Terza settimana di quarantena per l’Italia. Una quotidianità che, per chi non è pratico di romanzi distopici o di serie post-apocalittiche, è ancora scioccante, seppur entrata di forza in giornate piene di emozioni contrastanti, appese al bollettino delle 18 della Protezione civile sulla diffusione del contagio. In molti in questo periodo stanno usando il gergo e i tecnicismi della guerra, contro un nemico invisibile, contro qualcosa che viaggia sulle nostre gambe.
Questi giorni bui però – smentiti sovranisti e sciacalli di professione che fanno della politica un posto affollato della categoria del quaquaraquà, descritta da Sciascia ne “Il giorno della civetta” – testimoniano anche l’ipotesi di un “nuovo mondo” (prima forse solo immaginato e indicibile) meno arrabbiato, più compassionevole.
Di sicuro il mondo ci è entrato in casa da parecchio tempo, a causa delle merci che viaggiano più veloci delle persone. In questo scenario disperante e grigio che ci ha portato in dotazione il Covid-19 però c’è anche il dono della solidarietà. Esaurita per mancanza di prove concrete la becera retorica dell’aiutiamoli a casa loro, del ci portano malattie, dei porti chiusi, delle ong cattive e via con una serie di altre bufale, in Lombardia e in Veneto – oltre ai molti aiuti in forza lavoro, tra sanitari e altro, oltre a raccolte fondi provenienti dal resto dello Stivale – accogliamo con piacere delegazioni di medici stranieri.
Medici cubani, che per la verità hanno una lunga tradizione in questo tipo di interventi, dato che sono presenti in tutti i principali teatri di crisi del mondo da sempre (in fondo anche il Che era un medico); medici militari mandati dalla Russia e medici cinesi che per primi hanno affrontato l’emergenza del virus a Wuhan. Oltre a ong come Medici senza frontiere ed Emergency, organizzazioni composte anche da personale straniero, sempre in prima linea, anche qui in Italia per il coronavirus.
Pure chi ha poco ci dà una mano e questo è davvero rincuorante. Non è buonismo ma è preoccuparsi di altri esseri umani in difficoltà nel momento in cui, a causa di questo virus, molte certezze sono state spazzate via.
Anche chi non ha niente, chi è in un Paese in guerra o vive l’esilio lontano dai suoi cari e ha difficoltà a sopravvivere in questa gara di “solidarietà al tempo del coronavirus” ha pensato di mandare un saluto all’Italia. È il caso di alcuni gruppi di persone e associazioni appartenenti alla vasta diaspora curda che mercoledì 25 marzo alle 18 hanno organizzato un momento di solidarietà in favore degli italiani così provati da questa emergenza. L’iniziativa è partita da un comunicato del Congresso della società democratica curda in Europa (Kcdk-e) con sede a Liegi, in Belgio. “Il coronavirus, che è diventato un’epidemia a livello mondiale, ha profondamente colpito la popolazione italiana e ne ha completamente paralizzato la vita – scrivono –. Crediamo che il popolo dell’Italia supererà questa difficile situazione con la solidarietà di tutta la popolazione”.
Dai sobborghi di Parigi alla periferia di Stoccolma, passando per le molte città della Germania e dell’Austria in cui è disseminata la diaspora curda, da Gran Bretagna, Danimarca e Australia, perfino dalla Siria del nord martoriata dalla guerra con la cittadina di Kobane, simbolo di un’altra resistenza – quella dei combattenti curdi contro lo Stato Islamico troppo presto dimenticata – persino dal campo profughi di Makhmour nel Kurdistan iracheno (sotto embargo da 8 mesi) tanti curdi hanno applaudito e cantato in nome dell’amicizia con l’Italia.
Così dai balconi, dalle finestre, dall’interno delle abitazioni, da strade vicino a luoghi pieni di macerie che ancora hanno la puzza dei morti e del conflitto, i curdi hanno mostrato la loro vicinanza agli italiani. Vecchi, bambini, donne, ragazze con l’hashtag #lasolidarietàKurdiItaliani hanno postato sui social videomessaggi di incoraggiamento, hanno cantato “Bella ciao” in curdo, hanno postato foto di candele e messaggi di vicinanza.
I curdi protagonisti di questa “vicinanza via social” hanno fatto il possibile con niente, condividendo il loro affetto per l’Italia e per gli italiani con un messaggio virtuale. Tra le scritte sui cartelli si possono leggere in italiano (oltre che in curdo o nella lingua del Paese di emigrazione o in cui sono rifugiati politici) i messaggi: “Il popolo curdo al fianco dell’Italia”, “Solidarietà è resistenza”, “Non torniamo alla normalità perché la normalità è il problema”, “La salute è un diritto”.
Per comprensibili motivi, non ci sono container di mascherine, non ci sono medici, né apparecchiature per la terapia intensiva che arriveranno in dono all’Italia in questa storia. Eppure anche il calore di un gesto come questo può essere radice di un sentimento come la speranza.
Antonella De Biasi, giornalista e saggista. È stata redattrice del settimanale “la Rinascita”. È autrice e curatrice di “Curdi” (Rosenberg & Sellier 2018)
Pubblicato sabato 28 Marzo 2020
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