Già Benedetto XVI in un Messaggio per la Giornata mondiale per le migrazione e, ancor più, nell’enciclica Caritas in veritate, ha detto con estrema chiarezza: “Il migrante è una persona umana con diritti fondamentali inalienabili, da rispettare sempre e da tutti”. Un problema così massiccio, com’è oggi il fenomeno delle migrazioni, lo si può affrontare e risolvere solo a partire da un principio semplice e basilare: sono esseri umani come noi, con la stessa dignità. Non ci sono esseri inferiori o di serie B, qualunque sia la loro provenienza, il colore della pelle e il credo religioso.
Di fronte all’esodo biblico cui stiamo assistendo, con migliaia di profughi che fuggono da fame, guerre, persecuzioni e morte certa, non c’è altra scelta che aprire il cuore e disporsi all’accoglienza. Il mondo globalizzato ci ha resi una sola famiglia umana. Nessuno può dire “non mi riguarda” di ciò che avviene in ogni angolo della terra, essendo il mondo ormai interconnesso e interdipendente. Alla “globalizzazione dell’indifferenza”, denunciata da papa Francesco nel suo primo viaggio a Lampedusa, periferia estrema dell’Italia ma anche porta d’Europa, va sostituita la “globalizzazione della solidarietà”. Il Mediterraneo, un tempo culla della civiltà, s’è trasformato purtroppo in una tomba a cielo aperto per migliaia di immigrati che vi hanno trovato la morte. La loro unica colpa solo quella d’essere nati nell’altra sponda del “Mare nostrum”.
Il mondo oggi è un “villaggio planetario”. Ma una malintesa globalizzazione, cioè senza fraternità tra gli uomini e i popoli, “ci rende vicini, ma non fratelli”. Occorre, invece, grande fiducia nel mondo e negli uomini. Senza chiudersi alla diversità e al pluralismo, o creare per gli immigrati una zona grigia di compensazione delle nostre paure. Giovanni Paolo II, che nella sua vita ha incarnato una concezione positiva della migrazione, affermava: “L’esperienza mostra che, quando una nazione ha il coraggio di aprirsi alle migrazioni, viene premiata da un accresciuto benessere, da un solido rinnovamento sociale e da una vigorosa spint a verso inediti traguardi economici e umani”.
Per un Paese dalla memoria corta, qual è l’Italia, c’è da ricordare che un tempo “gli albanesi”, cioè i migranti, eravamo noi. Dall’inizio del secolo scorso, sono partiti per il mondo milioni di nostri connazionali alla ricerca di lavoro e un futuro migliore per i propri figli. In Svizzera, Francia, Belgio e in altre nazioni europee entravano da clandestini. Se oggi ci sono gli “scafisti del mare”, allora c’erano gli “scafisti della montagna”, che accompagnavano i nostri concittadini per sentieri impervi delle montagne, abbandonandoli spesso al loro destino di morte durante le tormente di neve, come documenta Sandro Rinauro, ricercatore dell’Università di Milano, nel suo libro Il cammino della speranza.
E’ innegabile che gli stranieri che arrivano sulle nostre terre siano una “scomodità” e pongano problemi di diverso ordine: dalla sicurezza alla legalità. Ma è una scomodità che se ben governata si trasforma subito in una grande risorsa. Anzi, in una risorsa indispensabile, dal punto di vita economico e demografico, di cui non possiamo più fare a meno. Il nostro Paese ha, infatti, uno dei tassi di natalità più bassi al mondo, e un’economia che arranca per assenza di vitalità e forze giovani. Gli immigrati sono una scomodità che fa crescere. Al di là dei luoghi comuni, dei pregiudizi e delle paure enfatizzate o alimentate ad arte dai mass media e da forze politiche xenofobe, che ignorano gli aspetti positivi di una vera integrazione.
Attualmente, il lavoro degli stranieri che vivono in Italia (circa sei milioni) contribuisce per il dieci per cento della ricchezza nazionale, il cosiddetto Pil. Il rapporto costi-benifici dell’immigrazione è ampiamente positivo per l’Italia. Ma lo stesso avviene per le altre nazioni europee. In merito alle nascite, gli stranieri rappresentano una vera risorsa demografica. Se non si inverte l’attuale tendenza del basso tasso di natalità, l’Italia non ha futuro. E’ già un Paese vecchio, con una media d’età della popolazione molto alta rispetto a tante nazioni emergenti per la vitalità delle giovani generazioni. Un recente dato dovrebbe far riflettere: nel 2014 il rapporto tra morti e nati in Italia è stato negativo di circa centomila unità. In altre parole, sono morte 600mila persone a fronte di 500mila nascite. Per avere un dato così negativo bisogna risalire alla Prima guerra mondiale. Ma allora c’era almeno più voglia di reagire e crescere.
Allargando l’orizzonte all’Europa, se si vogliono mantenere gli standard attuali di sviluppo, è stato calcolato che entro il 2020 (cioè domani o dopodomani), l’Europa ha bisogno di 42 milioni di nuovi europei. E di 250 milioni entro il 2060 per mantenere l’attuale sistema pensionistico. Ma chi farà questi figli? E anche per il temuto pericolo di uno “tsunami migratorio” che invaderebbe l’Europa, si deve tener presente che, ad oggi, gli immigrati presenti nel Continente sono pari solo al 7 per cento dell’intera popolazione. Gli stranieri non vengono, quindi, a invaderci o ad affamarci o a portarci via il lavoro. Il loro contributo è ben superiore a quanto essi ricevono come prestazioni sociali o spesa pubblica. Il futuro dell’Italia va programmato non a prescindere ma a partire dalla presenza degli stranieri che vivono da noi. A cominciare dal riconoscimento del diritto di cittadinanza ai bambini figli di immigrati, nati in Italia, che sono già italiani di fatto o i “nuovi italiani”.
Il tema dei migranti, quindi, non va affrontato con superficialità, senza indagarne le cause. Tanto meno usato strumentalmente dai “populisti” di turno per lucrare voti e consensi politici sulla pelle di questa povera gente. La foto della morte di Aylan, il bambino turco di tre anni, spiaggiato a Bodrum dopo il fallito tentativo di raggiungere l’isola greca di Kos assieme alla sua famiglia, ha sconvolto il mondo e scosso tante coscienze intorpidite dall’indifferenza. I mass media hanno dibattuto s’era giusto o meno mettere quella foto sulle prime pagine dei giornali. Ma il vero confronto andava fatto sulle cause che hanno portato il piccolo Aylan a quella tremenda fine, a essere lì col volto riverso su quella spiaggia. L’ha ben compreso, nella sua disarmante semplicità, quel tredicenne profugo siriano che, in un’intervista alla Tv, ha detto: “Voi fermate la guerra in Siria e noi non vorremo più venire in Europa”. “Aylan è un nostro bambino”, come abbiamo scritto provocatoriamente sulle pagine di Famiglia Cristiana. La sua tragedia è anche la nostra. Ci siamo emozionati e commossi, ma ora è tempo di muoversi, come singoli e come istituzioni, per costruire un mondo più fraterno e umano.
*Antonio Sciortino, Direttore di Famiglia Cristiana
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Pubblicato lunedì 14 Settembre 2015
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