È il 21 agosto 1964 quando l’agenzia di stampa Ansa diffonde la notizia: «Con profondo dolore la segreteria del Pci annuncia la morte del compagno Palmiro Togliatti (1893-1964), avvenuta oggi a Jalta alle ore 13.20». Il quotidiano l’Unità, organo ufficiale del partito, esce in edizione straordinaria con la prima pagina listata a lutto e la scritta “Togliatti è morto”, descrivendolo come «un grande figlio del popolo italiano, un dirigente geniale del comunismo internazionale, un combattente che ha speso tutta intera la sua esistenza in una lotta dura e infaticabile per il socialismo, per la democrazia, per la pace». Quattro giorni dopo, Roma è invasa da oltre un milione di persone, accorse da tutta l’Italia e l’Europa a rendere omaggio al leader comunista. Una grande folla, commossa e in lacrime, assiste al passaggio del corteo che, per alcune ore, sfila da via delle Botteghe Oscure, dove è stata allestita la camera ardente, a piazza San Giovanni. Fra questi anche il pittore siciliano Renato Guttuso (1911-1987), che otto anni più tardi dedicherà a quella giornata una delle sue opere più conosciute, I funerali di Togliatti (1972), appunto, oggi conservato nelle sale del museo Mambo di Bologna.
La morte di Togliatti porta turbamento in chi non è preparato ad una simile notizia e scompiglio in chi, da sempre, è avverso alle sue idee politiche. La Chiesa, ad esempio, per tutta la durata delle esequie chiude la basilica di San Giovanni e le altre chiese disposte lungo il percorso del corteo, misura interpretata come una «muta disapprovazione per lo svolgersi di una solenne cerimonia funebre, non cristiana, in Roma cristiana, e proprio davanti alla sua cattedrale». Anche se piazza San Giovanni è la storica piazza della sinistra italiana da cui Togliatti tante volte aveva parlato al suo partito, alla sinistra e all’Italia tutta. Anche la Rai-Tv, quella del direttore generale Ettore Bernabei (DC), per l’occasione, si fa silente, decidendo di non trasmettere la diretta delle onoranze funebri ma semplicemente una sintesi registrata dopo il telegiornale delle 23.
Guttuso sceglie di dedicare all’evento una imponente tela di quattro metri e quaranta per tre e quaranta. Si tratta di un racconto senza tempo dove convivono tante personalità che hanno fatto grande il movimento comunista, il sindacato, l’intellettualità e il Pci, a significare che le idee superano la morte e che, insieme, si può lottare per una società migliore. Il dipinto, divenuto il manifesto del Pci, racconta un’epoca e, con lirismo poetico, mostra, tutti insieme, i leader del Pci e il popolo dalle bandiere rosse, uniti nell’ultimo saluto a Togliatti, l’uomo che fece del Partito comunista un grande partito di massa, soggetto fondamentale della democrazia repubblicana. Un quadro, questo di Guttuso, profondamente corale dove a rendere omaggio alla salma di Togliatti, ci sono donne e uomini, contadini e operai, impiegati ed emigrati italiani, studenti e intellettuali, dirigenti di partito e rappresentanti delle istituzioni.
Fra la folla, rigorosamente tracciata in bianco e nero, spiccano i grandi del comunismo internazionale: molti Lenin, Antonio Gramsci ed Enrico Berlinguer che proprio nel 1972, anno in cui Guttuso realizza l’opera, viene eletto segretario del Pci; si riconoscono Luigi Longo, Giuseppe Di Vittorio, Giorgio Amendola, Giancarlo Pajetta, Pietro Ingrao, Alessandro Natta, Nilde Iotti, papà Cervi e molti altri, fra cui lo stesso artista; troviamo poi due importanti donne comuniste Dolores Ibarruri e Angela Davis, che in epoche e continenti diversi hanno lottato contro il fascismo e la segregazione razziale; si intravede infine anche Giuseppe Stalin e Leonid Brezhnev.
È lo stesso Guttuso che racconta la genesi dell’opera: «Cominciai – ricorda l’artista – col disegnare più volte il profilo di Togliatti. Qua il primo problema. Gli occhiali. Era difficile renderlo a tutti riconoscibile senza gli occhiali…. Circondai il profilo con un collage di fiori ritagliati da alcune riviste di floricultura. Poi cominciai a mettere, attorno a quel punto focale, i ritratti dei suoi compagni, quelli con i quali aveva avuto i più stretti rapporti di lavoro, nell’esilio, in Spagna, in Unione Sovietica. Tenendo conto dei rapporti con Togliatti e non della loro presenza effettiva ai funerali». Il pittore racconta l’evento con minuzia di dettagli, regalando alla composizione tutta la commozione e l’emozione di un popolo che da tutto il Paese si raccoglie attorno al suo leader, padre della democrazia italiana, basata su una Costituzione antifascista e fondata sul lavoro. Un popolo che con la propria presenza partecipa da protagonista ad una storia più grande e, con pugno chiuso, bandiere rosse e testa alta, si ferma per un lungo istante di dolore.
Guttuso è un abile cronista: con il pennello racconta i grandi eventi del suo tempo, dai fenomeni di massa alle realtà sociali in trasformazione, non limitandosi a una descrizione asettica ma rappresentando i desideri e le speranze di una parte della società, composta dal mondo popolare del lavoro e della cultura progressista. Una scelta realista, la sua, nata fin da giovane e maturata sotto il fascismo, declinata sia nella partecipazione alla vita politica sia nella pittura: «L’arte – afferma l’artista – non si fa per “grazia” di Dio o per rivelazione. Dio non c’entra né la grazia ma solo la quantità di noi stessi come sangue, intelligenza, vita morale, che ci si butta dentro». Già nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, Guttuso realizza alcune tele dal forte contenuto sociale, come Occupazione delle terre incolte in Sicilia (1950), la Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio (1952) o ancora La zolfara (1953). L’artista mostra la vita delle donne e degli uomini, divenendo di fatto il pittore della sua epoca.
Francesca Gentili, critica d’arte
Pubblicato venerdì 23 Settembre 2016
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