva gli angoli meno banali, coniugando una forte preparazione teorica (arricchita a Cambridge e alla Banca d’Italia) con un’esperienza internazionale, non di molti, alla Banca Mondiale: ne divenne dirigente. Tra i nomi della sua vita, Giorgio Fuà, Beniamino Andreatta, Federico Caffè, con cui collaborerà per 30 anni, e a cui intitolerà la Facoltà d’Economia all’Università di Roma Tre che aveva contribuito a fondare: ne diverrà professore emerito. Era un keynesiano e un uomo di sinistra: socialista lombardiano fin quando non fu espulso da Bettino Craxi: aveva denunciato il “Conto protezione”; esponente progressista sempre scomodo, per tutti; per un breve periodo (Occhetto) fu un Pds. Non le mandava a dire, e applicava poco le virtù, diciamo così, della diplomazia: lo s’è visto quando Roma l’ha incaricato di valutare i propri servizi.
Fin da giovane, aveva il tarlo della giustizia sociale: «La gente non sa che cosa è la povertà, se non la vede». Per lui, il bilancio dello Stato non deve essere in pareggio; le sue ultime critiche sono state per la scarsa incisività che ha manifestato l’Unione europea, ed i vincoli del Trattato di Maastricht; per l’incapacità dello Stato di rinnovarsi. «Basterebbe trasformare la Banca centrale europea in una istituzione simile al Sistema della Riserva federale americana, che emetta moneta e finanzi in tutto o in parte i deficit pubblici, erigendo nel contempo uno scudo contro la speculazione internazionale avversa ai sistemi bancari europei e alle finanze pubbliche dei paesi membri». Lascia, quasi come un testamento economico, e di vita, l’ultimo di tanti libri, Il capitalismo e lo Stato (Castelvecchi 2014). Che la terra non gli sia lieve, ma lievissima.
Fabio Isman, giornalista, scrive attualmente su Il Messaggero, Art e Dossier, Il Giornale dell’Arte, The Art Newspaper e Bell’Italia
Pubblicato mercoledì 6 Luglio 2016
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