“Si è questa guerra sviluppata subito e nella coscienza universale e nei fatti come decisiva non di un modo qualsiasi d’esistere ma dell’esistenza stessa di uomini singoli e di popoli e razze, della esistenza insomma dell’uomo nell’esercizio libero del suo pensiero e del suo lavoro, che è la sua vita. […] Questa, se mai altra, è la guerra onde può attendersi l’uomo, secondo l’antico detto, fabbro della propria fortuna, l’individuo esperto di tanto male e ansioso finalmente del bene, l’individuo sì, che, superstite dell’eccidio, solo con la sua libera vita, fatta giustizia del nemico, riconosce intorno a sé negli altri superstiti i compagni e con quelli imprende la via”.
Siamo nell’inverno del 1944 e con queste parole Carlo Dionisotti pensa la situazione storica che sta vivendo, con quell’adesione distaccata – “attraverso una sfasatura e un anacronismo”, specificherebbe Giorgio Agamben – che caratterizza l’essere contemporanei ad un’epoca. Ovvero quella peculiare relazione col proprio tempo che permette di guardarlo negli occhi, cogliendo nel fascio di violenza e di tenebre che da questi promana una, seppur futuribile, luce. È un pensiero, quello di Dionisotti, radicato nella coscienza di vivere un momento dirimente, di potenziale non ritorno, dove in gioco non è la scelta, tra tante, di una qualsiasi forma di vita dell’uomo, ma la stessa condizione di possibilità della sua esistenza.
La Resistenza, componente specificante della guerra che si sta combattendo, è una lotta nella quale “può attendersi l’uomo”. Su due piani: l’uno, soggettivo – raccolto nel foro interiore della “questione privata” del Milton fenogliano, del “ti amo, Adriana” del Kim calviniano; l’altro, intersoggettivo – in forza del quale ci si riconosce tra i superstiti e, parimenti, si decide di divenire fautori corali di un nuovo inizio, un inizio che fa la storia, e non “ribadisce la catena”, chioserebbe sempre Kim. E sono queste le due polarità all’interno delle quali si intesse, in tensione dinamica, una nuova possibile antropologia. Un uomo che nasce sfigurato, perché, come appunta Roberto Battaglia, “il nemico stesso ci aveva educato alla morte, ci aveva consegnato, scarnito e solitario, il suo più cupo impulso. Egli era rimasto al di là, vestito da soldato, con i suoi gradi e i suoi distintivi […] L’odio che l’aveva portato fino a quel punto giaceva in lui come sommerso da un solido strato di indifferenza e di disprezzo: sembrava essersene liberato, dando a noi tutto il suo peso, attribuendoci quegli inumani lineamenti che erano in lui celati dalla maschera del soldato”.
L’apparire sulla scena pubblica del partigiano inizia quindi con il gesto di spoliazione della maschera normalizzante imposta dall’epopea nichilista fascista – la stessa epopea che aveva condotto al massacro della campagna di Russia – e con l’assunzione consapevole e responsabile, consequenziale al misconoscimento della Repubblica di Salò come stato, del peso e della gestione in proprio della violenza. Una responsabilità che è “totale”, perché, in primis, è vissuta dal resistente nella solitudine di una decisione che frattura la coscienza individuale, come scrive Jean Paul Sartre in un testo apparso clandestinamente nell’aprile del 1944. Secondariamente – nota sempre il filosofo francese in un testo successivo – “totale” perché il partigiano si carica la responsabilità degli effetti di ciò che lo ha condizionato fino a quel momento e continua a condizionarlo. In altre parole, la libertà del partigiano è irriducibile proprio perché non si presenta né come una libertà negativa – che cerca di liberarsi dai vincoli – né semplicemente come una libertà positiva – che cerca la propria attuazione in modo indipendente e irrelato. Il partigiano non fugge da ciò che lo costringe e lo ha costretto (e che, per la maggior parte dei resistenti, lo ha formato) – ovvero il fascismo con la sua educazione intrisa di relativismo e totalitarismo (come messo in evidenza da Theodor Adorno) – ma agisce e si muove all’interno della contingenza della situazione per stravolgerla, per cambiare il ritmo del tempo e delle cose, scrive Italo Calvino. Per mutare il segno della necessità che innerva la storia e, in questa minima ma allo stesso tempo fondamentale e assoluta differenza, vivere l’esperienza della lotta non solo come liberazione, ma come fondazione di un nuovo paradigma di libertà, di un nuovo ethos: una nuova dimora dove abitare. Questo è il senso dell’andare in montagna: dire no allo spazio civile delimitato dalle istituzioni repubblichine, per perimetrarne un altro, fondato su una pratica di libertà, intersoggettivamente e relazionalmente intesa, nuova. Animato da una, seppur in nuce, mentalità costituente.
Una precisazione è a questo punto doverosa. Lo sforzo soggettivo attuato dal partigiano per riprendersi la propria libertà non deve essere inteso come il frutto di un epico volontarismo. C’è una dinamica oggettiva, storica, che deve essere messa in evidenza. Scrive al proposito Camillo De Piaz: “La Resistenza […] nelle nostre condizioni non si poteva non fare. Erano condizioni in definitiva obbligate, il che, almeno per chi ha voglia e capacità di intendere, anziché sminuirne la grandezza la fa risaltare maggiormente. Che cosa vi può essere di più grande, di più storicamente ed esistenzialmente pregnante, di una necessità che assume la dimensione di una scelta?”. Il punto centrale sta proprio nella mobilità della relazione tra necessità e libertà, che transita per la dimensione della scelta. L’8 settembre 1943 può essere letto, con Jean Starobinski, come l’accesso, nella situazione storica, di un evento. Un evento, scrive Alain Badiou, nel momento in cui accade comporta la rottura della situazione per mezzo di un supplemento d’essere, istituendo la genesi stessa di una procedura di verità. L’evento nomina un “qualcosa” che prima non c’era. Quel qualcosa, quel nome nuovo che viene introdotto dall’8 settembre, è proprio quello della scelta. Dimensione sconosciuta, nota Primo Levi ne Il sistema periodico, nei programmi dell’educazione fascista. Riconoscere questa possibilità di scegliere, nel disordine dell’armistizio, permette di leggere quella data come un nuovo inizio. Come un’origine che si potrà attuare solo se ci sarà un “qualcuno” disposto a sorreggerne l’evoluzione. Quel qualcuno è proprio il partigiano, ovvero colui che, per prima cosa, sceglie di scegliere. Sceglie di diventare un soggetto resistente, di lasciare la normalità della sua esistenza per essere fedele al gesto stesso di continuare a scegliere (in questo consiste la procedura di verità della Resistenza). Ecco perché l’uomo “può attendersi” nella Resistenza e non è semplicemente “già” presente. Il partigiano, scrive Andrea Zanzotto, “viene e avviene”. Ovvero, nel foro di una coscienza da intendersi come compito e non come dato, sceglie di farsi “rompere” dalla scelta, di strapparsi dalla vita fascistizzata che ha vissuto fino a quel momento, per farsi “cogliere” in qualcosa di diverso. Per questo il partigiano non è né un “oltre” uomo né un “altro” uomo. Semplicemente agisce “da altro” uomo. “Solo quando sarà necessario e mai alla presenza di estranei si procederà ad un interrogatorio energico, altrimenti niente. Se è accertata la responsabilità del catturato si passa per le armi, ma mai maltrattamenti. Saremmo ancora fascisti”, ammonisce un dispaccio giellista nei tremendi giorni che precedono la Liberazione. Qui sta la grandezza della “normale dimensione umana” del partigiano, direbbe Beppe Fenoglio. Qui sta la sua nuova antropologia, che si presenta quindi come una pratica, come un’etica.
Matteo Cavalleri, dottore di ricerca in filosofia e autore di La Resistenza al nazi-fascismo. Un’antropologia etica (Mimesis, 2015). Attualmente è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Bologna
Pubblicato venerdì 16 Ottobre 2015
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