Il presidente della Turchia Recep Tayyip Erdoğan

Tra poco meno di un mese in Turchia si terrà un referendum costituzionale attraverso il quale si deciderà se il Paese della mezzaluna attuerà la svolta presidenziale. «Ora la parola passa al popolo», ha detto Binali Yildirim, il primo ministro turco commentando la decisione del parlamento di approvare un pacchetto di riforme costituzionali e quindi anche l’avvio di un sistema presidenziale.

Il prossimo 16 aprile – se prevarrà il (evet) – il presidente Recep Tayyip Erdoğan potrebbe non solo rafforzare il suo potere ma rimanere in carica fino al 2029, superando anche il primato di anni di governo di Atatürk, il padre della Turchia moderna.

Il disegno di legge di riforma di 18 articoli della Costituzione darebbe ampi poteri al presidente, eliminerebbe la carica di primo ministro, con elezioni parlamentari e presidenziali simultanee per un mandato di cinque anni.

La campagna elettorale a favore del ha infiammato anche il dibattito tra i diversi Paesi europei che hanno rifiutato a esponenti dell’AKP, il partito di Erdoğan, di svolgere comizi fuori dal suolo turco per convincere i cittadini emigrati all’estero a votare a favore delle riforme. Lo scontro diplomatico poi tra Turchia e Unione europea discende dai rapporti sempre più tesi via via che i negoziati per l’ingresso del Paese nell’Ue si arenavano. Inoltre, crescenti tensioni si sono manifestate anche in ambito NATO, organizzazione di cui la Turchia fa parte dal lontano 1952.

Tutti questi attriti finora sono apparsi funzionali allo svolgimento della campagna del in chiave patriottica, insomma del noi contro loro agitato anche nelle dichiarazioni infuocate dei vari ministri sulla stampa in questi giorni (accuse di “fascismo e nazismo” per esempio agli olandesi, di mancanza di democrazia in Europa o minacce per cui “presto potrebbe scoppiare una guerra di religione” come ha affermato il ministro degli esteri turco, eccetera).

Ma vediamo cosa cambierebbe in Turchia se questa riforma costituzionale venisse attuata. Intanto, qualora venisse approvata, Erdoğan potrà rimanere al potere fino al 2029.

Erdoğan contro i media in una caricatura (da https://cdnit2.img.sputniknews.com/images/248/98/2489843.jpg)

Il presidente diventerebbe sia capo dello Stato che del potere esecutivo; verrebbe creata la carica di vicepresidente – che potrebbe essere affidata a più di una persona – ed eliminata quella di primo ministro.

Il nuovo Capo dello Stato potrebbe nominare ministri e alti funzionari, sciogliere il parlamento, dichiarare lo stato d’emergenza, emanare decreti e nominare metà dei giudici dell’alta corte. Sia il presidente che il parlamento potranno indire le elezioni; è prevista inoltre l’abolizione di tribunali e di giudici militari.

Il parlamento potrà indagare e mettere sotto accusa il presidente solo attraverso un voto a maggioranza assoluta dell’Assemblea nazionale che conterà 600 deputati. Le legislature avranno durata di 5 anni per il Capo dello Stato e i deputati e sarà consentito il contemporaneo svolgimento di elezioni presidenziali e parlamentari. Sarà inoltre proibito andare alle urne durante tutto il procedimento di messa in stato d’accusa del presidente, dei vicepresidenti o di esponenti del governo. E, con la maggioranza dei due terzi del parlamento, il presidente potrà svolgere anche un secondo mandato.

I sondaggi per ora parlano di una tendenza alla vittoria del No, ma Erdoğan si sta giocando il tutto per tutto. Se dovesse perdere, la sua leadership certo ne uscirebbe indebolita ma per ora il presidente turco resta una figura carismatica con buoni consensi nel Paese profondo.

Lo scrittore Orhan Pamuk

Molti dei suoi oppositori – tra cui i leader politici della minoranza curda del partito HDP – sono attualmente in carcere. E il No alle riforme anche da parte di intellettuali come il romanziere Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura, è stato censurato dal quotidiano Hürriyet, una testata appartenente all’importante gruppo editoriale Doğan che un po’ di tempo fa ha licenziato il presentatore di Kanal D perché si era schierato contro la riforma di stampo presidenziale.

D’altronde la Turchia è nota per essere il Paese con più giornalisti nelle carceri: mentre scriviamo sono 162, secondo i dati in possesso del sito turkeypurge.com. Dopo il fallito tentativo di golpe dello scorso luglio ai danni di Erdoğan l’apparato repressivo e di controllo ha stretto ancor di più le maglie. I militari – i detentori dell’ordine nella Repubblica dopo la scomparsa dell’impero ottomano e che spesso si sono espressi nella storia recente del Paese attraverso lo strumento del golpe – non se la passano bene.

Certo, se questa riforma dovesse passare, il presidente della Repubblica Erdoğan – già chiamato sultano e raìs da più parti – avrebbe tra le mani un potere enormemente rafforzato.

Manifestazione di donne del Partito dei lavoratori del Kurdistan (da http://www.paoladepin.it/wp-content/uploads/2014/11/h_50762096-1.jpg)

Secondo il governo monocolore dell’AKP, che è al potere dal 2002 e che propone questo cambiamento, invece la riforma darebbe stabilità al Paese e più efficaci strumenti per combattere il terrorismo, che sia di matrice ISIS o dei curdi del Partito dei lavoratori del Kurdistan (che non si dichiarano più separatisti da anni, ndr) o dei gülenisti (gli ex amici di Erdoğan cioè i seguaci del predicatore e politologo Fethullah Gülen, autoesiliatosi negli Stati Uniti, ndr); come si sa, per il presidente sono tutti nemici.

Se i mezzi di comunicazione sono per forza di cose silenziati, dato il controllo costante del governo, i giorni che separano i protagonisti dall’appuntamento referendario si annunciano però caldi. È in gioco molto in un Paese invischiato nella guerra in Siria, con la disoccupazione crescente, aree molto povere e marginalizzate, la crisi del turismo in pieno svolgimento, la paura degli attentati e un caos interno dovuto alla questione curda irrisolta.

Questo referendum riguarda anche l’Europa che ha consegnato a Erdoğan molto potere siglando, giusto un anno fa, l’accordo sui profughi, che ha prodotto, stando ai dati rilasciati dall’ong Save the children, «5mila minori detenuti e migliaia di famiglie stipate in strutture ormai divenute veri e propri centri di detenzione» e non è certo servito a gestire in maniera idonea il fenomeno migratorio.

Ora la parola però passa al popolo turco.

Antonella De Biasi, giornalista professionista freelance. Ha lavorato al settimanale La Rinascita della sinistra scrivendo di politica estera e società. Collabora con Linkiesta.it e si occupa di formazione giornalistica per ragazzi