Di certo, a partire dagli anni 90, la crisi dei partiti della cosiddetta Prima Repubblica si è protratta in una progressiva occlusione dei canali tradizionali della partecipazione democratica, ai quali il berlusconismo dominante ha contrapposto con successo l’etica dell’adesione plebiscitaria a una leadership modellata sui canoni operativi dell’impresa, secondo i quali (come mette bene in luce Gustavo Zagrebelsky nell’articolo apparso sull’ultimo numero di Patria, http://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/elzeviri/ambientalismo-del-fare-democrazia-decidente/) la decisione prevale sulla discussione, l’efficacia della comunicazione sui contenuti e ogni manifestazione di dissenso è liquidata come inutile disturbo del manovratore di turno.

Malgrado il logoramento del modello qui sommariamente descritto, i motivi di quella stagione riecheggiano ancora oggi nelle scelte prevalenti di politica istituzionale, dal primato dell’esecutivo e del suo capo, alla valorizzazione della speditezza dell’azione di governo, all’insofferenza verso i richiami alla necessità di fare precedere ogni decisione rilevante da un’adeguata ponderazione dei diversi punti di vista e degli interessi in campo, nonché da un dibattito pubblico, quanto più possibile partecipato e trasparente.
Quali prospettive offre la riforma costituzionale recentemente licenziata in via definitiva dalle Camere? In verità, se si guarda al combinato disposto della riforma e della legge elettorale vigente, si deve concludere che gli elementi di continuità con il recente passato prevalgono su quelli di discontinuità: così che la critica alle vere o presunte aporie del bicameralismo perfetto si risolve in un esito incongruente rispetto alle innegabili esigenze di correzione di quel sistema, in quanto mirato a un ridimensionamento della rappresentanza democratica e della dialettica tra esecutivo e legislativo. Tale ridimensionamento è attuato non soltanto attraverso la soppressione di un ramo elettivo del Parlamento, ma anche con l’alterazione in senso esasperatamente maggioritario del meccanismo legislativo di traduzione dell’indirizzo espresso dal corpo elettorale in maggioranza politica; in questo modo si consolida la tendenza già in essere a limitare prerogative e poteri degli organi di rappresentanza, e in primo luogo del Parlamento, secondo uno schema già applicato nelle Regioni e nei Comuni, dove, peraltro la concentrazione dei poteri decisionali in organi monocratici elettivi (sindaco, presidente-governatore) non compensata da idonei meccanismi di check and balance, non sembra più così idonea ad assicurare la continuità e l’efficienza dell’azione di governo.
In altri termini, l’eventuale riduzione, condizionamento o coercizione della partecipazione è suscettibile di rimettere in discussione alcuni aspetti della natura stessa della nostra democrazia, il suo tratto insieme liberale ed egualitario, il suo fondamento democratico e personalista, così chiaramente messo in luce da disposizioni nelle quali sono accolte le istanze democratiche e sociali del movimento operaio e delle grandi correnti politiche popolari. Di qui la nota formulazione dell’articolo 49: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. Essa, articolando sul terreno politico il principio della libertà di associazione stabilito dall’articolo 18, dà corpo al principio pluralistico – implicito nel concetto del concorso con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale – e sancisce la discontinuità rispetto ai paradigmi elitari del costituzionalismo liberale e la condanna senza appello della visione totalitaria del partito-Stato.

L’interrogativo sull’attualità di questa disposizione non è peregrino. Le critiche al sistema dei partiti, peraltro, hanno accompagnato la nascita della Repubblica democratica, sin da quando uno schieramento moderato e a vario titolo nostalgico dei precedenti regimi, iniziò a polemizzare contro l’invadenza della cosiddetta esarchia, ovvero dei sei partiti che, uniti nel Comitato di Liberazione Nazionale, avevano guidato la Resistenza nel biennio 1943-’45: una polemica alla quale non furono estranee neanche le correnti che pure avevano agito nell’ambito dello schieramento unitario antifascista, tanto è vero che nel dibattito all’Assemblea Costituente il testo di quello che sarebbe diventato l’articolo 49, elaborato materialmente dal socialista Lelio Basso, incontrò l’opposizione di parlamentari liberali e azionisti, preoccupati che la norma provocasse un’eccessiva istituzionalizzazione della società civile, mentre fu sostenuta con convinzione dai deputati appartenenti ai partiti di massa (comunisti, socialisti e democristiani), il cui ruolo di protagonisti della transizione democratica li aveva posti peraltro al centro del rinnovamento del sistema politico scaturito dalla Resistenza.
Certo, negli anni successivi, la realtà ha duramente messo alla prova il modello partecipativo delineato dalla Costituzione, e le peculiari caratteristiche del sistema politico italiano hanno favorito la tendenza dei principali partiti a condizionare l’azione amministrativa e, più in generale, ad occupare in modo pervasivo le principali istituzioni, non solo politiche, ma anche economiche e sociali del Paese; gli scandali, gli episodi di collusione con la criminalità organizzata e i numerosi comportamenti illeciti si sono protratti ben oltre la fine della Guerra fredda e l’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica, e costituiscono l’esito di un uso spregiudicato dell’influenza politica come risorsa suscettibile di produrre vantaggi materiali non indifferenti per chi la detiene. Sotto questo profilo, il più volte rilevato scollamento tra politica e società nasce proprio dalla distanza tra la formula costituzionale, che attribuisce ai partiti un ruolo centrale ma circoscritto alla determinazione dell’indirizzo politico, e una realtà di invadenza dei partiti medesimi e di degrado dell’etica pubblica, che ha logorato la fiducia dei cittadini nelle organizzazioni chiamate a rappresentarli.
Su un altro versante, la declinante capacità di penetrazione nella società civile da parte di strutture politiche a carattere generale, ramificate sul territorio e guidate da un ceto politico professionale viene letta anche come segno della difficoltà a sostenere la concorrenza di altre e più efficaci agenzie di integrazione politica, in primo luogo la televisione e, da ultimo, la rete ed il sistema dei social network in grado di veicolare programmi, proposte e slogan in modo più penetrante e con effetti di coinvolgimento ben superiore di quelli prodotti dalla propaganda svolta sul territorio da militanti di partito. Da questa constatazione ha preso avvio la riflessione su nuovi e più moderni moduli organizzativi: dal partito “leggero”, svincolato dall’organizzazione territoriale e impegnato piuttosto nella competizione elettorale e nel sostegno al leader di turno, alle associazioni tematiche, ai comitati referendari, ai gruppi locali, impegnati su singole iniziative, fino alla nascita di aggregazioni che, animate dal condivisibile intento di valorizzare la partecipazione civica, hanno finito con il subire la fascinazione dell’equivoco plebiscitario, scambiando la partecipazione democratica con l’episodico assenso espresso nei confronti di una singola proposta o personalità, magari attraverso il filtro impersonale e distorsivo della rete. Ogni formula può trovare giustificazioni e motivazioni più o meno credibili, ma soprattutto negli ultimi anni è diventato sempre più evidente il dato della crescente difficoltà a costruire canali idonei a restituire realmente la parola ai cittadini e ai residenti sul territorio nazionale. L’astensione elettorale, che recentemente ha toccato livelli mai raggiunti, soprattutto in realtà caratterizzate storicamente da un elevato livello di integrazione politica, costituisce un monito e un serio invito alla riflessione su un punto dirimente per qualsiasi sistema democratico.
Da quanto detto finora si può ben comprendere che il recupero del valore politico e giuridico dell’elaborazione costituzionale sui partiti politici non può risolversi in uno sguardo nostalgico verso il passato, in quanto sono chiamati in causa non tanto profili organizzativi e funzionali, quanto principi fondamentali della vita democratica, quali l’esercizio della cittadinanza attiva come momento essenziale di attuazione del principio della sovranità popolare, l’attivazione dei diritti fondamentali come chiavi di accesso a beni materiali ed immateriali in assenza dei quali non si può parlare di eguaglianza effettiva, la garanzia della trasparenza e della democraticità del processo decisionale, come condizione di efficienza dell’azione dei pubblici poteri. Si tratta inoltre di questioni che non possono essere circoscritte entro la dimensione nazionale, dato che l’avanzata dei processi di globalizzazione della produzione e dei mercati fino ad oggi ha prodotto un incremento esponenziale delle diseguaglianze e delle povertà materiali e immateriali, cioè di quelle posizioni di svantaggio suscettibili di tradursi in una perdita dei diritti fondamentali di cittadinanza per milioni di individui. Nata in altro momento e chiamata a fronteggiare altre emergenze, la Costituzione italiana, in quanto indica la rimozione di quegli squilibri come un elemento qualificante dell’intervento dei poteri pubblici, sancisce principi e stabilisce indirizzi che pongono le premesse per affrontare anche i nodi dell’oggi, in sintonia con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e con gli stessi Trattati dell’Unione Europea, che, pur non prevedendo disposizioni specifiche sui partiti politici, non mancano di prescrizioni in ordine alla libertà di associazione e alla partecipazione politica attiva. Peraltro, proprio a proposito di Europa, non va taciuta la circostanza per cui oggi tutti gli osservatori più autorevoli e la gran parte degli schieramenti politici convengono nell’individuare la radice della crisi dell’Unione Europea proprio nel deficit democratico che affligge le sue istituzioni, nella loro scarsa o inesistente rappresentatività, nella carenza dei meccanismi di responsabilità per i quali ciascun centro decisionale è chiamato a rendere conto del proprio operato ad organismi legittimati dall’investitura popolare.
Pubblicato venerdì 22 Aprile 2016
Stampato il 01/12/2023 da Patria indipendente alla url https://www.patriaindipendente.it/servizi/tutti-i-cittadini-hanno-diritto-di-associarsi-liberamente-in-partiti/