Il 2 novembre del 1975 veniva massacrato Pier Paolo Pasolini. La storia è nota, idem i processi, idem il dubbio, in alcuni, che si sia voluto in qualche modo sorvolare sulla verità di quella notte. Ma Pier Paolo, non smetto di chiamarlo per nome, torna anche senza la puntuale corona sul calendario. Fratello nel tremare davanti ai sacrilegi di certo progresso, fratello nel sentire pena per le innocenze, compagno del viaggio più ardito e profondamente, drammaticamente umano: realizzarsi d’amore e bellezza. E in questi ultimi due, tre mesi dove un pubblico dibattito che avrebbe dovuto raggiungere altissimi livelli di responsabilità, civiltà del confronto, limpidezza negli atti e atteggiamenti, Pier Paolo torna prepotente. Riaffiorano i suoi modi gentili e articolati del ragionare e dell’esporre, l’onestà, il non voltarsi dall’altra parte. Ma di più riaffiora la sua stagione della rassegnazione e dell’impotenza. La percezione di una sorta di irreparabile carattere italiano, del tutto ostile alla compassione, al rigore dell’intelligenza, alla memoria. Ed ecco quest’Italia, del ring permanente, della becera caccia al comando, delle patetiche e patologiche mostre di se stessi, degli inciucisti di professione, delle piccole, magre rincorse a soddisfarsi e sentirsi vivi, almeno per un giorno, almeno per una vecchia idea pure se morta e ben sepolta. Pier Paolo rende insonni, stimola fortemente seppure malinconicamente. E allora, riproporre una sua poesia sugli italiani diventa un moto irrefrenabile. La testimonianza di una disperazione ormai quasi compiutamente comune.

 

L’intelligenza non avrà mai peso, mai

nel giudizio di questa pubblica opinione.

Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai

da uno dei milioni d’anime della nostra nazione,

un giudizio netto, interamente indignato:

irreale è ogni idea, irreale ogni passione,

di questo popolo ormai dissociato

da secoli, la cui soave saggezza

gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.

Mostrare la mia faccia, la mia magrezza –

alzare la mia sola puerile voce –

non ha più senso: la viltà avvezza

a vedere morire nel modo più atroce

gli altri, nella più strana indifferenza.

Io muoio, ed anche questo mi nuoce.

(da Poesia in forma di rosa – 1964)