Parigi è una festaParigi Festa mobile, il romanzo di Ernest Hemingway dedicato a Parigi, che in francese si intitola Paris est une fête, Parigi è una festa, registra da qualche giorno il tutto esaurito. Al punto che l’editore, Gallimard, il 19 novembre ha lanciato un’ulteriore ristampa (l’ultima era del 2011): 10mila esemplari tascabili e mille in formato grande. Non è precisamente una notizia, ma un piccolo indizio delle reazioni francesi post 13 novembre. Perché – è probabilmente presto per dirlo – è piuttosto verosimile che, a Parigi almeno, ci sarà per molto tempo un pre e un post 13 novembre 2015.

È stata dura ed è ancora dura, difficile negarlo: 130 morti, la maggior parte, come tutti ormai sanno, al Bataclan, storica sala da concerti, piena zeppa quella sera. Centotrenta morti qualsiasi, anzi, ed è qui il punto e qui il legame con Festa mobile, 130 morti che si godevano un tranquillo venerdì sera al ristorante o al bar o a un concerto. È una scelta? Davvero si voleva colpire l’est parigino, cioè la zona più vivace della città, quella in cui tutto si muove, quella della vita sociale e notturna, quella del melting pot sociale, etnico, creativo etc. etc.? Forse era solo un bersaglio più facile. Come un mercato. O come lo Stade de France, all’esterno del quale altre persone si sono fatte esplodere. Magari perché non sono riuscite a entrare. Chissà.

Una drammatica immagine dello Stade de France nelle concitate ore degli attacchi terroristici (da La Press in http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_14/parigi-attacchi-kamikaze-stade-de-france-francia-germania-almeno-30-morti-stadio-bloccato-71e3f400-8a5d-11e5-8726-be49d6f99914.shtml)
Una drammatica immagine dello Stade de France nelle concitate ore degli attacchi terroristici (da La Press in http://www.corriere.it/esteri/15_novembre_14/parigi-attacchi-kamikaze-stade-de-france-francia-germania-almeno-30-morti-stadio-bloccato-71e3f400-8a5d-11e5-8726-be49d6f99914.shtml)

La Parigi colpita non è quella della finanza (come, in un certo senso, poteva essere il caso delle Torri gemelle, comunque simboliche), dell’economia, del potere, della politica, no. È quella di tutti, la mia (davvero la mia, scusate l’inciso: abito a 300 metri da due dei luoghi della sparatoria), la nostra, quella che potrebbe essere la vostra, dunque, lo choc si moltiplica al pensiero che avrei, avremmo, avreste potuto essere lì. È forse il senso vero del termine terrorismo: spargere il terrore, colpire a caso, il bersaglio siamo tutti noi.

La sede del locale Petit Cambodge
La sede del locale Petit Cambodge

Parigi si è un po’ rintanata in se stessa dopo il 13 novembre: i musei, i cinema, i mercati, i teatri, le scuole, i luoghi pubblici sono rimasti chiusi nel fine settimana successivo agli attentati e per tre mesi la città resterà in stato di emergenza, dunque sono vietati tutti gli assembramenti, le manifestazioni e, persino le distribuzioni di cibo dei Restos du coeur, associazione fondata da Coluche che distribuisce pasti gratuiti ai meno abbienti. Eppure moltissimi parigini sono usciti subito, già sabato 14 e domenica 15, per andare a portare un piccolo, simbolico tributo alle vittime. Così il Bataclan, la Belle Équipe, il Petit Cambodge, il Carillon e quell’angolo tra rue du Faubourg du Temple, rue de la Fontaine au Roi e rue de la Folie Méricourt dove ci sono state cinque vittime, sono diventati, insieme alla Marianna della vicina place de la République, i piccoli santuari laici di un pellegrinaggio ininterrotto, commosso e solidale. Nei primi giorni ai fiori, ai pensieri e ai lumini si accompagnavano soprattutto lacrime e foto, poi, almeno in place de la République, sono arrivati i camion delle televisioni di tutto il mondo. Anche il circo mediatico, tuttavia, sembra aver manifestato un certo rispetto per la città ferita e per i suoi abitanti sotto choc ed è sembrato meno invadente che in altre occasioni.

Il Bataclan
Il Bataclan

Con il passare del tempo tutti noi cerchiamo, com’è ovvio, di ritrovare i ritmi e la tranquillità del quotidiano, una lacrima davanti a Marianna, l’invito «Je suis en terrasse», cioè sono seduto fuori, al bar, o «Tous au bistrot» è stato relativamente poco accolto nei primi giorni, ma già i cinema cominciano nuovamente a riempirsi: a due settimane dagli attentati si prova a tornare a vivere e a vivere, quanto più possibile, ridendo e sorridendo. Il bar all’angolo del Faubourg du Temple ha sostituito le vetrine colpite dai proiettili e ha l’aria di voler riaprire, lo stesso il Petit Cambodge. Alì del Carillon, invece, è perplesso: «Non ho voglia che ci sia una targa commemorativa sul mio bar, non voglio che diventi un luogo di pellegrinaggio morboso. Non so davvero cosa faremo ora». Questo senso, più o meno conscio, di vuoto, questa sensazione di galleggiare nei propri abiti, questa difficoltà nell’affrontare la vita quotidiana come se nulla fosse accaduto, è di tutti noi. Mascheriamo meglio, dopo due settimane, ma a volte gli sguardi si svuotano di colpo e il silenzio, quell’orribile silenzio che è diventato il suono di Parigi dalla sera di venerdì 13, appena dopo gli spari e le esplosioni, per almeno 48 ore, copre di nuovo tutto per qualche istante. Forse, per questo, abbiamo bisogno di ricordarci che «Parigi è una festa mobile» o, almeno, tornerà a esserlo.

Paola Vallatta, giornalista, da Parigi, X arrondissement (che è anche il quartiere dove ha sede la sezione parigina dell’ANPI)